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L'origine del borgo nell'Alto Medioevo.
Il quartiere prende il nome da
sant'Agabio, secondo vescovo di Novara che, come narra l'antica biografia
medievale, fu sepolto al di fuori della porta orientale della città, che fu
denominata Porta di Sant'Agabio.
Novara conservava allora l'assetto urbanistico
romano, basato sugli assi viari del cardo massimo (attuali corso Cavour e corso
Mazzini) e del decumano massimo (corso Cavallotti e corso Italia), che
attraversavano la città da nord a sud e da est a ovest.
Intorno alla città si
ergevano le mura, di edificazione romana, che si estendevano da piazza Cavour,
lungo baluardo Partigiani, un tratto di baluardo La Marmora, via Perrone, via
Solaroli fino al castello e al baluardo Quintino Sella per ritornare in piazza
Cavour.
Nel circuito murario si aprivano quattro porte, in corrispondenza delle
estremità del cardo e del decumano: a ovest la Porta Vercellina (in
corrispondenza della Barriera Albertina) che conduceva a Vercelli; a nord la
Porta di Santo Stefano (cavalcavia per Veveri), dove iniziava la via pombiese; a
sud la Porta di Santa Maria e la via che portava verso Mortara e infine a est la
Porta di Sant'Agabio sulla strada che collegava Novara con Milano.
Al di fuori
della cinta muraria erano situati i cimiteri, poiché le leggi romane proibivano
di seppellire i cadaveri in città.
A questo proposito un interessante
ritrovamento, avvenuto verso la metà del mese di settembre del 1929, durante i
lavori di scavo per le fondamenta dei pilastri che dovevano sostenere il
cavalcavia sovrastante la ferrovia di Porta Milano, può far supporre che in
quell'area ci fosse un cimitero, dove anche sant' Agabio sarebbe stato sepolto.
Infatti nel luogo, conosciuto come "Cunetta", dal nome della roggia
che vi scorreva, gli operai rinvennero un'arca sepolcrale romana, che venne
subito estratta, ripulita e collocata nel Museo Lapideo della Canonica.
L'arca,
in granito grigio, priva di coperchio e rovinata da un foro presenta due
slabbrature semicircolari che testimoniano il suo riutilizzo come abbeveratoio
per il bestiame.
In origine era destinata a contenere le ceneri del defunto dopo
la cremazione.
Secondo quanto racconta la "legenda" il corpo di
sant'Agabio sarebbe rimasto sepolto in una chiesa ubicata in questa zona fino
all'890, anno in cui il vescovo Cadulto, per motivi non facilmente deducibili
dalle fonti, lo fece trasportare solennemente in cattedrale.
Sant'Agabio è
dunque uno dei quattro più antichi nuclei abitati sorti al di fuori delle mura
di Novara, in corrispondenza delle porte.
Nonostante il termine "borgo di
Sant'Agabio" compaia esplicitamente in un documento del 1182 altre fonti
testimoniano l'esistenza di un insediamento abitativo risalente al IX-X secolo.
L'evoluzione del borgo tra la fine del X secolo e i primi decenni del
Cinquecento.
Come si è detto attraverso la Porta di Sant'Agabio passava l'asse
viario che collegava Novara con Vercelli e con Milano; la presenza di questa
"via publica", più tardi ribattezzata "strada Regia per
Milano", fece di Sant' Agabio uno dei borghi più importanti della città.
Essa era infatti percorsa dai pellegrini che si recavano a Roma e dai mercanti
che commerciavano con Milano, il naturale riferimento economico e culturale
della città di Novara.
Non fu tuttavia soltanto questa la causa della crescente
importanza del borgo nel Medioevo: decisiva fu anche, al principio del X secolo,
la nascita del mercato.
Infatti nel 919 l'imperatore Berengario I, che era anche
re d'Italia, concesse al vescovo di Novara Dagiberto di tenere due mercati: uno
a Gozzano e uno a Sant'Agabio.
Il documento che testimonia questa concessione
dice che il mercato si sarebbe dovuto tenere il 26 agosto presso un certo
oratorio, appartenente all'episcopio novarese, dove il corpo di sant' Agabio,
vescovo e confessore di Cristo, un tempo era stato tumulato.
