I riti di comunione e di congedo.

 

Il concetto di sacrificio non implica per sua natura una partecipazione alla mensa dopo che il sacrificio stesso si è compiuto. Nella tradizione cristiana, tuttavia, sin dalle origini la celebrazione dell’Eucarestia è stata considerata offerta e convito e quindi coloro che partecipano sono invitati a mangiare. La preghiera del Padre nostro per antica tradizione apre i riti preparativi per l’ingresso al cenacolo pasquale, in cui si ricevono come nutrimento il Corpo ed il Sangue del Signore. Le parole che la Chiesa riceve in dono dal Messia sono domanda di perdono e perdono delle offese prima di ricevere il sacramento dell’unità. Il testo è introdotto da un prologo sacerdotale (Obbedienti…) e viene concluso da una preghiera che riprende le ultime parole del testo evangelico (liberaci da tutti i mali…) e si spinge in una direzione escatologica (…nell’attesa che si compia la beata speranza e venga il nostro salvatore Gesù Cristo). L’assemblea risponde con una formula dossologica, che nell’antica tradizione del testo di Didachè si trovava alla fine del Padre nostro: Tuo è il regno, tua la potenza e la gloria nei secoli.

L’augurio di pace è legato al successivo gesto di scambio del dono della pace. La collocazione liturgica del gesto dipende dal senso teologico che vi si attribuisce. In alcune tradizioni liturgiche, infatti, il gesto era anticipato e si trovava prima della liturgia eucaristica, come attualmente avviene nel rito ambrosiano. In questo caso è segno che il popolo vive un’esperienza di comunione ed innalza al cielo un’unica preghiera, prima che sull’altare si compia il mistero: scambio di pace come segno dell’Eucarestia. Esiste tuttavia un’altra interpretazione, che ha avuto maggior fortuna nella nostra tradizione liturgica latina. Il gesto di pace si compie immediatamente prima della comunione eucaristica, perché costituisce una preparazione immediata alla fase della consumazione del sacrificio. Se poi si pensa che il canto dell’Agnello di Dio si conclude con la formula dona a noi la pace, si comprenderà che esiste un legame tra la litania di frazione del pane ed il dono della pace, concesso dal Padre e custodito – in maniera più o meno integra– dalla comunità ecclesiale.

Il canto o la recita dell’Agnus Dei costituisce una litania ed accompagna la frazione del pane. Una preghiera di sua natura vocativa, espressa con il nominativo di un appellativo divino (agnus), considerato indeclinabile per tradizione e rispetto verso i nomi divini, è unita all’aggettivazione che togli i peccati del mondo, riservata alla misericordia di Dio creatore. Il Messale raccomanda di ripetere le parole dell’invocazione, fino a che il sacerdote non ha completato la divisione del pane per tutti i comunicanti: alla fine l’assemblea conclude con la formula dona a noi la pace. La ripetizione solo ternaria è il frutto di una comoda prassi che prevede l’uso di particole già divise in dischetto prima dell’inizio della celebrazione. Questo uso, però, nega all’assemblea la percezione simbolica e visiva di nutrirsi dell’unico pane, che viene spezzato per la cena di tutta la comunità. Se tutta l’azione celebrativa era identificata all’origine con la formula “frazione del pane”, adesso questo non è più letteralmente possibile. Assemblee adeguatamente istruite, guidate da pastori altrettanto preparati, sono capaci di attendere la frazione di uno o più pani grandi in piccoli pezzi, da distribuire nella comunione, perché vi leggono non la funzionalità del gesto, ma la piena e reale anticipazione di una distribuzione, che è evento celebrativo e non solo pragmatico. Il tenore del testo dell’Agnus Dei è fortemente biblico, se si pensa soprattutto ai cantici dell’Apocalisse all’Agnello immolato (Ap 5,7-13; 7,10-17; 14,1-4; 15,2-4;19,6-9). La liturgia riprende il tema della preghiera litanica con una ostensione: Ecco l’Agnello di Dio, che toglie i peccati del mondo. L’assemblea lo invoca, mentre il sacerdote prepara le parti da distribuire, quindi l’invocazione trova risposta: il sacerdote mostra ai fedeli l’Agnello. Il testo prosegue con la dimensione della beatitudine, tratta da Ap 19,9: Beati gli invitati alla cena di nozze dell’Agnello. L’assemblea radunata è la sposa, invitata alla cena di nozze, che partecipa sponsalmente al banchetto. Si comprende così che l’accento va posto più sull’esultanza e la gioia dello sposalizio, incontro sponsale tra Cristo e la sua Chiesa, che sulla dimensione penitenziale del miserere, abbi pietà di noi. Le parole del centurione a Gesù: non son degno che tu entri sotto il mio tetto, dici solo una parola ed io sarò salvo (Lc 7,6-7), sono la risposta alle parole della beatitudine. Possono essere collocate solo nel contesto celebrativo, in cui l’assemblea è destinataria del dono messianico e chiamata a partecipare del suo Corpo e del suo Sangue. Le parole del centurione, in bocca all’assemblea assumono una sfumatura di significato diversa: l’entrare di Gesù nella casa, in contesto liturgico indica la partecipazione dell’assemblea alla sua mensa. Il concetto di indegnità indica una richiesta di salvezza prima della comunione. Il singolo, insieme a tutti gli altri, si professa indegno di prendere parte alla mensa, ma l’intervento del Cristo può renderlo idoneo a prendervi parte. Di nuovo, va sottolineata con forza la gioia del ricevere il pane eucaristico a discapito di una pietà che vorrebbe il battezzato in concentrazione sulla sua miseria ed inadeguatezza. Esistono momenti di vita cristiana per la contrizione (da contero, spezzare fino a ridurre in frantumi), ma l’accostarsi al Pane-Vino è esperienza di esultanza profonda e gioia, incontro nuziale con l’Agnello, Signore della vita.

