Parrocchia Sant'Agabio

Novara

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L' antica chiesa parrocchiale presso le mura.

 

    Il centro del rione di Sant' Agabio gravitava anticamente nell'area dei bastioni: l'antica chiesa parrocchiale non si trovava infatti nel luogo dell'attuale, all'incrocio fra corso Milano e piazza monsignor Brustia, ma era situata appena fuori dalle mura della città.        

Una volta oltrepassata la Porta di Sant'Agabio si giungeva ad un ponte che attraversava la fossa intorno alla città di Novara. 

    La strada curvava verso sinistra per un centinaio di metri circa per poi scendere dagli spalti e imboccare un lungo rettilineo, ossia l'attuale corso Milano. 

    Nel 1949 il geometra Antenore Gianzini, basandosi sui dati rilevati a partire dal 1724 per il catasto teresiano, disegnò una mappa che conferma sostanzialmente i dati contenuti nei disegni e nei documenti e che ancora oggi è possibile consultare. In questa mappa la chiesa di Sant'Agabio, con la piazza antistante, è collocata sotto i bastioni attuali, all'incrocio fra il cavalcavia che porta in città e il viale Manzoni. 

    Quest'area veniva indicata come zona della "Cunetta", dal nome della roggia che vi scorreva, o "Spalto", in quanto adiacente ai terrapieni prospicienti alle fortificazioni della città. 

    Prima di fornire alcuni elementi riguardanti la parrocchiale in varie epoche è utile dare una descrizione basata sulle fonti relative al periodo compreso fra il 1706 e il 1727, anno della sua demolizione. 

    La chiesa parrocchiale dedicata a sant'Agabio era in stile romanico, a tre navate, ed era orientata, cioè rivolta, ad est. 

    Non si conosce l'epoca in cui fu costruita e tantomeno il nome del progettista. 

    A proposito della consacrazione della chiesa il vescovo Carlo Bascapè, durante la sua visita alla parrocchia ( 1595), scrisse: "Si dice che sia consacrata ma non si conosce il giorno della consacrazione, forse perché la chiesa che in antico era consacrata fu demolita, e si dubita che quella che ora è riedificata sia da consacrare". 

    L'edificio era lungo circa 30 metri e largo 15; la facciata, in laterizio, era alta 6 metri nelle navate laterali e 15 metri nella centrale; in corrispondenza delle tre navate si aprivano l' ingresso principale e i due laterali. 

    Il presbiterio, al quale si accedeva salendo due scalini in mattoni era piuttosto ampio, circondato da balaustre in noce con inginocchiatoi: nel centro era situato l'altare maggiore, in marmo, di stile barocco; dietro di esso c'era il coro con gli stalli in noce, fatti realizzare dai confratelli del Santissimo Sacramento. 

    Sopra l'altare maggiore c'era l'architrave con un fregio dipinto, e un grande quadro raffigurante sant'Agabio, con una cornice dorata, il quale occupava lo spazio fra l'architrave e il soffitto della chiesa. 

    Sul lato sinistro del presbiterio si accedeva ad cappella a volta, affrescata con dipinti antichi, fra i quali era raffigurata la Pietà; si diceva che in questa cappella fosse stato sepolto sant'Agabio prima della sua traslazione in cattedrale. 

    Sopra di essa c'era il campanile, il quale aveva il basamento in muro solo su tre lati, mentre nell'angolo nord-occidentale poggiava su una colonna rotonda di mattoni. Alla cappella era attiguo un ripostiglio ad uso della chiesa. 

    Dalla parte opposta del presbiterio una porta conduceva alla sacrestia. 

    Procedendo verso le balaustre, sia a destra che a sinistra, si passava alle cappelle laterali, nelle quali si trovavano due altari, di cui quello a meridione era dedicato alla Beata Vergine e quello a settentrione dedicato a san Carlo. Il primo era fatto a scacchi, e su di esso in una nicchia dipinta di color celeste c'era una statua della Madonna con Gesù bambino in braccio. 

    Una vetrata coperta da una tenda di seta rossa con un ricamo d'oro, raffigurante l'effige della Beata Vergine nascondeva abitualmente la statua. Sul lato destro della nicchia era dipinto san Gaudenzio, e sul sinistro sant' Agabio. L'altare di san Carlo era invece formato da due gradini dipinti. Su di esso era collocato un quadro raffigurante il santo che benediceva un luogo campestre; intorno al quadro erano visibili delle decorazioni a stucco, e così pure nella cappella; sulla volta era dipinto Dio Padre con quattro angeli intorno. A metà circa della navata verso nord c'era una porta che conduceva all'oratorio dei confratelli del Santissimo Sacramento, al cui interno si trovava un antico sepolcro della famiglia Basignana, con un'immagine della Madonna addossata al muro. 

L'oratorio immetteva a sua volta nel cimitero, al quale si poteva accedere anche dalla piazza antistante la chiesa. 

La navata centrale della chiesa era separata dalle navate laterali da otto colonne che sostenevano le volte. 

Sul pavimento erano disseminati il sepolcro parrocchiale, quello delle donne, dei fanciulli e dei confratelli. 