Per comprendere
l'esatta portata di questa novità, bisogna tener presente che nel Medioevo il
mercato era qualcosa di completamente diverso da come lo intendiamo ai nostri
giorni: non si trattava semplicemente di un luogo dove ci si recava per vendere
o acquistare, ma di un luogo dove i mercanti si scambiavano merci talvolta rare,
dove gli artigiani mettevano in mostra la loro abilità nella creazione di
strumenti destinati all'agricoltura o alla vita quotidiana, dove si scambiavano
notizie ed opinioni su ciò che accadeva altrove, dove si praticava il cambio
della moneta e prendevano corpo i primi tentativi di operazioni bancarie.
Il
mercato era un evento decisivo per la comunità che lo ospitava, in quanto il
suo carattere dinamico si ripercuoteva su di essa fornendole stimoli alla
crescita economica e sociale.
Se consideriamo poi che il mercato istituito a
Sant'Agabio era annuale e quasi unico sul territorio novarese, possiamo
facilmente immaginare le implicazioni che questo fenomeno ebbe sullo sviluppo
del borgo.
La sua presenza attirava molta gente e permetteva al vescovo di
Novara di incamerare i proventi delle tasse che erano previste sulle attività
commerciali.
Il privilegio sarebbe stato infatti concesso al vescovo Dagiberto
per ricompensarlo della fedeltà a Berengario, durante la lotta fra questi e
Ludovico III per il titolo di imperatore.
Questi fattori dunque incrementarono
lo sviluppo del borgo lungo la "via publica" e favorirono il sorgere
di importanti edifici: la chiesa di sant'Agabio, che faceva parte della pieve
urbana, quella di san Martino de Mollia, l'Ospedale della Carità e la chiesa
dedicata a san Giovanni Battista, con annesso l'Ospedale dei Cavalieri
Gerosolimitani.
Quest'ultimo era detto anche Ospedale di san Giovanni dei
Pellegrini, ed era situato oltre le mura della città, alla destra per chi
usciva dalla Porta di Sant'Agabio.
Era chiamato "dei pellegrini" in
quanto in origine aveva come finalità l'accoglienza dei pellegrini che si
recavano a Roma. Il nome di quest'ospedale appare per la prima volta nel 1179,
quando Marchesio d' Invorio donò per testamento alla figlia di un certo Isacco
la metà di una vigna e di una casa se avesse preso marito; nel caso invece che
la sua morte fosse avvenuta prima del matrimonio della ragazza il lascito doveva
essere destinato all'Ospedale dei Pellegrini.
Numerose furono le donazioni a
favore dell'ospedale nel corso della sua storia: una delle più antiche è
quella del maestro Stefano, canonico della cattedrale (14 luglio 1193), che
lasciò il proprio letto con tanto di cuscino.
Verso la fine del Cinquecento il
complesso ospedaliero divenne "commenda", cioè venne affidato
all'amministrazione di persone non residenti. Successivamente perdette le sue
prerogative e nel corso del Settecento risultava ormai trasformato in cascinale.
A questo proposito ci riferisce, nel 1740, fra Giacinto Cacherano d'Osasco,
delegato dal Gran Priore di Lombardia, che lo visitò.
Egli descrive la chiesa
dicendo che aveva la facciata rivolta verso ponente e su di essa erano visibili
gli stemmi dell' Ordine Gerosolimitano e di fra Carlo Ignazio Gambarana,
titolare della commenda. Sul tetto, sopra la porta, erano collocate le campane;
nella chiesa c'era un solo altare, ornato da una croce di ottone e candelieri di
legno: la pala d'altare raffigurava san Giovanni che predica. Dietro l'altare
una porta consentiva l'accesso alla sacrestia, dove si trovava una credenza
contenente le suppellettili della chiesa. Il locale aveva il soffitto in travi
ed era stato restaurato di recente.
Il complesso fu venduto come molti altri
beni ecclesiastici nel periodo della soppressione napoleonica.
