XVIII Domenica
Tempo Ordinario 5 agosto 2001
Analisi del brano di Lc
12, 13-21
Il vangelo della presente settimana, come si potrà facilmente
notare, fa un salto, rispetto alla continuità della narrazione
incontrata sin'ora, di quasi un capitolo. Ci sono ragioni di natura
liturgica che necessitano di tali tagli drastici. L'importante
è riconoscerne il senso in modo tale da poter riprendere
la trama del racconto senza traumi. Ora noi, riferendoci in modo
non troppo stretto al vangelo di Luca e cercando di seguire la
doppia trama del Vangelo liturgico e della nostra vita, non possiamo
soffermarci troppo sulle parti evitate. Proseguiremo comunque
nella linea che la Chiesa ci propone, tentando di operare quella
cucitura di cui parlavamo sopra.
Spesso ci è capitato
di individuare, a mo'di prospettiva chiave delle letture, un tentativo
da parte del vangelo di condurci ad un distacco: quello da noi
stessi. Si è parlato, ispirati a scuole di pensiero ben
precise (che non citiamo per non appesantire la già faticosa
lettura!), di presa di distanza etica, dove con tale concetto
abbiamo inteso esprimere, come il vangelo paia volerci condurre
in una sorta di luogo metaforico in cui vengono abbandonati tutti
i pesi di cui la nostra vita si compone. Da una parte noi, con
tutto il peso delle vane preoccupazioni: il denaro, le faccende
quotidiane, gli affetti stile collante ecc.; dall'altra una Parola
che si insinua tra le righe fitte di questa bio-grafia, e che
cerca di portare il suo lettore più lontano. Lontano dal
mondo fittizio degli averi, di quegli averi vissuti non con il
giusto scarto, nella distanza, bensì nell'invischiamento
a cui questi artificiosamente conducono. Chi ne paga le spese
è l'inveramento esistenziale della Legge: chi ama troppe
cose e tutte con avidità, come potrà amare Dio con
tutto
tutto
tutto
e il prossimo suo come sé
stesso? E laddove non sarà possibile redigere il proprio
diaro di viaggio nelle coordinate di un sentiero verso l'alterità,
nella distanza che è necessario tracciare tra l'Egitto
e la Terra, dove mai si potrà comprendere cosa la libertà
e l'amore siano? Sinchè sarò legato in tutto e per
tutto a me (a quel "me" in carne ed ossa che è
fatto di tutto ciò che possiedo), potrò dire, di
aver conosciuto ciò per cui la vita è vita?
Il brano evangelico che la
liturgia ci propone sembra volersi porre in continuità
con questo tema: la vanità del mondo e la necessità
di Dio (cfr. la prima lettura tratta da Qoelet 1, 2; 2, 21-23).
"In quel tempo, uno della folla disse a Gesù: Maestro,
di' a mio fratello che divida con me l'eredità" Cosa
cerca quest'individuo dal maestro? Non pare inseguire la meta
della parola. Cerca invece un giudice che possa dar pace, per
mezzo di un compromesso, alla propria avidità. Il Signore
ammonisce un tale atteggiamento, prima di tutto prendendo distanza
dalla trappola dell'uomo: "Chi mi ha costituito giudice
?"
poi dicendo "Guardatevi e tenetevi lontano da ogni cupidigia,
perché anche se uno è nell'abbondanza, la sua vita
non dipende dai suoi beni". È un consiglio a non lasciarsi
invischiare dal buono delle cose, che sono e rimangono buone se
vissute nella distanza, nella sobrietà di chi ha fatto,
non delle cose, ma di Dio e dell'altro, lo scopo della propria
vita.
La seconda parte presenta
il racconto, da parte di Gesù, di una parabola. Si narra
di un uomo ricco, al quale i campi hanno dato un buon raccolto.
L'abbondanza della stagione non gli permette più di conservare
tutto il raccolto nei magazzini attuali, così decide di
costruirne di nuovi, più grandi. La conclusione dell'uomo
di fronte a tanta fortuna è un gran riposo nel lusso delle
proprie ricchezze. Ma nella parabola interviene Dio che domanda
lui la propria vita la notte stessa.
La conclusione che offre Gesù è la seguente: "così
è di chi accumula tesori per sé, e non arricchisce
davanti a Dio".