Altre notizie preziose su questa chiesa e la comunità locale si trovano negli atti delle visite pastorali, che per i vescovi erano uno strumento per conoscere le loro diocesi e per dare indicazioni alle parrocchie. 

Lo svolgersi delle visite pastorali, dal concilio di Trento fino ai nostri giorni, ha seguito una procedura che è rimasta pressochè immutata. 

Prima della visita venivano inviate nelle parrocchie istruzioni scritte sulle modalità di svolgimento. 

Il parroco stendeva poi una relazione in cui descriveva la parrocchia, la pastorale, le strutture e rispondeva ai quesiti specifici richiesti dal vescovo. Nel giorno stabilito il vescovo veniva accolto dalla comunità e processionalmente si recava alla chiesa parrocchiale, dove celebrava solennemente l' Eucarestia. La visita poteva durare anche diversi giorni, durante i quali il vescovo visitava le chiese e gli oratori, esaminava le reliquie, i paramenti, gli arredi; chiedeva conto della gestione economica, esaminava il clero, informandosi dei benefici e dei legati, raccoglieva notizie su usi e costumi civili e religiosi della parrocchia. Al termine venivano inviati gli "ordini" per ovviare alle mancanze e agli abusi riscontrati durante la visita. Questo materiale, raccolto e conservato, costituisce una fonte privilegiata per conoscere la storia e l'evoluzione della parrocchia. La prima visita di cui esistono gli atti è quella di monsignor Carlo Bascapè, avvenuta nel 1595. Nella relazione di visita si dice che la chiesa parrocchiale di Sant'Agabio, pur essendo a tre navate, era angusta, aveva il tetto a volta ed era imbiancata. Nella cappella maggiore, sotto una volta, si trovava l'altare, non racchiuso da balaustre, distante due cubiti dalla parete di fondo, con un tabernacolo in legno dorato, costituito da una parte inferiore per la conservazione dell'Eucarestia, e una superiore per l'Esposizione del Santissimo Sacramento. Sotto l'arco della cappella, appeso ad un'architrave, pendeva il crocifisso. Non c'era il campanile ma soltanto un muro ad arco, sotto un tetto di tegole, che sosteneva due campane. Il cardinal Taverna nella sua visita del 27 giugno 1618 aggiunge altri particolari: la chiesa era stata restaurata di recente, tuttavia conservava pareti rozze e male intonacate ed era priva di un pavimento adatto ad una costruzione sacra. Necessitava inoltre di una nuova consacrazione. Al presbiterio si accedeva attraverso due gradini, l'altare maggiore era alquanto basso e angusto. Nella navata ad aquilone c'era una cappella imbiancata e a volta, chiusa da balaustre, con un altare di fattura mediocre, dedicato alla Beata Vergine. Su di esso era posta una statua della Madonna, rivestita di abiti con i colori liturgici. Nella chiesa parrocchiale non esisteva il battistero, in quanto tutti i battesimi venivano celebrati in cattedrale. Il vescovo ordinò di dipingere l'effige di sant'Agabio sulla facciata della chiesa. Nella visita del vescovo Odescalchi (20 gennaio 1658) viene confermato il cattivo stato della chiesa, reso evidente dai molti buchi presenti in diversi punti delle pareti e dal fatto che il pavimento era pressochè inesistente. Si giustifica il mancato restauro con il timore che in breve tempo dovesse essere demolita, vista la vicinanza alle fortificazioni della città. Per la prima volta compare il campanile, a forma quadrata, sufficientemente alto e munito di due campane, le quali non suonavano l'ave Maria né a mattina né a sera. Nel 1690 il vescovo Visconti rilevava all'estremo della navata sinistra, un altare dedicato a san Carlo, con una tela raffigurante il santo, racchiusa in una corona di gesso. In un inventario del 1706 troviamo una descrizione approfondita dell'antica parrocchiale, così come si presentava un ventennio prima di essere demolita. E' particolarmente interessante la descrizione dell'altare maggiore e del tabernacolo in legno, piramidale, a tre ordini di colonne, con intagli dorati e sfondi verdi nella parte anteriore e rossi nella posteriore. Intorno al tabernacolo vi erano otto colonnette così disposte: due per ogni lato della porticina e due ai lati del tabernacolo, lavorate e dorate in parte, e in parte di color verde; infine le due colonnette dietro erano lavorate e di color rosso. Anteriormente, nello spazio fra le colonnette era dipinta al centro l'immagine di Cristo, a destra la Santa Vergine con Gesù in grembo e a sinistra san Lorenzo. Nelle parti laterali vi erano san Giovanni Battista e santo Stefano; nella parte posteriore i santi martiri Nazzaro e Celso. Sopra a questa prima sezione si trovava un secondo ordine di sei colonnette della stessa forma delle precedenti, e sopra ancora un terz'ordine di colonne dorate. Al centro era posta la cupola intagliata, con intaglio dorato; sulla sommità vi era una statua del Risorto con una bandiera in mano. Il campanile aveva due campane, di cui una con l'immagine della Madonna, di sant'Agabio, di san Lorenzo e di san Giovanni Battista e l'altra con l'iscrizione: "Sancta Maria ora pro nobis anno 1638" con un Cristo, e l'immagine di sant'Agabio. Nella visita del vescovo Giovanni Battista Visconti (26 maggio 1709) l'antico tabernacolo appena descritto non compare più: l'altare maggiore era stato ricostruito di recente in marmo e il tabernacolo dello stesso materiale aveva sostituito il precedente in legno. La demolizione della chiesa parrocchiale di sant'Agabio è l' ultimo atto di un progetto sulla città di Novara che era iniziato alla metà del Cinquecento; nonostante il pericolo del suo abbattimento si fosse presentato più volte nei due secoli successivi per i vari progetti di espansione delle mura la parrocchiale resistette fino all'aprile del 1927. Eppure si parlava di demolizione già dalla metà del 1600: nel testamento del curato Pier Maria Allevi, datato 1648, si legge che egli lasciava la casa in cui abitava alla Confraternita del Santissimo Sacramento eretta nella chiesa di Sant'Agabio, la quale aveva l'obbligo di fargli celebrare in perpetuo l' anniversario della sua morte in quella chiesa. Nel caso in cui la chiesa fosse stata demolita per ordini superiori, come sembrava imminente a causa della costruzione delle fortificazioni per la città, l'anniversario si sarebbe dovuto celebrare nella chiesa costruita di nuovo o in cui il titolo di sant'Agabio fosse stato trasferito. Gli ultimi giorni della chiesa parrocchiale di Sant'Agabio sono raccontati da un contemporaneo, il sacerdote Gaudenzio Martinelli, il quale dice che il 31 marzo 1727 il parroco don Giacomo Camoletti e i confratelli del Santissimo Sacramento tolsero dalla chiesa tutte le suppellettili e speravano di avere in consegna il legname e il ferro per riutilizzarli. In realtà non fu possibile niente di tutto questo: il curato ricevette soltanto un risarcimento di 2500 lire, sebbene la chiesa venisse stimata £ 4000. Il 5 aprile dello stesso anno le mura perimetrali furono minate e le colonne interne forate e riempite di polvere; la chiesa fu quindi fatta esplodere e alle rovine venne appiccato il fuoco. I contemporanei, a partire dal parroco e dai parrocchiani, giudicarono la demolizione della chiesa un atto di barbarie. LaNovara Sacra del 1840 dice che alcuni anni prima erano stati fatti degli scavi nei pressi dello Spalto attiguo al fossato, ed erano emersi "...dei grossi pezzi quadrati di vivo sasso, che erano certamente le basi dei pilastroni che sostenevano le tre navate della chiesa; più una buona porzione del pavimento e molte ossa di cadaveri". 