Riprendendo il
discorso circa la struttura del borgo nel Medioevo, introduciamo alcune
osservazioni sulle proprietà terriere che si estendevano con le relative
costruzioni rurali.
Il maggiore proprietario era il vescovo di Novara, il quale
acquistava e permutava terreni con ecclesiastici e laici per rendere omogenei i
possessi della Chiesa novarese.
Seguivano poi i beni dell'abbazia benedettina di
san Lorenzo, che ebbe certamente un ruolo fondamentale in questo territorio
così ricco di acque: i monaci di san Benedetto erano infatti esperti nella
coltivazione e irrigazione dei terreni, un ruolo che sicuramente esercitarono
anche nel novarese e che meriterebbe di essere studiato e approfondito.
Verso
sud si estendevano gli appezzamenti appartenenti al monastero di san Bartolomeo
dei monaci vallombrosani, che era situato ad est rispetto al convento di san
Nazzaro alla Costa da cui era poco distante ed era posto in un avvallamento di
terreno chiamato "Fons Botonis", dal nome della roggia che scorreva di
fronte all'abbazia.
La sua fondazione, che risale al 27 settembre 1124, è
dovuta al vescovo di Novara Litifredo, il quale chiamò i monaci di santa Maria
di Vallombrosa, edificando la chiesa di san Bartolomeo e l'abbazia ad essa
annessa. La storia dell'abbazia, in decadenza da tempo, ridotta ad ospitare
appena due monaci ed un laico, termina nel 1792 con la soppressione voluta dal
governo. La chiesa da allora non fu più aperta a causa dell'umidità e la
statua di san Bartolomeo che qui veniva venerata fu trasferita nella chiesa
parrocchiale di santa Maria alla Bicocca.
Continuando la rilevazione delle
presenze sul territorio, si trovano, sparsi qua e là, singoli beni di comunità
religiose con sede all'interno della città.
Nell'area del borgo si trovavano
anche vigneti di proprietà dell'Amministrazione dei Poveri della cattedrale.
Confinante con la chiesa parrocchiale di sant'Agabio, era situato inoltre,
secondo fonti trecentesche, il giardino della Casa delle Umiliate.
Il territorio
era in prevalenza coltivato a prati con la presenza di aree boschive o destinate
alla cultura della vite.
Interessanti appaiono alcune considerazioni sulla
toponomastica: i documenti citano località tutt'oggi identificabili ed altre
invece di difficile individuazione. Esemplificando, un atto di donazione del
1153 ci racconta che un tal Olrico di Fara rinunciava ai beni lasciati da sua
madre Trinopola a favore della Chiesa novarese.
Nella pergamena si precisa che
si trattava di una casa in città non lontana dalla chiesa di san Pietro e di
tre pezzi di terra di cui uno coltivato a prato, situato nei pressi del ponte
"Pidrium", il secondo giacente "super roltam" e confinante a
est con la strada e a ovest con una roggia, il terzo "in Predelle".
In
un altro documento compare un fiume "Rauta". Predelle e Rauta sono gli
unici nomi che fanno pensare a qualcosa di conosciuto, esistono infatti ancora
oggi le vie Prelle e della Riotta.
Altri documenti fanno riferimento a zone non
facilmente identificabili come la "Ruga muta" o via silenziosa,
lontana dal traffico.
Per quanto riguarda le strutture ecclesiastiche attive nel
territorio del borgo di Sant'Agabio è documentata l'esistenza di tre chiese:
sant'Agabio, san Martino de Mollia e san Giovanni "intus vineis".
Sant'Agabio, non collocata nel luogo attuale ma presso le mura, nel XII secolo
era inserita nel percorso delle Rogazioni, una consuetudine liturgica che
prevedeva il pellegrinaggio da una chiesa all'altra, mentre si cantavano le
litanie: in ogni chiesa si faceva una sosta per proclamare letture e preghiere
appropriate.
La chiesa di sant'Agabio era inserita nel percorso del terzo
giorno, che prevedeva anche le soste nelle chiese di san Giacomo, santo Stefano
e san Giovanni.
