I° INCONTRO DI PREGHIERA

 

"Padre": il Padre ti fa suo figlio

 

Vogliamo cominciare insieme un itinerario di preghiera: lo vogliamo vivere insieme per imparare a portare nella preghiera gli uni i pesi degli altri: a sostenere gli uni il cammino degli altri sapendo che è il Signore a portare i pesi di tutti e a sostenere il cammino di tutti.

Ci rivolgiamo allora al Signore perché sia Lui che ci insegni a pregare. Che Egli ci insegni una preghiera che vada davvero a Dio e che non sia solo un ritornare su noi stessi: una preghiera che venga dal cuore che non si limiti a essere un’abitudine, una parola stereotipa. ma diventi esperienza personale capace di cambiare la vita: una preghiera che non sia un rifugio per evitare le difficoltà dell’esistenza. Ma, piuttosto, una forza per affrontarle con un orientamento di fede. Una preghiera, infine, che ci unisca gli uni agli altri, perché la comunione è la vita stessa di Dio ed è lo scopo di tutta 1’esistenza cristiana.

Per questo motivo regaliamo al Signore un po’ del nostro tempo, perché egli ne faccia ciò che desidera. Ci lasceremo guidare da lui. seguendo la traccia di preghiera che lui stesso ci ha donato. Quando i discepoli si rivolsero a Gesù chiedendogli: "Signore, insegnaci a pregare" (Lc. 11,1), egli rispose insegnando loro il Padre Nostro (Lc 11,2-4). Lasciandoci guidare da questa preghiera, chiediamo di essere coinvolti anche noi nel suo atteggiamento di preghiera.

Rivelaci, o Padre, il mistero della preghiera filiale di Cristo,

nostro fratello e Salvatore, e donaci il tuo Spirito,

perché invocandoti con fiducia e perseveranza,

come Egli ci ha insegnato. cresciamo nell’esperienza del tuo amore.

Letture Bibliche: Rm. 8,14-17.26-27; Mt. 6,25-33

All'inizio delle Confessioni, S. Agostino esprime il desiderio di lodare Dio, ma si chiede, nello stesso tempo, come l'uomo possa giungere alla lode autentica. Non va da sé, infatti, che un uomo piccolo e debole, con un cuore segnato dal peccato, possa giungere a lodare Dio grande e santo. Eppure, nota S. Agostino, non possiamo rinunciare alla lode, perché Dio ci ha creato per Lui e il nostro cuore è inquieto finché non trova riposo in Lui. Lodare Dio è una necessità assoluta dell'uomo per giungere a realizzare se stesso e trovare la pienezza della gioia.

Ora, non è possibile lodare veramente Dio se prima non lo si è conosciuto; si correrebbe il rischio, altrimenti, di scambiare per Dio qualcos'altro. Per conoscere Dio, bisogna cercarlo; siccome però Dio non è un'idea astratta, ma un essere personale vivente, cercarlo significa invocarlo e cioè chiamarlo dentro di noi.

E come è possibile invocare Dio? S. Agostino risponde: solo attraverso la fede, accogliendo, cioè, la parola d'amore che Dio per primo liberamente e gratuitamente ci ha rivolto. Il Dio al quale vogliamo parlare, che vogliamo lodare, non è un Dio ignoto: tanto meno è il Dio dei nostri pensieri o la proiezione dei nostri desideri. È invece il Dio della rivelazione, perché, attraverso la parola della predicazione, ci ha fatto conoscere il suo volto. Dice allora 5 .Agostino:

Che io ti cerchi, o Signore, invocandoti, e ti invochi credendo in te., perché ormai ci sei stato annunciato. Ti invoca, o Signore, la mia fede: quella che tu mi hai dato, che mi hai ispirato mediante il tuo Figlio fatto uomo, mediante il ministero del tuo predicatore (Conf. I).

Questo è il nostro punto di partenza, perché la preghiera cristiana nasce sempre di qui, dalla fede suscitata in noi attraverso Gesù Cristo. Nessuno, infatti, ha mai visto Dio: ma l'Unigenito Figlio che vive continuamente rivolto verso l'amore del Padre, lui ce lo ha fatto conoscere(Gv 1,18).

Non ci resta, allora, che metterci in ascolto lasciando che la prima parola sia la sua e disponendo il nostro cuore a una preghiera che sia essenzialmente risposta.