San Martino de Mollia diventa la nuova chiesa parrocchiale di Sant' Agabio.

 Con la demolizione della chiesa parrocchiale si presentò la necessità di trovare una nuova sede per la comunità. Si prospettò la possibilità di ottenere in uso la chiesa di san Martino de Mollia, che si trovava all'incrocio fra le vie che conducevano a Milano e a Galliate, nel luogo dove sorge la parrocchiale attuale. Questa chiesa era comunemente detta del Cristo, perché esternamente vi era addossata una cappelletta nel cui interno c'era un altare con l'icona raffigurante il Crocifisso con l'Addolorata e san Giovanni. La gente diceva che qui era stato ucciso un vescovo, perché in essa non si celebrava da lungo tempo. La chiesa era di pertinenza del monastero benedettino di san Lorenzo, dopo l'abbattimento del quale i beni erano stati dati in affidamento (commenda) ad un abate non più residente in Novara; così l'antica chiesa di san Martino era caduta in rovina. Alcuni documenti ci forniscono notizie circa questa chiesa nel secolo XVII. In una lettera proveniente da Roma, l'abate commendatario Girolamo Farnese scriveva al suo procuratore in Novara Carlo Bassimo che il cardinal Taverna, visitando la chiesa nel 1618, aveva notato che essa era in pessimo stato, tanto che non si celebrava da molti anni. L'edificio sacro sembrava una stalla, e il cimitero era coltivato dai fittavoli come se non fosse un luogo consacrato. Il vicario generale del vescovo di Novara aveva informato l'abate che un tempo quella chiesa era stata parrocchia e che era suo compito provvedere al restauro. Il cardinal Farnese invitava il suo procuratore ad informarsi presso il canonico Migliavacca circa lo stato della chiesa, il motivo per cui non si celebrava, la spesa necessaria al restauro e infine se quella chiesa era stata veramente parrocchiale, in che tempo e dove era stato trasferito il titolo. Nel 1727 il vicario generale della diocesi chiese all'abate commendatario di san Lorenzo la cessione della chiesa di san Martino de Mollia e questi si dichiarò favorevole a condizione che i beni circostanti la chiesa, di proprietà dell'abbazia, non fossero ceduti insieme all'edificio . La chiesa, in stile romanico, era a tre navate, con il coro semicircolare rivolto ad oriente, un'unica porta di accesso e due finestre di cui una a forma di trifora in fronte e una rettangolare a sud. Sulla facciata a sinistra dell'ingresso era raffigurato san Martino con la sottostante iscrizione "sanctus Martinus". Sull'altare si trovava un'ancona antichissima, ridotta in pessimo stato dall'umidità, raffigurante lo sposalizio di santa Caterina fatto da Gesù in braccio a Maria. Esisteva anche un campanile costituito da due piccoli pilastri ma senza campane. L'intero edificio era pericolante e si dovette rinforzare con barbacani. Le volte delle navate laterali rischiavano di crollare, mentre quella della navata centrale era crollata circa un secolo prima e dall'interno era visibile il tetto. Le chiavi della chiesa erano custodite da un eremita che portava l'abito dei terziari francescani e che cessò il suo servizio nello stesso anno. Egli aveva comperato una campanella del costo di 50 lire e l'aveva sospesa alla capriata del tetto. Il 5 aprile 1727 la chiesa fu ripulita. Dall'antica parrocchiale abbattuta venne traportato l'altare maggiore. L'altare e la chiesa furono benedetti e il curato di Sant'Agabio vi celebrò la Messa. Il 13 aprile fu dedicata a sant'Agabio. Il 22 febbraio 1729 il canonico Giuseppe Battioni, quale procuratore dell'abate commendatario Francesco Origone di Milano, cedeva la chiesa di san Martino de Mollia al parroco don Camoletti il quale nello stesso anno permutava con lo speziale Giambattista Redondi due pezzi di terra situati nel campo marzio con un pezzo di terra situato nei pressi della chiesa del Crocifisso, al fine di costruire una nuova chiesa. La chiesa di san Martino fu abbattuta e il 22 settembre 1729 si aprì la fabbrica della nuova chiesa: furono gettate le fondamenta del coro, del campanile e del presbiterio. Il campanile fu il primo ad essere costruito; seguirono il coro e il presbiterio. Nel 1732 il presbiterio venne chiuso con un muro che faceva da facciata per permettere l'utilizzazione dell'edificio. Fu sistemato l'altare e il provicario Cotta diede la benedizione. Nell'estate del 1734 la volta crollò a danno di tre operai che rimasero feriti. In una memoria scritta da don Vincenzo Bairate si dice che nei registri dell'archivio parrocchiale del Torrion Quartara si può leggere che la costruzione della chiesa del Torrione e di Sant'Agabio, insieme a quella di Isarno, fu sospesa definitivamente nel 1758 a causa della morte del cardinal Borromeo il quale finanziava le opere. La memoria dice anche che il cardinale aveva lasciato per testamento agli eredi di completare le chiese e che questi avevano affidato