Nel 1124 il vescovo Litifredo condonò alle chiese della città
di Novara, fra cui anche sant'Agabio, l'obbligo di recarsi alla chiesa
cattedrale di santa Maria nelle quattro feste principali, cioè Natale,
Epifania, Pasqua e Pentecoste, riconoscendone con questo atto l'importanza e
l'indipendenza.
Le carte dell'archivio della congregazione dei parroci riportano
anche i nomi dei primi preti che dedicarono il loro ministero alla chiesa di
Sant'Agabio: sono Giovanni, nel 1206 e Iacopo, dal 1210 al 1220.
La chiesa di
san Martino de Mollia si trovava invece all'incrocio fra la via che conduce a
Milano e quella che va a Galliate, esattamente nel punto dove sorge l'attuale
chiesa parrocchiale. Anche per tale chiesa conosciamo il nome del primo prete,
citato nei documenti dal 1210 al 1229: è Anrico o Olrico Buzio.
Il 9 luglio
1324 il vescovo di Novara Uguccione Borromeo assegnò la chiesa di san Martino
de Mollia al monastero benedettino di san Lorenzo, il cui abate e monaci
designavano già il rettore.
Questa donazione fu fatta insieme alle terre per
garantire il sostentamento all'abbazia, un tempo fiorente e in quel momento in
decadenza.
La chiesa di san Giovanni "intus vineis" era invece così
detta perché sorgeva in mezzo ai vigneti, lungo la strada detta "Ruga
muta", che doveva trovarsi presso le mura della città, probabilmente fra
le chiese di sant' Agabio e santo Stefano, visto che nel percorso delle
Rogazioni era posta come sosta intermedia.
Il prete Guglielmo, rettore di questa
chiesa, fece da testimone nel 1198 alla donazione di una casa fatta dai fratelli
Guglielmo e Iacopo alla Congregazione dei Parroci, di cui era membro.
La chiesa,
anticamente aggregata all'abbazia di san Lorenzo, di cui l'abate e i monaci
eleggevano il rettore, fu poi ceduta prima del 1254 ai Frati eremiti di sant'
Agostino, i quali vi rimasero fino a che chiesa e monastero furono demoliti per
ordine della Regia Camera per ampliare le fortificazioni. I frati si
trasferirono dentro le mura, presso la chiesa parrocchiale di san Paolo, che
divenne poi dei santi Giovanni e Paolo. Per quanto riguarda infine
l'amministrazione civile, a partire dal 969 gli abitanti del borgo passarono
sotto la giurisdizione del vescovo di Novara, il quale esercitava su di essi
anche l'autorità politica.
Una curiosa vicenda narrata da Pietro Azario.
All'inizio del Trecento Novara era soggetta alla lotta fra le famiglie dei
Tornielli, dei Brusati e dei Cavallazzi.
Nel 1331 il figlio di Matteo Visconti,
Giovanni, divenne vescovo di Novara. Egli ottenne la signoria temporale sulla
città e fece piazza pulita dei fratelli Tornielli, Calcino e Robaldone, capi
della fazione a lui contraria: il primo fu arrestato e il secondo costretto alla
fuga.
Dopo la morte dell'arcivescovo Giovanni la città di Novara fu coinvolta
nella lotta fra i Visconti, nominati dall'imperatore vicari imperiali di Milano,
Novara, Asti e Tortona e Giovanni il Paleologo, marchese del Monferrato, il
quale mirava ad estendere le sue proprietà a spese dei rivali.
Al seguito di
Giovanni c'erano alcuni personaggi novaresi che avevano dovuto abbandonare
Novara a causa dei contrasti con i Visconti. Alla loro testa c'erano Giovanni
Savio e Opicino Tornielli, figlio di Robaldone, i quali convinsero il marchese
ad assalire Novara.