È questo il motivo per cui ci lasceremo guidare dal Padre Nostro E’ una preghiera che Gesù stesso ha messo sulla bocca e nel cuore dei suoi discepoli: in essa diventa chiaro chi è quel Dio al quale ci rivolgiamo e diventa chiaro il modo in cui possiamo davvero rivolgerci a Lui.

Partiamo dalla prima parola con la quale iniziamo la preghiera: Padre. Questa parola non è né l'espressione della nostra intelligenza, nè la proiezione dei nostri desideri, è piuttosto la parola che esprime l'atteggiamento religioso essenziale di Gesù di Nazaret, il suo rapporto personale con Dio. Quando noi diciamo "Padre", non facciamo altro che entrare nell'esperienza religiosa di Gesù, che ha vissuto il suo rapporto con Dio essenzialmente nella dimensione filiale.

Leggendo tutte le preghiere di Gesù nel Vangelo, ci accorgiamo che tutte le volte che egli prega usa questa parola: "Io ti rendo lode, Padre... che hai nascosto queste cose ai dotti e ai sapienti e le hai rivelate ai piccoli" (Lc 10,21 ); "Padre, ti ringrazio che mi hai ascoltato (Gv 11,41); "Padre, è giunta l'ora, glorifica il Figlio tuo, perché il Figlio glorifichi te) (Gv 17,1); "Abbà, Padre! Tutto è possibile a te, allontana da me questo calice" {Mc 14,36); "Padre, nelle tue mani affido il mio spirito" (Lc 23,46).

Tutte le volte, dunque, che Gesù ha pregato, si è rivolto a Dio chiamandolo così: Padre. Anzi, dicono gli esperti che il termine aramaico abbà (una delle poche parole aramaiche che il Vangelo ci riporta) andrebbe tradotto: papà. Era infatti il modo usuale con cui il bambino, con piena fiducia, si rivolgeva a suo padre. Usando quella parola, Gesù ha inventato un modo nuovo di pregare, perché nessun Ebreo prima di lui si era mai rivolto a Dio chiamandolo abbà.

Gli Ebrei avevano certamente ben chiaro il concetto della paternità di Dio. Quando il Signore manda Mosè dal Faraone, gli fa annunciare: "Israele è il mio figlio primogenito... lascia partire il mio figlio perché mi serva" (Es 4,22-23). E nel profeta Osea si legge: "Quando Israele era un bambino io l'ho amato e dall'Egitto ho chiamato il mio figlio" (Os 11,1). E tuttavia nessun ebreo ha mai usato la formula abbà, papà, per rivolgersi a Dio: gli sarebbe sembrato un modo troppo familiare, quasi una mancanza di rispetto verso Dio.

È questo, invece, il termine usato sempre da Gesù, con l'unica eccezione della preghiera della croce: "Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?" (Mc 15,34), in cui Gesù prega con le parole del salmo 22. Ma c'è di più: pregando in questo modo, Gesù ci rivela il mistero centrale della sua vita: un rapporto di obbedienza assoluta e di fiducia totale con Dio. Dice infatti Gesù: "Mio cibo è fare la volontà di colui che mi ha mandato" (Gv 4,34). Il cibo dà vigore all'uomo permettendogli di vivere e di operare: Gesù trae la forza di vivere dal compimento della volontà del Padre: "Sono disceso dal cielo non per fare la mia volontà, ma la volontà di colui che mi ha mandato" (Gv 6,39). Durante l'ultima Cena, nel momento in cui lascia il Cenacolo per iniziare il cammino della croce: "Bisogna che il mondo sappia che io amo il Padre e faccio quello che il Padre mi ha comandato. Alzatevi, andiamo via di qui" (Gv 14,31).

Obbedienza piena, allora: obbedienza che fa sì che Gesù e il Padre siano una cosa sola (Gv 10,30), perché la volontà del Padre passa perfettamente attraverso i gesti, le parole e le opere di Gesù. Se l'uomo guarda con attenzione Gesù, può vedere in lui il volto stesso del Padre, può riconoscere nelle sue parole e nei suoi gesti la volontà del Padre.