Subito dopo la frazione del pane, accompagnata dalla preghiera litanica, il sacerdote mette nel calice un frammento del pane consacrato, per significare l’unità del Corpo e Sangue di Cristo nell’opera di salvezza (IGMR 83). Gesto talvolta compiuto frettolosamente e svuotato del suo significato, racchiude molteplici valenze, storiche e simboliche. Una prima tesi individua nella rubrica un legame con il rito del fermentum. Papa Innocenzo I nella lettera a Decenzio, vescovo di Gubbio (416), racconta che il papa inviava ai sacerdoti che celebravano entro il confine delle mura di Roma una parte di pane consacrato, per sottolineare la comunione con lui. Tracce di questa prassi si trovano anche nell’antichità, per esempio in uno scritto di Ireneo (+ c. 202) a papa Vittore. Tuttavia, questa ipotesi non sembra plausibile, perché il frammento di ostia che il sacerdote colloca nel calice non viene da un’altra celebrazione. La prassi sembra invece trarre origine da ciò che attesta l’Ordo Romanus I. Nella celebrazione eucaristica, prima della comunione il papa prende un pezzo del pane che ha appena consacrato e lo mette nel vino. Un modello rituale che rimarrà in vigore fino ad oggi.

Stiamo ancora aspettando che i pastori (o i collaboratori delle sacrestie) abbandonino la prassi di comunicare i fedeli con ostie consacrate in precedenza ed invece preparino in ogni celebrazione le ostie sufficienti per la comunione, in modo che ciascuno sia comunicato con il pane consacrato nella messa a cui partecipa. Questo garantisce una visibilità al mistero celebrato e mette in risalto che la preghiera del sacerdote e dei fedeli ottiene dal Padre il dono dello Spirito Santo, in forza del quale pane e vino si trasformano nel corpo e sangue del Signore. La Comunione, poi, esprime con maggior pienezza la sua forma di segno, se viene fatta sotto le due specie (IGMR 281). Il vescovo diocesano può determinare le celebrazioni nelle quali sia possibile comunicare al pane ed al vino. Il medesimo vescovo, inoltre, può concedere ai pastori cui sia affidata la comunità di stabilire egli stesso i casi in cui ritenga opportuno distribuire ai fedeli la comunione sotto le due specie.

Alla comunione si accede processionalmente. Il movimento processionale, a ben riflettere, è duplice: dall’altare il ministro reca l’Eucarestia all’assemblea, mentre l’assemblea lascia il suo posto e si reca in processione verso l’altare, al quale si distribuisce l’Eucarestia. L’incedere dell’assemblea racchiude una forte componente escatologica, perché è cammino di tutta la Chiesa incontro al Signore, immagine simbolica di un cammino che dura una vita e si conclude da risorti nell’incontro con il Risorto.