Il fatto è tramandato da Pietro Azario, il più famoso dei
cronisti novaresi del XIV secolo, il quale racconta che a Cilavegna, durante una
riunione di nobili, Giovanni Savio chiese: "Signor marchese, dove intendete
andare?" Il signor marchese gli rispose: "A Pavia, per rimanervi per
alcuni giorni". Giovanni replicò: "Io e Opicino Tornielli, che è qui
con me, non siamo venuti qui per ballare, ma per recuperare i nostri beni a
Novara e nel suo distretto ora in mano ai Signori di Milano e per riaverli siamo
disposti a tutto. Vi prego di credermi, andiamo a Novara, così come siamo, dove
io e Opicino abbiamo molti amici e forse riusciremo a conquistarla. Sono sicuro
di poter entrare nei borghi pacificamente: se ci andrà bene, non avremo che da
rallegrarcene, diversamente faremo bottino in modo da non esserci andati per
niente. Conosco una strada così sicura, che saremo sotto la Porta del borgo di
Sant'Agabio senza farci scorgere, non siamo lontani più di sette miglia e la
strada è buona".
Il marchese fu d'accordo, e tutti seguirono Giovanni
senza indugio e furono presto nei pressi della Porta di Sant'Agabio, dopo
essersi impadroniti di molto bestiame che pascolava nei prati presso il borgo.
Arrivati però davanti alla porta, questa venne chiusa. Giovanni Savio, fattosi
avanti, disse al custode: "Amico, vuoi forse chiudermi fuori dalla porta
per non lasciarmi tornare a casa?" Giovanni e la sua famiglia erano infatti
tra i notabili del borgo da cent'anni. Allora il Mognina, il custode della Porta
di Sant'Agabio, disse: "Siete il signor Giovanni Savio?" Questi disse:
" Si". Allora il custode rispose: "Scusatemi, ma non vi ho
riconosciuto a causa dell'armatura".
Così il Mognina aprì la porta e
Giovanni e gli altri, armati, entrarono nel borgo.
Avanzarono fino alla porta
della città ma la trovarono chiusa e il capitano di guardia li costrinse con le
balestre ad allontanarsi.
Allora Giovanni e gli altri, allontanandosi dalla
porta, girando attorno alla città, entrarono nel borgo di Santo Stefano e
passarono in quello di San Gaudenzio attraverso la porta posta presso
l'abbeveratoio. Gran parte dei soldati si riunì poi nel pasquario di San
Gaudenzio, e uno di essi salì sul campanile della chiesa e si mise a gridare:
"Viva il marchese del Monferrato!"
La città e i borghi furono in
subbuglio. Capitano di Novara era allora Guglielmo Pontirolo, un mercante che,
in quel momento, se ne stava in zoccoli e senza armi; e podestà era Corto
Porro, il quale, come si esprime l'Azario, "era più sciocco di quelli che
tirano le pietre". E da sciocchi si erano comportati tutti e due, giacché
non avevano predisposto una sola difesa, né per i borghi né per la città.
I
borghi di Sant'Agabio, Santo Stefano, San Simone e Santa Maria mancavano del
tutto di palizzate e di ponti levatoi, i fossati non erano stati ripuliti, né
era stato fatto alcun lavoro di manutenzione, ma si trovavano come vent'anni
prima.
Le mura erano sprovviste di scale e di scorte di pietre da lancio o di
altri mezzi di difesa. Non avevano neppure voluto che i cittadini venissero
informati dell'avvicinarsi della compagnia mercenaria, anzi, andavano dicendo
che non si trattava di nulla d'importante, benché intorno la situazione fosse
critica. Mandarono banditori per la città e i borghi a ordinare ufficialmente
che nessun cittadino o borghigiano corresse alle armi, sotto pena
dell'amputazione di un piede.
Così quando gli uomini del marchese entrarono nei
borghi, il podestà Corto fece cacciar via coloro che volevano prendere le armi
e quando poi seppe che erano ormai dentro la città, allora avrebbe voluto che
si accorresse a difenderla, ma ormai non c'era più niente da fare.
E' anche
vero che il Corto e il capitano, per giustificarsi, affermavano Gian Galeazzo
Visconti, loro signore, aveva ordinato di comportarsi in questo modo.
La
conclusione di questa vicenda portò all'ingresso del marchese del Monferrato in
Novara e al passaggio della città e del suo distretto sotto il controllo dello
stesso, che venne nominato vicario imperiale al posto dei Visconti. Era l'anno
1356.
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