XXVI Domenica
Tempo Ordinario 30 settembre 2001
Analisi e commento del
brano di Lc 17, 5-10
La
possibilità che il tempo sia un buon tempo, un tempo buono
e così un tempo di bene, ci mantiene nel rischio di una condizione
che può divenire la/il nostra/o stessa/o fine. Come un gioco implacabile,
per il quale la responsabilità dell’aut-aut in ballo, quello
tra bene e male, potrebbe ad un certo punto essere l’ultima, la
sola, la decisiva. Un bilico, insomma, per il quale, quasi neppure
la morte sembra in grado di poter congelare a tal punto i sensi
e le facoltà che ci appartengono. Il Bene, tanto spesso da noi
ricordato, un ideale mai abbastanza vicino e tuttavia mai così
prossimo, ci interroga dall’ombra di responsabilità che non riusciamo
a far fruttare, come a dirci che il tempo, in quella sua crepa
che ne diviene come il tramite di produzione, potrebbe tramutarsi
nella più tetra delle condanne.
Le letture di questa settimana,
il vangelo come le altre presentate dalla liturgia, accorate più
che mai, si alleano in un inno all’unisono, un inno alla giustizia
in favore dei miseri e degli oppressi e di morte per gli oppressori.
Un richiamo totale, questo, alla totalità dell’uomo e dell’umanità.
Un appello che risuona come un comando ed una preghiera.
Vediamo di lasciarci guidare
dal testo.
Il vangelo di questa settimana
ci offre una parabola, che narra di due uomini le cui sorti sono
una l’opposto dell’altra e insieme profondamente legate.
Una prima parte della parabola
offre alcuni spunti per individuare l’identità dei due. Il primo
“… un uomo ricco, che vestiva di porpora e di bisso e tutti
i giorni banchettava lautamente”; il secondo, chiamato Lazzaro,
di professione mendicante, che “…giaceva alla sua porta [alla
porta del ricco], coperto di piaghe, bramoso di sfamarsi di quello
che cadeva dalla mensa del ricco”. Di quest’ultimo si aggiunge,
quasi a volerne sottolineare la condizione di immensa miseria:
“Perfino i cani venivano a leccare le sue piaghe”.
Di questa prima parte ci pare
importante sottolineare il fatto che, nella sua infinita miseria,
il povero possiede un nome, mentre il ricco è “un uomo ricco”,
cioè un pinco pallino qualunque. Non dimentichiamo che
presso le culture semitiche, possedere un nome, possedere il proprio
nome, significa avere un’identità, magari uno straccio d’identità,
ma pur sempre un’identità.
La seconda parte narra della
morte dei due e del loro destino ultimo. Non entriamo in questo
momento in lussuose disquisizioni escatologiche e soffermiamoci
sulla materialità del testo, sulla sua lettera.
“Un giorno il povero morì
e fu portato dagli angeli nel seno di Abramo. Morì anche il ricco
e fu sepolto”. È interessante notare come la condizione precedentemente
narrata, in un certo senso, da questo punto in poi, si ribalti.
Colui che prima occupava una posizione di netto svantaggio, rispetto
a condizioni ottimali di vivibilità, ora è accompagnato direttamente
da una schiera d’angeli in una condizione di totale pienezza (sia
gli angeli che il seno di Abramo sono evidentemente delle metafore
che stanno ad indicare una totale accoglienza da parte di Dio
presso la sua pienezza di vita e d’amore). L’altro, invece, che
godeva di una posizione di privilegio, non solo rispetto ad una
condizione di vita degna, ma addirittura, rispetto e a scapito
degli altri (in questo caso il “suo altro”, o l’altro della
e nella narrazione, è Lazzaro), a morte compiuta, viene semplicemente
sepolto.
“Stando nell’inferno, tra
i tormenti, levò gli occhi e vide di lontano Abramo e Lazzaro.
Allora gridando disse: Padre Abramo, abbi pietà di me e manda
Lazzaro a intingere nell’acqua la punta del dito e bagnarmi la
lingua, perché questa fiamma mi tortura”. La condizione del
ricco anonimo pare essere terrificante. Il simbolismo del testo
rende bene l’idea di una condizione di totale annientamento, accompagnato
da una coscienza lucida di abbandono irreversibile. Si indica
“tra i tormenti” e “vide di lontano”, come a voler
significare una condizione di immersione piena dentro una dimensione
di assoluta negatività, e insieme di distanza incolmabile dalla
condizione di gioia e pienezza di cui possono invece godere Abramo
e Lazzaro. L’immagine della tortura tra le fiamme, rende ancor
meglio l’idea di questa fase di non-senso irrimediabile.
“Ma Abramo rispose: Figlio,
ricordati che hai ricevuto i tuoi beni durante la vita e Lazzaro
parimenti i suoi mali; ora invece lui è consolato e tu sei in
mezzo ai tormenti”. La situazione del ricco, di cui si continua
a sottolineare la distanza rispetto a quella di Lazzaro, non dipende
in realtà dal fatto “in sé” della sua ricchezza in vita (anche
se ciò può, in ogni caso, dar fastidio, c’è ricco e ricco!!).