Giunti davanti all’altare, le parole di Cirillo di Gerusalemme sono istruzione e catechesi: egli raccomanda di fare con le mani un trono per accogliere e ricevere il re. S. Agostino spiega che si risponde Amen all’annuncio il Corpo di Cristo, perché amen significa è vero. La risposta è l’assenso al mistero celebrato. Processioni disordinate, simili a code di attesa, in cui ciascuno spintona o tenta di avanzare sugli altri, sminuiscono il contesto celebrativo solenne e misterico in cui si riceve il grande dono del pane eucaristico. Assemblee poco avvezze ad un ordine che scaturisce spontaneo dalla grandezza del mistero che si compie, si concedono saluti e convenevoli, si distraggono nello sfoggio da passerella, si confondono nel moto di andata e ritorno della processione alla comunione. La posizione delle due mani, ancora non sufficientemente chiara ai fedeli e forse anche ai pastori, la trascuratezza nel rispondere amen alla solenne enunciazione del ministro che ostende il corpo del Salvatore, mostrano quanto sia ancora lungo il percorso per un compimento pieno e reale dell’itinerario di partecipazione attiva dell’assemblea. Il cammino verso l’altare è moto all’incontro con Dio, tragitto orientato alla comunione con l’assemblea, attraverso la partecipazione al pasto comune e la condivisione dell’unico pane. E’ momento culminante ed insostituibile di partecipazione: da nulla può essere interrotto o turbato. Anzi, viene accompagnato da un canto processionale, il cui tema è sintetizzato dal salmo 33 Gustate e vedete quanto è buono il Signore, beato l’uomo che in lui si rifugia. Chi cerca il Signore non manca di nulla.

Lo scopo del canto di comunione è illustrato nella IGMR, n. 56i. Il canto esprime, mediante l’unità delle voci, l’unione spirituale di coloro che si comunicano, mostra la gioia del cuore e rende più fraterna la processione per il ricevere il Corpo di Cristo. Segue un tempo di silenzio, diverso dall’assenza di rumore; pausa eloquente, che racchiude la contemplazione del mistero, ed esclude la vacuità di parole inadatte ad esprimere l’esultanza di ogni cuore. Il silenzio dopo la comunione, pertanto, è rituale nel senso che è parte integrante della celebrazione e non può essere riempito con musiche o canti di sottofondo, ma deve conservare la sua essenza.

L’orazione dopo la comunione è caratterizzata dalla brevità e si orienta al tema del ringraziamento, per chiedere nei partecipanti l’efficacia del mistero celebrato. Segue la benedizione, carica e caricata di significato. Quando si benedice nel nome del Signore viene assicurato il suo aiuto, annunziata la sua grazia, proclamata la sua fedeltà all’alleanza. La benedizione conclusiva sottolinea che la Chiesa attinge la grazia e la forza dal sacramento dell’Eucarestia e per la partecipazione all’Eucarestia diventa sacramento universale di salvezza.

La formula lapidaria Ite, missa est è intraducibile, perché depauperata del suo significato di imperativo (ite), che vincola i partecipanti all’Eucarestia all’impegno di annunciare. Missa est ritiene il senso di compimento del mandato. Tutti sono missi, da mitto, inviati nel mondo ad annunciare, con la forza di quel cibo, che il Regno dei cieli è vicino, si compie la promessa antica, il Messia risorto vi associa alla sua risurrezione, fino al giorno della sua venuta. Non, quindi, annuncio di compimento, di fine: ma inizio di una missione, che trae dall’Eucarestia la forza per intraprendere nuove strade, con nuova energia. La Messa non finisce, non si compie, ha un’apertura ed una chiusura, ma al contrario delle cose umane l’inizio è introduzione nel contesto della lode, la conclusione è passaggio dal celebrare al vivere, dal contemplare all’annunziare, dal culto al Dio dell’amore all’amore-carità verso tutti.

Infine il bacio di venerazione dell’altare, ultimo gesto, che esprime la gratitudine per il mistero che si è celebrato e compiuto su di esso. Questo itinerario – breve e incompleto – sul santo sacrificio si conclude con una forma parallela, sintagmaticamente diversa dal gesto del bacio. La preghiera che il rito siriaco e maronita fa recitare al sacerdote, prima di lasciare l’altare.

 

Rimani nella pace, altare santo del Signore. Io non so se mi sarà dato di ritornare a te, ma il Signore mi conceda di rivederti nell’assemblea dei primogeniti iscritti nei cieli; poiché in quest’alleanza io ripongo la mia fiducia. Rimani nella pace, altare santo e santificatore. Il corpo ed il sangue che ho ricevuto da te mi ottengano la remissione dei peccati e la sicurezza davanti al tremendo tribunale del nostro Signore e Dio, per sempre. Rimani nella pace altare santo di Dio, mensa della vita. Intercedi per me, perché io non lasci di pensare a te, ora e nei secoli dei secoli. Amen.

 

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Ultimo aggiornamento: 04-12-06