Ma la parola abbà indica nello stesso tempo la fiducia totale, l'abbandono senza riserve nelle mani di Dio. Ricordavamo poco fa le parole di Gesù sulla croce come ci vengono ricordate nel vangelo di Luca: "Padre, nelle tue mani affido il mio spirito" (Lc 23,46). Ebbene, queste parole contengono la spiegazione del comportamento di Gesù: perché nella passione egli non si è opposto con violenza ai suoi nemici? Perché non ha restituito male per male, ma al contrario ha fatto del bene pregando e perdonando i suoi avversari? Dove Gesù ha attinto la forza per vivere un perdono così radicale? La spiegazione sta nel fatto che egli affida la sua vita all'amore e alla potenza del Padre, nel quale ha fiducia. Se Gesù, pur condividendo la debolezza della condizione umana, è capace di vivere la libertà dell'amore e del dono senza difendersi troppo con atteggiamenti di egoismo, è proprio perché ha affidato la sua vita alle mani del Padre. Obbedienza e fiducia, quindi, come due atteggiamenti complementari che definiscono il rapporto di Gesù con Dio.

Possiamo allora tentare di capire cosa significhi per noi rivolgerci a Dio chiamandolo Abba-Padre: significa penetrare nell'esperienza religiosa di Gesù, fare nostro il suo atteggiamento interiore, essere guidati dallo Spirito, vivere, direbbe Paolo, come membra di quel corpo che è Cristo.

Il giorno di Pasqua, andando incontro a Maria di Magdala, Gesù le dà questo comando: "Va dai miei fratelli e di loro: io salgo al Padre mio e Padre vostro, Dio mio e Dio vostro (Gv 20,17). Voleva dire così: quel Dio che è mio Padre da sempre lo dono a voi come vostro Padre, perché abbiate verso di lui quell’atteggiamento di figli che io stesso ho avuto. Pregare con questa parola vuol dire allora obbedire a Gesù, fare quello che ha fatto lui, pregare come ha pregato lui.

È importante, naturalmente, che la parola "Padre" non sia semplicemente una formula, ma corrisponda a una esperienza, a una profondità di vita: possono usare quella parola solo coloro che si chiamano e sono veramente suoi figli (1Gv 3,1).

Proprio per questo la preghiera cristiana è collegata al dono dello Spirito Santo che ci viene donato in Gesù Cristo. Abbiamo letto nella lettera ai Romani: "Tutti quelli che sono guidati dallo Spirito di Dio, costoro sono figli di Dio" (Rm 8,14). S'intende: tutti e solo quelli che sono guidati dallo Spirito di Dio sono figli di Dio. Lo Spirito di Dio corrisponde a una specie di codice genetico che, innestato nel centro dell’uomo, nel suo cuore, ne plasma pensieri e scelte, in modo che corrispondano ai pensieri e ai progetti di Dio.

Per essere figli di Dio, è necessario essere simili a lui, avere i suoi desideri e i suoi sentimenti. Per questo motivo si può dire di Gesù che è veramente il Figlio di Dio, perché è "immagine visibile del Dio invisibile" (Col 1,15), perché in Lui "abita corporalmente tutta la pienezza della divinità" (Col 2,9) e attraverso di lui Dio si è mostrato agli uomini. Ora, motivo di stupore senza fine è il fatto che nel Figlio Gesù Cristo anche noi siamo veramente figli di Dio (Ef l,5).

Il dono dello Spirito ci è comunicato perché la nostra esistenza cambi nel cuore, perché la parola di Cristo non giunga solo agli orecchi, ma diventi seme nel terreno della nostra volontà e della nostra vita e porti frutto. Alla radice di tutto, c'è quell'esperienza essenziale che si chiama fede e che consiste nell'accettare di essere amati da Dio, che si fa nostro Padre. L'amore di Dio Padre è effuso con abbondanza su tutti gli uomini e l'atto di fede consiste nell'accoglienza consapevole di questo dono, cioè dell'amore di Dio, dello Spirito di Dio. Lo Spirito Santo fa di noi una cosa sola con Cristo e fa sì che attraverso noi, Cristo stesso continui a vivere e a pregare, a rivolgersi al Padre.

Ciò, evidentemente, comporta in noi un atteggiamento di fiducia filiale nei confronti di Dio, una fiducia che vinca la paura di cui spesso è intessuta l'esistenza umana: la paura del mondo con la sua grandezza prepotente, la paura della morte con la sua inevitabilità, la paura della vita con gli inevitabili distacchi e le misteriose sofferenze, la paura di noi stessi e di quello che non riusciamo a comprendere o dominare del tutto nel nostro stesso cuore. Queste paure tendono a renderci preoccupati di noi stessi, a metterci in un atteggiamento di autodifesa egoistico.