all'amministrazione civica una somma di denaro per completare la chiesa di Sant'Agabio, ma a quanto risulta il denaro fu incamerato e destinato ad altri scopi, per cui la chiesa non fu ultimata. Di questa chiesa non si conosce il progetto, anche se alcune persone affemavano che il galliatese don Pasquale Ferrari, ex direttore spirituale del Collegio Nazionale, l'aveva visto presso il monastero delle Orsoline di Galliate. Nel 1845 il parroco don Aurelio Bignami, descrivendo la chiesa, diceva che l'aspetto esterno si presentava più a forma di casa che di chiesa, era in mattone e la porta di accesso era coperta da un piccolo portico sostenuto da colonne. All'interno il coro e il presbiterio costituivano la maggior parte dell'area della chiesa. Ai lati del presbiterio si trovavano due cappelle, di cui una dedicata alla Madonna del Rosario a destra per chi entrava in chiesa e l'altra dedicata al Crocifisso a sinistra. La cappella della Madonna aveva un altare con un gradino di marmo, la mensa in mattone e altri due gradini in marmo, sovrastati dalla nicchia, chiusa da una vetrata, in cui era posta una statua antica della Madonna. La cappella dedicata al Crocifisso aveva un altare simile a quello della Madonna e nella nicchia, oltre al Crocifisso, c'erano le statue dell'Addolorata a destra e di san Carlo a sinistra. In questa cappella c'era anche il battistero con la vasca di marmo e il castello di ferro. Il pavimento era lastricato e in esso erano inserite due lastre sepolcrali. Due gradini conducevano in presbiterio. La chiesa parrocchiale mantenne questo aspetto fino a quando il progetto della chiesa attuale fu approvato e realizzato. Le fatiche per costruire una chiesa Nell' ultimo ventennio dell'800 si cominciò a riconsiderare l'idea di completare la costruzione della chiesa parrocchiale. Accantonato il progetto settecentesco, il parroco don Fabio Ansani ne commissionò uno nuovo, che fu realizzato da don Ercole Marietti, intorno al 1881, ma in seguito accantonato. Nel 1902 il parroco, probabilmente stimolato dal vescovo monsignor Pulciano, affidò all'ingegner Zorzoli l'incarico di elaborare un nuovo disegno, apprezzato alla sua presentazione. Don Ansani sottopose allora al consiglio comunale l'esame del progetto di ampliamento della chiesa parrocchiale; nella risposta il Sindaco affermava che, a seguito della perizia e della valutazione dell'Ufficio Tecnico, la spesa prevista si sarebbe aggirata sulle 60000 lire. Di queste 10000 sarebbero state versate dal Comune come contributo, 2000 erano state offerte dal vescovo, 5000 dal parroco: ne rimanevano 43000 che sarebbero state a carico della popolazione. Prima di dare il via al progetto tuttavia il Comune ritenne indispensabile indire un referendum per conoscere la disponibilità dei parrocchiani a contribuire alle spese. Il risultato fu catastrofico: su duecentonovanta convocati ci furono sedici voti favorevoli e duecentouno contrari. Un nuovo progetto, questa volta preparato dall'architetto Erminio Andreoni, fu presentato in Municipio nel 1906 e la giunta deliberò che gli uffici competenti lo esaminassero prima di presentarlo al Consiglio comunale. In agosto il parroco chiedeva di rimandare all'autunno l'esame per avere il tempo di chiedere al vescovo un sussidio e al Ministro del Culto una somma pari al 6% della spesa, che forse sarebbe aumentata per l'appoggio del deputato Bernini . La commissione edilizia aveva proposto che il parroco facesse tombinare la roggia che scorreva davanti alla chiesa e per questo era necessario rimandare, in attesa di trovare fondi sufficienti a finanziare l'opera. Nel settembre dello stesso anno don Ansani moriva senza che la pratica per la costruzione della chiesa potesse continuare il suo cammino. Nel 1907 giunse a Sant'Agabio don Bairate, proveniente dalla parrocchia di Soriso. Il giorno della presa di possesso della parrocchia da parte del nuovo parroco, il vicario generale della Diocesi, monsignor Del Signore, espresse il desiderio che la comunità parrocchiale di Sant'Agabio avesse una chiesa degna di tale nome. Nel marzo 1908 sul bollettino parrocchiale apparve un progetto, preparato dall'ingegner Bairate, fratello del parroco, che sostituiva il precedente, dell'architetto Andreoni, già approvato a suo tempo dalle autorità competenti e mai realizzato a causa della richiesta di attesa del parroco, preoccupato del finanziamento dell'opera. Se da una parte il progetto Andreoni avrebbe risolto il problema dell'edificio esistente, che assomigliava più ad una grossa casa che ad una chiesa (non esisteva neppure una croce che lo indicasse come luogo di culto), tuttavia esso non soddisfaceva don Bairate perché comportava la costruzione di una chiesa insufficiente a contenere la popolazione; inoltre quello preparato dall'ingegner Bairate era preferibile sia per le dimensioni che per lo