Non vi è male totale nel possedere molti beni (benché l’avere
troppo conserva sempre una traccia di peccato), bensì nell’abitare
una determinata condizione di favore, senza cogliere il destino
di chi tale favore non l’ha incontrato. È ben di più che un pallido
precetto morale, assolto il quale ci sentiremmo più tranquilli.
Basterebbe un po’ d’elemosina ogni tanto per liberarci del compito
ingrato del dover dare.
Il problema è ben più radicale
ed ha a che fare con la possibilità o meno di essere umani autentici.
Vedere la miseria nell’altro significa cogliere a 360 gradi il
bisogno dell’umanità di cui Lazzaro è come il faro luminoso. È
un appello, quasi un grido, che parte dall’uomo come essere di
bisogno e a cui l’uomo stesso è tenuto a dar risposta. Le immagini
del ricco e del bisognoso in fondo, altro non sono, che aspetti
di una natura ferita ed insieme responsabile. Tali dimensioni,
possono certo rivestire delle figure sociali determinate (il ricco
e il povero sono una realtà), ma ciò che conta più di tutto è
questa condizione paradossale, che si deve sottolineare, per cui
l’uomo in quanto uomo è assieme una creatura fragile da curare
ed insieme il pastore dei suoi compagni. È colui che ha bisogno
ed insieme colui che è chiamato a dar cibo a questa fame (se così
non fosse avremmo solo ricchi e potenti responsabili e poveri
esclusivamente bisognosi, privati d’ogni responsabilità).
“Per di più, tra noi e
voi è stabilito un grande abisso: coloro che di qui vogliono passare
da voi non possono, né di costì si può passare fino a noi.
E quegli replicò: Allora,
padre, ti prego di mandarlo a casa di mio padre, perché ho cinque
fratelli. Li ammonisca, perché non vengano anch’essi in questo
luogo di tormento. Ma Abramo rispose: hanno Mosè e i profeti;
ascoltino loro”. Questo lungo passo mette in risalto come
tale possibilità, cioè quella di mettere a frutto le proprie responsabilità
di fronte ai bisogni dell’altro, sia legata ad una forma di compimento
da cui il ricco è irrimediabilmente lontano (“un grande abisso”),
quasi come se Bene e tempo fossero due dimensioni che si intrecciano
in uno stato di definitività, per il quale o si sposa la giusta
causa o si rimane fuori dalla porta per sempre. Tale dimensione,
la presa di posizione di fronte al bene di cui l’altro è destinatario
primo, non necessita, come si indica nel testo, di prodigi fantastici
o di segni strabilianti. Il luogo di incontro con tale opera di
redenzione sta nella Parola di cui Mosè e i profeti sono come
il simbolo portante.
“E lui: No, padre Abramo,
ma se qualcuno dai morti andrà da loro, si ravvederanno. Abramo
rispose: Se non ascoltano Mosè e i profeti, neanche se uno risuscitasse
dai morti sarebbero persuasi”. Se il cuore non è attento a
tutto ciò che è sensato perché è sensato, non basterebbe una resurrezione
a persuadere chi ha già scelto di stare dalla parte dei malvagi.
Costui assieme ai suoi fratelli andrà “in esilio, in testa ai
deportati, e cesserà l’orgia dei buontemponi” (dalla prima lettura
Am 6,7).
Ricapitolando:
1)
Vi è una condizione da guarire nell’uomo da guarire,
variamente nominata come povertà, miseria, sconforto, umiliazione,
non-identità, negatività, per la quale siamo chiamati a cooperare
assieme alla mano misericordiosa di Dio.
2)
Una mancata risposta all’appello, significa una
collaborazione progressivamente lacerante, con le strutture di
peccato che rendono il ricco sempre più ricco e il povero sempre
più povero.
3)
Il tempo è il luogo che ci è dato per rispondere:
ciò che ci mette in salvo è un continuo contatto con le strutture
di bene che il Signore ha misteriosamente disposto nella storia:
la Parola e il Segno, l’altro nella sua condizione di bisogno
da sfamare.
Se possiamo permetterci un
ultima parola, consigliamo vivamente la lettura attenta e pregata
del salmo di questa domenica (145). Esso narra l’opera di Dio
di cui siamo chiamati a farci, con lui, braccia operose.
Avremmo potuto dire tante
cose e, come in uno stile a noi più consono, addentrarci in riflessioni
più sottili sul tempo e le sue possibilità. Tuttavia, pensiamo
si debba lasciar spazio, a volte, anche ad un certo silenzio dell’interpretazione
(forse in alcuni punti ci siamo calati troppo in un linguaggio
comune, più da omelia che da commento!!), per far si che la verità
venga a galla con una certa gradualità. In fondo queste letture
non vogliono avere il carattere definitivo di una pubblicazione
(e come potrebbero vista l’inesperienza del loro autore), ma solo
quello transitorio di spunti di riflessione in via di sviluppo.
Alla prossima,
Antonio
Siena