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Domenica
Epifania del Signore 6 gennaio 2002
Riflessione slegata sulla natura
della manifestazione dell’Assoluto
Generalmente pensiamo
all’epifania come ad una occasione gioiosa, una vera e propria festa,
per la quale la luce diviene uno degli elementi fondamentali grazie
al quale questo stesso evento si spiega e si dispiega. La luce della
stella guida il cammino dei magi e li conduce all’incontro con il
presunto, neonato, re dei Giudei, per il quale lo stesso Erode si
allarma. La luce poi, per il quale la stella ultimamente si presta
ad essere niente più che come segno, è Gesù stesso che, nell’incontro
con i magi, segna in modo definitivo, illuminandolo appunto, il
cammino di tutta quanta l’umanità.
Prendere per buono questo
non significa certo sviare il senso dell’epifania, poiché se vi
è qualcosa di grande in tale solennità e che non può che portare
gioia al cuore dell’uomo, è proprio la manifestazione luminosa alle
genti dell’Eterno, che nella carne e nelle ossa dell’innocuo infante,
dispiega tutto il suo potere soteriologico. Tuttavia, e la non apparente
ironia del periodo precedente in questo senso non è certo casuale,
la luce e lo splendore nei quali il Salvatore si svela sono di una
natura particolare, diversa, altra. Ci appare del tutto inutile
parlare di un nuovo tipo di Salvezza come di un Salvatore, da cima
a fondo, alternativo, se non si comprende che l’alternativa diviene
radicale nello stesso istante anche per il credente che pensasse
di aderire a questo progetto.
Ciò vale a dire, che
il più delle volte noi pensiamo la realtà salvifica che trova nell’epifania
il suo segno più rappresentativo (epifania significa appunto manifestazione),
senza tener conto del fatto che ci troviamo di fronte a qualcosa
di molto diverso da un qualsiasi altro fenomeno e di ciò ne è segno
proprio il fatto che ciò che noi pensiamo come luce, luminosità
e tutto ciò di positivo che ne consegue, non tiene in realtà conto
del fatto che, il Cristianesimo nella sua essenza, pensa se stesso
e il banchetto a cui ci invita, in modo radicalmente opposto all’apprensione
che noi abbiamo del positivo e del luminoso così come tale realtà
si viene delineando nella nostra cultura.
Evidentemente ci troviamo
di fronte a considerazioni molto generali che difficilmente trovano
una facile collocazione all’interno degli intrecci di eventi e relazioni
che la nostra epoca di fatto vive, ma rimane pur vero che vi è un
legame difficilmente sradicabile rispetto ad una radice culturale
con i padri della nostra civiltà pre-cristiana che pensarono la
luce e il positivo nei termini di una conquista, di una vittoria,
di un’assunzione del positivo e del luminoso nella linea di una
gloria senza croce.
Si potrebbe obiettare
a questa considerazione tenendo presente lo sviluppo teorico (al
di sotto del quale si nascondono conseguenze di portata epocale)
di dottrine antiche, le quali avevano presente il continuo alternarsi
di forze celesti con forze, all’opposto, mondane. Chi conosce i
racconti platonici della caverna e del carro alato, comprende ciò
che in quest’occasione intendiamo. Il bene resta comunque una lotta
dell’esistente contro forze negative al fine di poter giungere ad
una visione chiara della verità liberatrice. Tuttavia non vi è traccia,
se non attraverso una complicata operazione di lettura del platonismo
alla luce del messaggio cristiano, di ciò a cui assistiamo nei vangeli,
e cioè di un’auto – spoliazione dell’Assoluto, del Luminoso, dell’Eterno,
nei panni dell’infante che i magi vanno a cercare. Se in termini
di struttura quasi ci possiamo affidare alle parole dei greci (e
chi almeno un po’ non vi si affida compie, se non un peccato, perlomeno
una veniale mancanza nei confronti della propria personale identità
cristiana), nei termini del contenuto (ma questa stessa distinzione
di forma e contenuto andrebbe ripensata!), i vangeli ci portano
ben oltre. In essi il male è esplicitato e reso parte dell’opera
di redenzione dell’Immenso che si riveste di carne mortale. Rende
immortale la carne nell’atto estremo e redentivo della croce. Riconduce
il creato, nella sua costitutiva assenza di senso, a rideterminarne
la natura da cima a fondo come natura redenta.
Ora, tanto si è detto
sulla presunta insufficienza di senso del pensiero antico rispetto
alla rivelazione biblica e tanto si continua a dire. Ma se vi è
una mancata coordinazione rispetto alla Parola dell’Assoluto, nel
pensiero dei filosofi, ciò avviene perché il termine “Crocifisso”
poteva essere pronunciato soltanto da Dio in persona. Insomma se
l’umanità in genere pensa il Luminoso in termini di una gloria senza
croce è perché fondamentalmente non è in grado di parlare altra
lingua. Solo Dio poteva essere in grado di determinare un destino
diverso da quello che per struttura la storia avrebbe scelto per
sé. In un suo noto, forse il più noto, volume, Emmanuel Lèvinas
accosta esplicitamente il destino storico dell’occidente, e la sua
prossimità al concetto di verità, al concetto di guerra. La metafora
è più che mai esplicativa: laddove vi è un cammino nella luce, nella
verità, questo, nella sua intenzionalità originariamente mondana,
non potrà che costituirsi come sintesi di avvicinamento e di conquista,
di assedio e battaglia. Lo stesso autore fa notare come questa prospettiva,
che in genere è quella con la quale noi stessi pensiamo la finalità
di ogni nostra azione, volontariamente o involontariamente, manchi
ciò che fondamentalmente conduce l’uomo ad avventurarsi presso i
sentieri della verità: un Appello. Se è la luce, prima di tutto,
a chiamare, allora la verità sarà, prima di tutto, eteronoma. L’eteronomia
pretende per sé ascolto, obbedienza, attenzione, cura. La passività
a cui veniamo in tal modo invitati ribalta i termini del nostro
rapporto con l’Assoluto, che è il primo a scendere a compromessi
in questa visione rovesciata.
La grecità in fondo altro
non è che un senso generale in cui la verità, intuita, non poteva
fino in fondo esser pensata, poiché mancava, per essa, la stessa
esplicita parola dell’Assoluto. In essa parlava ciò che ancora non
poteva essere compreso. Ma queste considerazioni, forse un po’ troppo
audaci, meriterebbero considerazioni ulteriori che in questo momento
non possiamo approfondire. Probabilmente molte cose andrebbero ridette
mentre altre andrebbero radicalmente sottoposte ad una verifica
teorica di non poca profondità.
Ultimamente, questa volta,
non abbiamo inteso affidarci alla sola parola del vangelo, bensì
abbiamo tentato un’analisi della prospettiva generale con la quale
solitamente ci accostiamo al Mistero. Esso, nella sua ineffabilità,
parla un linguaggio forte, e invita l’uomo a fronteggiare lo schianto
del male nell’esistenza. Diamo come spunto questa provocazione:
il Bene si manifesta non nella luminosità trasparente di un paesaggio
limpido e incorrotto ma nella opacità di forze che porterebbero
ad un esclusione radicale del medesimo. Far chiarezza su questo
significa pensare la Luce nei termini di un arretramento rispetto
all’alterità che viene. Il “sottrarsi” è precisamente la linea di
condotta di chi ha appreso il bene come compito etico e non come
conquista della propria felicità.
Le cose “non scritte”
le scriva ciascuno sulla propria pelle.
Antonio
Siena
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