stile. L'intenzione di accantonare il progetto Andreoni suscitò una vivace polemica fra il parroco e il progettista, che si vendicò tramite un amico facendo deridere don Vincenzo, che sperava di poter finanziare l'opera con il contributo dei parrocchiani. Nel 1911 don Vincenzo si convinse che era giunto il momento di tornare alla carica e presentò il progetto alla Curia, chiedendo l'autorizzazione per costruire. Il ritardo della risposta e il sopraggiungere della guerra di Libia arrestarono nuovamente la costruzione. Il 17 febbraio 1913 don Bairate scrisse una lettera al Sindaco dicendo che negli ultimi vent'anni la popolazione era cresciuta quasi fino a toccare la punta delle seimila unità. Di fronte a questa crescita la vecchia chiesa risultava assolutamente insufficiente a contenere i fedeli per le funzioni domenicali. Negli ultimi cinque anni si era raccolto del denaro attraverso feste di beneficenza e sottoscrizioni "pro erigenda Chiesa": le offerte venivano pubblicate sul bollettino parrocchiale. Don Bairate, nelle sue Memorie, ricorda che nel 1907 insieme alla posta ricevette una busta contenente un foglio di carta per avvolgere il formaggio, sul quale c'era scritto a matita: " Buono di mille lire per distruggere la Chiesa". Il parroco ritenne di buon auspicio questa presa in giro, nonostante la raccolta non desse i risultati sperati. Si faceva appello al Comune di Novara che, per il passato, era sempre intervenuto nella costruzione delle chiese parrocchiali della città e dei sobborghi e si citava una legge comunale e provinciale, la quale all'art. 299 recitava: " Fino a quando non sia approvata una legge che regoli le spese di culto sono obbligatorie pei Comuni quelle per la conservazione degli edifici servienti al culto pubblico, nel caso di insufficienza di altri mezzi per provvedervi". Secondo il parroco l'interpretazione di questa legge significava che il Comune era tenuto a partecipare non solo alla manutenzione delle chiese ma anche alla loro riedificazione nel caso in cui queste non fossero più sufficienti a contenere la popolazione, come nel caso di Sant'Agabio. La risposta dell'amministrazione non fu molto esaltante. Il Sindaco rispose: "Ho esaminato la domanda inoltrata dalla S.V. Rev.ma per ottenere un sussidio per compiere il divisato ampliamento di cotesta chiesa parrocchiale. Se non che, tenuto conto che la quasi totalità degli abitanti si dichiarò, pochi anni or sono, contraria all'esecuzione dell'opera, io non posso, ora, assecondare la di lei domanda come sarebbe mio desiderio, tanto più che l'interpretazione dell'art. 299 della legge com. e prov. da V.S.Rev. invocata per parte della dottrina e della giurisprudenza è tutta che concorde". Il Sindaco concludeva invitando il parroco a ridurre le dimensioni della chiesa da costruire, a reperire aiuti da parte di altri enti in modo da diminuire le spese a carico dei cittadini e del Comune. A quelle condizioni il Comune avrebbe dato una risposta favorevole. Nel Luglio 1917, in occasione del suo 25° di sacerdozio e 10° di parrocchia, al termine di una festa preparata in suo onore, il parroco dichiarava: "Datemi i mezzi e prima di dieci anni vi dò la Chiesa fatta". Il termine della guerra e il sopraggiungere di tempi ancora più difficili costrinsero tuttavia a rimandare nuovamente l'inizio dell'opera. Nel 1920 sembrò aprirsi un nuovo spiraglio attraverso l'interessamento del Conte Ernesto Lombardo, che si dichiarò disposto a contribuire finanziariamente sostenendo le spese dei muri e del tetto, ma anche questa volta ogni tentativo fallì perché il benefattore, spazientito dal protrarsi dell'inizio dei lavori, si ritirò provocando il risentimento del Bairate:" Neanche un Conte ha il diritto di trattare così un povero parroco". Il 15 gennaio 1921 il progetto della chiesa, rifatto dall'ingegner Bairate (Il precedente, presentato in Curia, non si trovava più e venne restituito solo a chiesa ultimata) venne nuovamente presentato al Sindaco, che dichiarò che all'esecuzione si opponeva la necessità di dover abbattere la casa del bidello delle scuole, situata sulla piazza della chiesa stessa e che era in progetto una strada la quale avrebbe congiunto il nuovo cavalcavia di Porta Milano con il Corso Milano attraverso la via De Amicis. Si invitava dunque il parroco a pensare ad un'altra località. Come previsto, gli uffici tecnici comunale e provinciale diedero parere negativo e di fronte all'insistenza di don Bairate contestarono addirittura alla chiesa la proprietà della piazza, divenuta a loro parere di uso pubblico. Si fece allora ricorso al Ministero dei lavori pubblici che mandò gli atti al Genio civile di Novara: l'ente si dichiarò favorevole all'edificazione della chiesa in altra sede e fu offerto un terreno, dove in seguito furono costruite le scuole, e £ 80000 in cambio della vecchia chiesa e di tutti