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XXXII Domenica
Tempo Ordinario 11novembre 2001
Analisi del Vangelo di Luca 20, 27-38
Il brano
che la liturgia presenta questa settimana offre interessantissimi
spunti di riflessione riguardo il significato di ciò che abbiamo
sempre sentito nominare come “l’al di là”, a volte come il Paradiso,
altre volte in termini più esistentivi come “resurrezione”.
Nel brano
il Maestro si imbatte in un gruppo di Sadducei, noti per la loro
dottrina che non prevedeva la resurrezione dopo la morte. Se consideriamo
la struttura del testo nella sua completezza, vista la possibilità
di omettere alcune parti nella versione breve, possiamo individuare
due fasi fondamentali:
1) I sadducei
“i quali negano la resurrezione” si pongono in contrasto con Gesù
cercando di metterlo in difficoltà col quesito su una donna che
sposa, perdendoli tutti ad uno ad uno, sette fratelli. Il quesito
pone il seguente problema: “Questa donna dunque, nella resurrezione,
di chi sarà moglie? Poiché tutti e sette l’hanno avuta in moglie”.
Evidentemente, pur apparendo lecita, la domanda dei sadducei, è
in realtà del tutto smirata rispetto al significato che riveste
la resurrezione nella visione di Gesù e per conseguenza nei vangeli.
2) Tale decentramento
rispetto al senso pieno della resurrezione è recuperato da Gesù
nella seconda parte del brano, dove con un’artificiosa torsione,
rispetto ai termini della discussione così come erano stati posti
dai sadducei, Gesù riporta il discorso su binari più adeguati al
contenuto del discorso. I sadducei, infatti, sono interessati, com’è
tipico delle figure che la narrazione evangelica mette di solito
in scena per contrastare la parola del Maestro, più che alla sostanza
di una possibilità che il senso dell’esistenza debordi la linea
di confine dell’esistenza umana, al tentativo di dimostrare il contrario,
con sofismi sottili, pur di demolire la credibilità della buona
notizia.
Gesù prende
spunto dall’esempio sul matrimonio apportato dai nostri sadducei
e, con destrezza sposta l’obiettivo su tutt’altro problema, che
quello del chi sarà marito della “sette volte” vedova dei fratelli
defunti in un’eventuale vita futura: “Gesù rispose: i figli di
questo mondo prendono moglie e prendono marito; ma quelli che sono
giudicati degni dell’altro mondo e della resurrezione dai morti,
non prendono moglie né marito”. Gesù per prima cosa prende le
distanze dalla possibilità che una donna sposata possa fruire del
dono della Vita. Evidentemente non significa, se non in senso provocatorio,
che chi si sposa non può aspirare ad una pienezza di vita, bensì
che l’eventuale discorso sulla pienezza riguarda uno stile di vita
per cui ciò che di più quotidiano esiste va vissuto e fruito con
altri sensi, con altra testa, con altro cuore.
La famiglia
è forse ciò che più di tutto ci ricorda la vita nel suo svolgersi
mondano. Chi vuole farsi degno della pienezza che solo Dio può donare,
vive l’esistenza, appunto, dentro una vitalità che è propria non
di questo ma “dell’altro mondo”. Attenzione, però, non un
mondo ultra storico, bensì un altro mondo nel senso di “un mondo
altro”, dove per “mondo altro” va intesa la possibilità
che la logica del mondo nella sua accezione negativa, venga ribaltata
in un logica dell’altruismo, del vivere il mondo come spazio etico
di scissione tra questo mondo e un mondo utopico di liberazione.
Operato questo
distacco narrativo, rispetto alla posizione ambigua dei sadducei,
Gesù può permettersi di affermare la coincidenza dell’essere figli
di Dio con la Vita Piena, senza dover incorrere in pseudo problemi,
quali, quello posto dagli avversari: “… e non possono nemmeno
più morire, perché sono uguali agli angeli e, essendo figli della
resurrezione, sono figli di Dio”. Percorre l’esistenza secondo
il ritmo faticoso del “mondo altro”, ridando al tempo quotidiano
tutta un’altra musicalità, significa rifare con mani, gambe, testa
e cuore, ciò che Dio opera già da sempre per l’uomo nel suo progetto
di salvezza. Significa rendere operante la responsabilità del fatto,
che vi è una liturgia delle strade da celebrare al fine di una liberazione
profonda delle comunità umane dalle strutture di oppressione. Entrare
in quest’economia dischiude le porte della pienezza per la quale
possiamo dirci figli nel Figlio. La trasposizione etica del problema
della resurrezione, risolve in questo modo il problema futile del
come un’eventuale resurrezione possa avvenire, poiché il come si
scrive storicamente nell’uomo affranto che, ricevendo da Dio il
dono della liberazione, può permettersi di elargirlo ai propri fratelli.
La parte
finale del racconto appare piuttosto curiosa, perché dopo aver,
in qualche modo, reinterpretato il problema sotto un’altra angolatura,
Gesù torna paradossalmente all’autorità della scrittura affermando:
“Che poi i morti risorgano, lo ha indicato anche Mosè a proposito
del roveto, quando chiama il Signore: Dio di Abramo, Dio di Isacco,
Dio di Giacobbe”. La ripresa dell’autorità della tradizione
ha evidentemente un senso tutt’altro che banale. Si tratta di riscoprire
tale senso, però, alla luce della sua vitalità originaria, che è
in tutto e per tutto una vitalità etica, in cui tradizione e dottrina,
linguaggi di fondo, vengono ad inverarsi nella pratica del Bene
per l’altro, in una coincidenza di significati che fanno scaturire
quella Pienezza di Vita che è la risposta più grande di Dio all’uomo
e il dono più grande dell’uomo all’altro uomo.
“Dio non
è Dio dei morti, ma dei vivi; perché tutti vivono per lui”
Purtroppo,
ultimamente abbiamo dovuto rinunciare ad una certa puntualità nel
presentare le nostre letture, per via dei vari impegni che il sottoscritto
non riesce bene a far quadrare. Speriamo di riuscire, nelle future
occasioni, a rendere un servizio adeguato all’urgenza che la Parola
richiede.
A presto,
Antonio
Siena
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