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XXX Domenica
Tempo Ordinario 28 ottobre 2001
Analisi e commento del brano
di Lc 18, 9-14
Più volte sfogliando qua e là
tra i volumi, perlomeno della seconda metà del secolo andato, ci
rendevamo conto di una svolta. Qualcosa svolta, o, accade una svolta
quando vi è come una torsione rispetto ad una condizione precedente.
Non si tratta di una conversione, o di una inversione, ma di una
curvatura che si inarca più lentamente ma inesorabilmente. Vi è
stata una svolta che si può rappresentare sotto diverse immagini
e che è stata sostenuta da i più svariati modelli teorici. Una pendenza
che dall’interno ci ha portati all’esterno, dal pensiero ci ha condotti
al linguaggio, dal Medesimo ci conduce all’Altro. Potremmo continuare
all’infinito e ci perderemmo in qualcosa che probabilmente non ha
fine. Assistiamo insomma ad una sempre maggiore “presa” di coscienza,
ma questo appare già come un paradosso, di una condizione che, insieme,
simul, ci appartiene e ci si allontana, ci riguarda, ma dal di dentro
di un sentiero, se ci è permesso richiamare un’immagine heideggeriana,
muovendoci al di dentro del quale, scorgiamo, un passo dopo l’altro,
delle crepe che ne disegnano in tutto e per tutto i contorni. Una
condizione che il prof. Rovatti direbbe, paradossale, come di un
“abitare la distanza”, paradiso e dannazione, che definiamo con
lui e con altri, etica. Una sorta di veglia, per la quale, pensandoci
nel tempo come essenti di desiderio non possiamo non esperire questo
strazio del già e del non ancora. La giustizia, o riferendoci al
brano in questione, la giustificazione, si svela qui, in un “afferramento”,
già parziale, perché siamo nel tempo, di una condizione in cui l’identità
si sveste del proprio, non per abbandonarsi, ma per guardare in
faccia il proprio stato di cose, la propria condizione di bisogno
e di bilico, già sempre tra sé e altro.
Il brano che commentiamo questa
settimana, ben noto ai frequentatori del vangelo, ma probabilmente
anche a coloro che lo frequentano un po’ meno, presenta una parabola
di Gesù i cui protagonisti sono un fariseo ed un pubblicano che
si recano al Tempio a pregare. Non è difficile scoprire il motivo
per cui questa parabola viene raccontata. Luca stesso infatti ne
offre la motivazione: “… per alcuni che presumevano di essere giusti
e disprezzavano gli altri…”.
Il contenuto della parabola
mette in scena prima il fariseo che con fierezza “stando in piedi”,
ringrazia Dio per non essere ingiusto come “ladri, ingiusti, adulteri
e neppure come questo pubblicano…”. Per lo stesso fariseo la garanzia
della propria condizione di giustizia è data dal doppio digiuno
settimanale e dal pagamento delle decime di quanto possedeva.
Il pubblicano, nella parabola,
si presenta in una veste molto diversa. La sua stessa condizione
di pubblicano lo pone in una posizione di svantaggio, rispetto al
fariseo. Tuttavia, in esso freme qualcosa di più, qualcosa che ci
fa intuire un atteggiamento del tutto radicale rispetto al dogmatismo
del fariseo. Il fariseo si ferma “a distanza” (come ci piace questa
parola!!); inoltre “non osava nemmeno alzare gli occhi al cielo,
ma si batteva il petto dicendo: O Dio, abbi pietà di me peccatore”.
Ora, tutti, solitamente, lodiamo
l’umile, poiché esso è colui che pur meritando riconosce pubblicamente
di non essere all’altezza delle sue stesse capacità. Non siamo così
soliti, invece, lodare colui che riconosce la propria condizione,
diremmo, di inferiorità, quando questa, più che uno sfoggio di modestia,
rivela il reale stato di cose. Il ladro che si riconosce tale fa
tenerezza, riscuote una “certa” ammirazione, ma se l’ha combinata
grossa difficilmente riesce a meritarsi un complimento per il suo
atto di sincerità. Colui a cui è tolta per vari motivi un’identità,
che è tale in relazione ad un gruppo di riconoscimento, in effetti
raramente viene riconosciuto.
La differenza tra il primo e
il secondo, nel brano che tentiamo di analizzare, sta nel fatto,
che mentre il primo si riconosce, come uomo, come parte di una categoria,
come giusto, come colui che prega per non diventare simile a “questo
pubblicano…” (che nel brano è accodato a ladri, ingiusti e adulteri),
il secondo, tutto ciò che riesce a riconoscere è la sua non-condizione
di pubblicano, che equivale a dire uno stato di umanità per cui
tutto ciò che può rientrare in un insieme di elementi positivi,
è per ciò stesso negato. Pubblicano come anti-fariseo, quindi, che
in questo caso è il prototipo dell’uomo che non ha bisogno di domandare
perché non ha più bisogni: la sua identità di fariseo, gli fornisce
tutto ciò di cui necessita. La preghiera che egli rivolge a Dio
è in realtà un paradosso, poiché egli non domanda niente di più,
bensì solo di non essere di meno (o quello che secondo il suo giudizio
è meno della condizione che già riveste).
Ma tutto ciò non è contraddittorio
rispetto a ciò che il vangelo ci insegna? Lo è eccome! Vangelo significa
“buon annuncio” e diverse volte il Signore stesso menziona tra le
sue intenzioni fondamentali, quella di essere venuto per peccatori,
non per i giusti. Nel pubblicano vi è una tale coscienza di questa
condizione kenotica di privazione, che il suo stesso “abbi pietà
di me” risuona infinitamente più autentico di ogni precettistica
farisaica. Qui non si tratta di vedere chi è più bravo tra i due,
ma di riconoscere il deserto la schiavitù e il deserto come le condizioni
senza le quali non vi sarà terra. Non il peccato e il male come
necessità, bensì come possibilità dalle quali Dio è costantemente
disposto a salvarci. Ma per chi in tutto ciò non si riconosce, difficilmente
vi sarà occasione di salvezza. Le cose si ribaltano e il giusto
non può far altro che sguazzare nella propria palude.
Antonio
Siena
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