i fabbricati parrocchiali; questa proposta non teneva però conto che il parroco sarebbe rimasto privo di abitazione e del reddito prebendale; di fronte a tale obiezione il Presidente del Genio ammise che in quei termini la questione non si sarebbe risolta e su richiesta di don Bairate, trasmise nuovamente gli atti al Comune, dove nel frattempo all'amministrazione socialista era subentrato come Sindaco il dottor Bocci. Il 9 luglio 1924 venne concessa la licenza edilizia a condizione che l'ampliamento venisse modificato nell'estensione in modo da mantenersi complessivamente nei limiti segnati dal prolugamento del ciglio di levante della strada comunale Edmondo de Amicis sino all'incontro della provinciale per Milano. Tuttavia l'ingegner Bairate si rifiutò di modificare per la quarta volta il progetto e la Fabbriceria della chiesa pensò di farsi portavoce di questa protesta appellandosi alla Provincia: Don Vincenzo aveva già pronta una lettera da spedire personalmente allo studio del Sindaco Bocci, chiedendo scusa per questa decisione, che non voleva comunque essere una ribellione alle decisioni della Giunta comunale. La minuta di questa lettera è interessante perché esprime il parere del parroco in merito all'intera vicenda della costruzione della nuova chiesa:"La pazienza con cui ho atteso per quasi 4 anni la soluzione di una difficoltà che, mi perdoni, sembrava più apparente che reale, ha avuto ben meschino risultato". In realtà poi venne inoltrata una richiesta al sindaco in cui si chiedeva che la Giunta riconsiderasse il progetto e desse il permesso di realizzarlo così com'era, visto che l'opera era " Artistica e patriottica, di alto valore morale e civile". L'eliminazione di una campata avrebbe reso la chiesa insufficiente e il titolo di Tempio della Vittoria non sarebbe stato adeguato per una chiesa mutilata. In secondo luogo si affermava che, affacciandosi la chiesa su una piazza, e non su una strada, non poteva essere d'intralcio alla viabilità. Non era giusto infine disattendere l'attesa della gente per questa costruzione in onore dei caduti per la Patria. Il 30 settembre veniva concessa una nuova licenza edilizia, che prevedeva la realizzazione del progetto presentato il 15 gennaio 1921, senza togliere l'ultima campata come richiesto nella precedente autorizzazione. La nuova chiesa avrebbe potuto superare la linea di prolungamento della via de Amicis. Il committente era invitato a specificare alla Commissione edilizia la natura e la qualità dei materiali da usare nella decorazione della facciata prima che questa venisse realizzata. Nel novembre 1924 iniziarono i lavori e il 7 dicembre il vescovo monsignor Gamba, amministratore Apostolico di Novara, benedì la fabbrica e diede la benedizione Eucaristica, consegnando al termine al Bairate la somma di 1000 lire. L'11 ottobre 1925 nella nuova chiesa si celebrò la festa della Madonna del Rosario e per Natale entrò definitivamente in funzione, sebbene fosse ancora priva di porte e di finestre e il coro fosse ancora aperto. Nel mese di settembre 1926 ci fu la consacrazione solenne della chiesa da parte del vescovo monsignor Giuseppe Castelli, il quale concesse l'indulgenza di cinquanta giorni a tutti i fedeli che avrebbero visitato la chiesa sostando in preghiera il 9 settembre, anniversario di tale avvenimento. Per la consacrazione il Podestà Console Oddone Mazza si era impegnato a far intervenire qualche Principe di Casa Savoia o qualche rappresentante del Governo, ma nel frattempo era cessato il suo mandato non se ne fece nulla. Don Bairate descrive così la nuova chiesa: "Della vecchia Chiesa nulla più si riconosce nell'interno. All'esterno restano in vista, a Nord come a Sud, ruderi dei muraglioni, sopra uno dei quali è collocata una statua del Redentore in cotto, che figurò una volta sul campanile della Chiesa del Rosario, gratuitamente concessa da quel Parroco. La Chiesa ha solamente tre altari: il maggiore dedicato al titolare sant'Agabio, quello della Madonna del Rosario e quello del Santissimo Crocifisso. L'altar maggiore è quello preesistente, di stile barocco, in marmo, grazioso, ma non in stile dunque colla Chiesa. Dietro di esso è aperta una finestra con vetro istoriato rappresentante sant' Agabio che offre il S. Sacrifizio. Di fronte in fondo alla Chiesa, sopra la porta maggiore, è un quadro di grandi proporzioni che rappresenta lo stesso Sant' Agabio celebrante innanzi a gran turba di popolo. Il quadro, graziosamente donato, è opera del Pittore A. Navaretti; la vetrata, dono della Sig. Erminia Bozzola Ved. Fizzotti, è opera del Sig. Angelo Poletti". Nel 1932 don Bairate indicava come opere da realizzare la decorazione della Chiesa, l'acquisto dell'organo, il riscaldamento e l'allestimento della sacrestia mediante l'acquisto di paramenti e oggetti di culto, con relativi armadi in cui custodirli. 

