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III Domenica Avvento Anno A 16 dicembre 2001

Analisi e commento di Mt 11, 2-11

Il brano evangelico che la liturgia dell’Avvento offre questa domenica, appare di difficile collocazione, rispetto al tentativo sinora fatto di far rientrare la Parola all’interno di un quadro generale che trova nella coincidenza di quelli che potremmo definire come piano etico e piano metafisico (non con qualche rischio utilizziamo questo termine in quest’occasione), la sua più adeguata collocazione. Buona notizia, diremmo, rispetto al Dio che in Gesù rivela nella massima intensità il suo progetto, e buon progetto rispetto all’uomo che pare esser chiamato a ripercorrerne le modalità di intervento nella storia, attraverso l’esercizio etico della carità e della solidarietà per il debole, pur nel mantenimento (e qui sta la novità rispetto all’eros greco!) di una distanza che ne rimane il motivo di fondo. Distanza come pudore, ma carità e solidarietà come intenzioni che non devono neutralizzare la prima. Pudore come proprietà della relazione, che già Dio, pur nel suo svelarsi, decide di mantenere per salvare la libertà del suo prediletto interlocutore.Il brano presenta Giovanni, la voce che anticipa la Parola, incarcerato, che sentendo parlare delle opere del Cristo, manda alcuni discepoli a domandare se fosse davvero lui “colui che deve venire” o se l’attesa dovesse proseguire in vista di un altro presunto Messia. Giovanni, la voce, non riconosce in Gesù il veniente, colui nel quale venne riposta ogni attesa. Il testo non si sofferma a spiegare il perché di un tale momento di sfiducia. Di Giovanni viene detto semplicemente che dal carcere sente dire qualcosa a proposito delle opere del maestro. Non vi è motivo di pensare che coloro che riferivano a Giovanni i fatti che accadevano fuori, gli riferissero delle menzogne. Il testo parla di una testimonianza da parte di alcuni ignoti, riguardo “le opere del Cristo”. Gesù di fronte a coloro che gli riferiscono i dubbi di Giovanni, dice di riportare a Giovanni la testimonianza rispetto a ciò che sentono e vedono: “Andate e riferite a Giovanni ciò che voi udite e vedete…”. Giovanni, la cui voce nessuno può più sentire, né le cui opere nessuno può più vedere, si trova ora nella medesima condizione rispetto a Gesù. Il non-più-parlante e non-più-vedente è esposto all’impossibilità di vedere e udire e perciò stesso di cogliere l’autenticità dell’opera di Gesù. L’opera suddetta, per comprendere la quale, dovremmo poter vedere e udire, si compone di gesti che vanno dalla guarigione alla predicazione dell’avvento del Regno per i poveri. Inutile soffermarsi, con un rapido e superficiale scetticismo, alla veridicità di eventuali miracoli. La sostanza è una buona notizia da riferire al testimone reso sordo e cieco, perché riacquisti l’udito e la vista. Nella ripresa dell’udito e della vista si nasconde la possibilità della profezia (pro-ferire come dire-ancor-prima-che e quindi anticipare l’occhio e l’udito atrofizzati della sensibilità comune), che denuncia o annuncia in base a ciò che vede e sente. Successivamente Gesù si mette a parlare alle folle di Giovanni. Il ritornello che risuona con più frequenza è il seguente “Che cosa siete andati a vedere?”. I verbi che Gesù utilizzava in precedenza, nel caso di Giovanni, si riducono ad uno. L’udire è censurato! Ma chi è Giovanni? Non è forse la voce? E cosa accadrà, laddove chi fosse chiamato all’ascolto non udisse  più alcuna voce, o, soprattutto, una voce parlasse a chi più non ode nulla? Il gioco dei gesti, nascosto in questo brano è impressionante “Cosa siete andati a vedere?”; perché vedere? Si vede ciò che si mostra. Ma ciò che parla, colui che parla, il profeta, lo si osserva nel suo testimoniare dal di dentro della profezia, la quale, va udita. Gesù parlava di un andare a riferire ciò che si ode e si vede. Per ciò che riguarda Giovanni, ora si omette l’udire, cosicché, quella che era considerata come la voce che grida, viene messa in discussione nel suo agire sostanziale. Vedere senza udire, rimane pur sempre un profezia mutilata. Coloro che vanno a riferire a Giovanni ciò che accade, paradossalmente diventano i profeti che testimoniano delle cose che avvengono, a colui che è profeta per eccellenza, ma al quale ora manca la parola. Giovanni è stato privato della parola e perciò stesso è necessario che qualcuno riporti lui, nella condizione in cui si trova, la Parola. Ma questo è precisamente Gesù: Parola che riporta contenuto alla testimonianza mutilata del profeta.

“In verità vi dico: tra i nati di donna non è sorto uno più grande di Giovanni il Battista; tuttavia il più piccolo nel regno dei cieli è più grande di lui”. Conclusione non a sorpresa, se ripensiamo a quanto detto sinora. Giovanni è il profeta che, non potendo più testimoniare (parlare e farsi vedere) ha bisogno di qualcuno che riferisca lui circa le cose che si sentono e si vedono. Il più piccolo tra coloro che vedono e odono è più grande di lui a cui è stata tolta la facoltà di parlare e farsi vedere in quanto non vedente e non udente.

Le implicazioni del gioco di gesti che abbiamo tentato di descrivere andrebbe approfondito ulteriormente. Crediamo, infatti che vi sia, qualcosa di più profondo da esplicitare e che in poche battute, difficilmente può venire a galla. Speriamo sempre nell’intervento di qualche malcapitato che rimanga perlomeno contraddetto da quanto esposto in questa pagina.

Non si attende ciò che non si mostra preliminarmente nella sua positività. La positività in cui questo ignoto si mostra, domanda di essere studiata, compresa, indagata da cima a fondo, nel mistero che la circonda. È propria dell’atmosfera messianica che l’avvento ci porta, la caratteristica di richiedere al senso un’acutezza particolare. La vista e l’udito si esercitano a diventare parola. Ma di Parola già preliminarmente si nutrono. Dalla testimonianza che riceviamo il profetismo è il successivo passo d’obbligo. Peccato, per colui che dalle tenebre della propria cella, non potendo né vedere né udire, allo stesso modo non riuscisse più a parlare.

 

Antonio Siena

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A cura di
Antonio Siena

 
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