Pregare vuol dire mettere queste paure, limitate, dentro a una fiducia illimitata in Dio Padre per non essere paralizzati dalla paura, per avere la forza di aprirci alla vita e all'amore verso gli altri, per togliere qualcuna di quelle tante difese che abbiamo innalzato intorno alla nostra casa, al nostro cuore.

Questa fiducia, evidentemente, va legata con l'obbedienza che nasce dal non avere più sospetti su Dio, non considerarlo più come un concorrente e un avversario, ma come la sorgente della mia sicurezza, della mia gioia e della mia speranza. Un'obbedienza, quindi, ben diversa da quella dello schiavo, che obbedisce per paura. o da quella diplomatica di chi adula per interesse. E invece l'obbedienza del figlio che si fida e che fa della sua vita una risposta gioiosa all'attesa, alla parola e alla volontà di Dio come Padre.

Quest o è il significato di quella prima parola che è all'origine del Padre Nostro e che deve stare al centro di ogni preghiera cristiana.

Infine, solo qualche suggerimento concreto per pregare personalmente.

Un modo molto semplice di pregare è quello di ripetere proprio quella parola: Padre. Racconta S. Teresa di Gesù Bambino che le accadeva abbastanza spesso, durante la recita del Padre Nostro, di non riuscire ad andare più avanti della prima parola: questa, da sola, le dava tanta gioia da non avere bisogno di andare oltre. Siamo di fronte, in questo caso, a un'esperienza di preghiera contemplativa molto intensa, quale era quella di S. Teresa di Gesù Bambino. Ma un'esperienza simile è possibile a tutti. La cosa importante è che il significato che diamo a questa parola corrisponda a ciò che di Dio ci ha rivelato Gesù Cristo. In secondo luogo, è necessario che, pregando, facciamo scendere le parole nel cuore: non basta pronunciarle con la bocca (sarebbe puro meccanismo) e nemmeno solo pronunciarle con la testa (sarebbe studio teologico): bisogna che le parole scendano nel cuore (e cioè nel centro della persona) e lì riposino.

Invece di ripetere solamente la prima parola - Padre - si può ripetere nello stesso modo una delle invocazioni del Padre Nostro. Ad esempio: Padre, sia santificato il tuo nome, oppure: Padre, sia fatta la tua volontà. È importante, però, non tralasciare mai la parola "Padre" all'inizio di ogni invocazione, perché essa esprime e comunica la consapevolezza di fede del nostro essere figli di Dio in Gesù Cristo.

Un altro modo di pregare è quello di riprendere le letture del Nuovo Testamento che abbiamo appena ascoltate e trasformarle in una preghiera rispondendo al Signore con le nostre parole. Non è necessario che diciamo molte parole o parole difficili; possono essere anche apparentemente banali: non lo saranno più nel momento in cui vengono dal cuore. Ad esempio: leggo in S. Paolo: "Fratelli, tutti quelli che sono guidati dallo Spirito di Dio, costoro sono figli di Dio" (Rm 8,14). È facile trasformare queste parole in preghiera: posso semplicemente ringraziare il Padre perché mi ha donato il suo Spirito, oppure posso supplicarlo: "Padre, donami il tuo Spirito come Spirito da figlio, perché io sia guidato nella mia vita secondo la tua volontà, perché non mi lasci sviare dalle mie paure e dai condizionamenti dell'ambiente, ma segua fedelmente la tua parola e i tuoi progetti". Continua S. Paolo: "E voi non avete ricevuto uno Spirito da schiavi per ricadere nella paura" (Rm 8,15). e anche qui posso ringraziare Dio, perché non sono schiavo e sto davanti a Lui come figlio: oppure posso supplicarlo perché mi dia uno Spirito non da schiavo, perché mi liberi da tutte le mie paure, dandomi una capacità di fiducia illimitata in lui. A ogni frase della lettura, così, rispondo a Dio, traducendo in supplica e rendimento di grazie quello che ho ascoltato.

È un modo di pregare semplicissimo ma anche ricco di forza, perché nasce come risposta alla parola di Dio. Si può dire che è Dio stesso a mettermi in bocca le parole, a suscitare nel mio cuore la supplica e il ringraziamento. E questo si compie mediante il dono del suo Spirito, che Dio non nega mai a quelli che glielo chiedono (Lc 11,13).

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