La confraternita del Santissimo Sacramento. 

Nell'antica chiesa parrocchiale di sant'Agabio era istituita la confraternita del Santissimo Sacramento, i cui membri si radunavano in un oratorio a cui si accedeva attraverso una porta nella navata laterale sinistra. Le confraternite erano associazioni laicali alle quali i fedeli si aggregavano dopo un periodo di tempo da novizi. Tali associazioni, che in qualche modo ricalcavano lo stile degli ordini religiosi, nascevano con finalità di culto o di carità. Gli aderenti portavano un abito che li distingueva dai membri delle altre confraternite. Gli impegni principali degli iscritti erano la recita dell'ufficiatura in coro e l'adempimento dei doveri contenuti nella Regola. Monsignor Bascapè nel 1595 descrive l'oratorio dei confratelli dicendo che aveva il tetto di tegole, il pavimento lastricato, tre finestre munite di inferriate e due porte di cui una conduceva in chiesa e l'altra sulla via pubblica attraverso il cimitero della confraternita, che si trovava davanti all'oratorio. In esso c'era una sepolcro antico, in cui in quel momento era proibito seppellire i morti. I confratelli avevano fatto costruire un'altra sepoltura all'interno dell'oratorio senza permesso e non era possibile verificare se fosse secondo le prescrizioni, visto che si trovava dietro gli stalli. Il vescovo notò nel cimitero attiguo una grossa pianta di vite e una latrina che poco si addicevano al luogo sacro. All'interno dell'oratorio lungo le pareti c'erano i sedili e le predelle dove prendevano posto i confratelli per il canto dell'Ufficio; contro la parete orientale era addossato l'altare, dove si celebrava la Messa ogni domenica, ma al vescovo non parve opportuno continuare con questa consuetudine vista l'angustia del luogo. Alla confraternita aderivano sia le donne che gli uomini, i quali affermavano che essa era era canonicamente eretta ed aggregata alla Arciconfraternita di san Pietro in Roma, ma non c'era nessun documento che provasse tale aggregazione, di cui godevano le indulgenze concesse. Ogni domenica si radunavano nell'oratorio per recitare l'Ufficio della Beata Vergine Maria, indossando un abito di tela rossa, che si diceva avesse sostituito il precedente "saccus" bianco con il distintivo di una croce rossa sul petto al momento dell'aggregazione all'Archiconfraternita romana. I novizi ricevevano l'abito dal curato durante una cerimonia apposita. Ogni prima domenica del mese facevano celebrare una Messa all'altare maggiore della chiesa parrocchiale, a cui seguiva l'esposizione del Santissimo Sacramento e una processione per le vie della parrocchia ma questa consuetudine era poi cessata perché non si era ottenuto il debito permesso. I confratelli seguivano la Regola di san Carlo e avevano alcuni impegni circa il culto ma monsignor Bascapè afferma che non li osservavano affatto, ad eccezione dell'onere di mantenere accesa la lampada davanti al Santissimo Sacramento nei giorni festivi. La confraternita era retta da un priore, un sottopriore, un maestro dei novizi che venivano rinnovati per elezione due volte all'anno, a Natale e per san Giovanni Battista, alla presenza del curato. Il loro compito era quello di rappresentare la confraternita e di curare la vita spirituale degli aderenti. I beni della confraternita, che si limitavano a un campo e alle offerte raccolte e annotate su un foglio, venivano amministrate da un tesoriere e quattro consiglieri. Negli ordini inviati in seguito alla visita, monsignor Bascapè richiese che nell'oratorio della confraternita non si celebrasse più la Messa perché il luogo era poco dignitoso. Ai confratelli rammentava anche il loro impegno principale che era quello di curare l'altare dove si conservava il Santissimo Sacramento e di provvedere ai paramenti. Li esortava anche ad accompagnare con i ceri il Viatico agli ammalati e ad osservare la Regola, soprattutto per quanto riguardava la frequenza dei sacramenti. Il vescovo osservava inoltre che solo quattro confratelli sapevano leggere, ed erano quindi in grado di recitare l'Ufficio. Gli altri sostituivano tale pratica con la recita del Rosario. I membri della confraternita non praticavano la flagellazione. Dalla visita del cardinal Taverna