Vi sono due tipi di ricchezze:
quella di colui che si arricchisce e quella di colui che vive
il poco come una ricchezza. Il primo, non prendendo a sufficienza
le distanze da ciò che ha, non solo vive dell'avere come
se questo fosse prossimo all'essere, bensì se ne identifica
a tal punto da credere che tutto ciò che gli rimane da
fare è vivere secondo i ritmi di quelle ricchezze.
Colui che non è stolto, che compare nel brano solo per
opposizione al primo, decide di mantenersi nel poco, perché
stare nel molto conduce alla stoltezza di chi non riconosce che
il vero molto è Dio stesso che ti comanda di amare il fratello.
Il problema del brano, non
è vedere quanto sia dispettoso Dio che interviene per rovinare
la festa. In realtà l'espressione presente nel testo "
stolto
stanotte stessa ti sarà chiesta al tua vita", può
voler significare in modo molto più fedele alla logica
della parabola "Stolto, questa notte stessa ti sarà
richiesta la QUALITA' tua vita" "ti sarà chiesto
di render conto del tuo ego-ismo" o ancora "ti sarà
chiesto di mostrare quanto tu non abbia compreso che l'orizzonte
che rende una vita, degna d'esser vissuta, non stà nel
lusso delle ricchezze, ma nella fatica del vivere secondo l'ordine
dello Shemà".
Letta in questo modo, l'ammonizione, appare più come un
riscatto che come una punizione. Dio offre la possibilità
di dare questo tipo di vita, in cambio di una in cui il poco sia
il vero molto.
Un'ultima precisazione, che
ritengo necessaria, è esplicitare il senso della povertà
che lo scritto pensa di poterci proporre. Si tratta di leggere
il non accumulare tesori in relazione a quella distanza etica
che abbiamo cercato di disegnare come progetto esistenziale alternatativo.
Quando ci mettiamo in ascolto della Parola, siamo allo stesso
tempo sintonizzati con il problema di un bene da realizzare, assillati
da qualcosa di pratico in relazione ad un qualcosa di positivo
che ha ancora da venire.
D'altra parte, uno potrebbe
pensare che anche la ricchezza sia un bene, dipende solo da com'è
vissuta.
In realtà questo è
un inganno che ignora il mistero dell'affettività. Laddove
vi fosse ricchezza in eccesso (Israele, nel deserto, riceve poco
e quel poco gli basta per campare quarant'anni), non sarebbe l'uomo
a viverla bensì sarebbe questa a vivere l'uomo. Essa prenderebbe
il sopravvento sulle volontà di chi la possiede, che diverrebbe,
per ciò stesso, posseduto da quel suo stesso bene.
È per questo motivo
che il testo tenta di portarci a considerare il problema del bene,
in relazione alla povertà. Non si tratta di morire di fame.
Dovremmo invece dare alla fame, il giusto pasto. Stiamo tentando
di entrare in una forma di "educazione degli affetti",
in un'ascesi quotidiana dello stare al mondo, in cui l'uomo è
portato con calma ma anche con fatica a distanziarsi da se stesso,
per riuscire a vedere, ad accogliere, a prendersi cura
Di
che? Di quell'altro il cui gesto fondamentale è la domanda
di soccorso, di Dio la cui parola richiede questa totale apertura,
di sé, la cui impresa ultima è fare dei due elementi
precedenti, il quadro definitivo della propria azione quotidiana.
Anche questa settimana il testo si presenta denso e impegnativo,
soprattutto per i suoi colpi di frusta. È pensabile tutto
ciò? Dobbiamo fare i conti con un cuore malato che ad ogni
istante grida vendetta, il suo diritto. Derrida (permettetemi
una breve e timida citazione), in un notissimo articolo su Lévinas
(una delle nostre maggiori influenze, se ci è permesso
dirlo senza per ciò sciupare il genio di quest'uomo), cita
Claudel, dicendo "E se il Desiderio dovesse cessare in Dio/
Ah, ti invidierei l'Inferno".
Credo che tale invidia sia
compresa nel rischio dell'amore. Nel vangelo ci è chiesto
di guardare allo stolto che ci svela e tale stoltezza è
fatta di un'invidia in cui sentiamo rubato qualcosa di nostro,
che totalmente ci riguarda: Desiderio [?] Vi eravate mai resi
conto che il problema fondamentale sta, non in cosa desiderate
ma perché e come lo fate?
A presto,
Antonio
Siena