sappiamo che il 3 novembre 1606 la confraternita era stata aggregata a quella romana del Santissimo Sacramento di santa Maria sopra Minerva, per ovviare all'incertezza della precedente aggregazione. Il vescovo Odescalchi, nel 1658, quando già si ventilava la demolizione dell'intero complesso della chiesa parrocchiale, affermava che l'oratorio era di forma rettangolare, ne sottolineava l'angustia, l'umidità ed il degrado. Esso appariva senza pavimento e con un altare dedicato alla Madonna, piccolo, molto antico, sotto il quale era sepolta la beata Giovannina. Con la demolizione della parrocchiale e il trasferimento del titolo di sant' Agabio alla chiesa di san Martino de Mollia, la confraternita non ebbe più un oratorio proprio ma si radunò nel coro costruito dietro l'altare maggiore. La relazione più completa sulla confraternita è quella del parroco don Aurelio Bignami, stesa nel 1845, il quale dice che nella chiesa parrocchiale c' era una compagnia che esercitava gli uffici divini nel coro dietro l'altare maggiore nelle feste di precetto, era di antica istituzione e non si aveva memoria della sua erezione canonica. Don Bignami continuava dicendo che nei secoli passati la confraternita aveva il suo oratorio a lato della chiesa parrocchiale, ma nella demolizione dell'antica chiesa di sant'Agabio nell'anno 1727 insieme alla chiesa fu demolito anche l'oratorio. I confratelli vestivano un abito di tela rossa ed in ogni prima domenica del mese la maggior parte dei confratelli si radunavano nella chiesa parrocchiale e, dopo la catechesi tenuta dal parroco, accompagnavano in processione il Santissimo Sacramento, portato dal curato, sotto un baldacchino di damasco bianco. Si girava intorno al piazzale della chiesa al canto dell'inno "Pange lingua" e il Santissimo Sacramento era preceduto dalla croce dei confratelli e da quella delle consorelle, senza ostacolare le funzioni parrocchiali. Ogni anno, nel giorno della Presentazione del Signore, dopo la messa cantata dal parroco i confratelli si radunavano in chiesa parrocchiale per rinnovare il priore, il sottopriore e il maestro dei novizi. Dopo che i confratelli avevano invocato lo Spirito Santo coll'inno "Veni Creator", il parroco teneva un'omelia in cui li esortava alla frequenza della loro ufficiatura, all'abbandono delle cattive compagnie, all'allontanamento dalle bettole e dai giochi dannosi al timore di Dio. Si procedeva quindi all'elezione a voti segreti. I confratelli si presentavano uno dopo l'altro al parroco il quale raccoglieva il voto di ciascuno, scritto su un foglio e dichiarava eletti priore, sottopriore e maestro dei novizi coloro che avevano ottenuto il maggior numero di voti. I nomi venivano pubblicamente dichiarati in presenza della popolazione e i nuovi ufficiali, dopo aver fatto la genuflessione all'altare, cantavano l'inno"Te Deum laudamus". La funzione terminava con la distribuzione al popolo delle candele benedette da parte del parroco; il priore consegnava a sua volta a ciascun confratello una candela che veniva portata nelle processioni e poi restituita la domenica delle Palme. La domenica fra l'ottava del Corpus Domini la compagnia teneva una processione distinta da quella della parrocchia, con maggiore paratura in chiesa, maggior numero di candele sull'altare e con l'intervento di religiosi. Tutti i confratelli e le consorelle accompagnavano il Santissimo Sacramento portato sotto il baldacchino, lungo un tragitto più lungo rispetto alla processione mensile. Da mezzogiorno al tramonto veniva esposto il Santissimo Sacramento sotto il tempietto dell'altare e la solennità terminava con i Vespri e la benedizione eucaristica. Questa memoria del parroco don Bignami è importante perché tramanda una tradizione consolidatasi in almeno tre secoli di presenza della confraternita nell'ambito della comunità di Sant'Agabio. Il numero dei confratelli variava dai 34 del 1598 ai 39 del 1618, dai 100 del 1658 ai 130 del 1690, un numero piuttosto alto se si considera che gli abitanti del rione in quel periodo non erano neppure mille. Dalla relazione del 1925 preparata dal parroco don Bairate per la visita pastorale di monsignor Castelli risulta che la confraternita è ormai un ricordo del passato.