Parrocchia di Sorbano del Vescovo e del Giudice - Lucca

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BETLEMME PUO' ATTENDERE

Marzo 1998

Carissimi,

Dalle mie parti "andare a veglia" significava passare il dopo cena da amici incrementando amicizia. Un piccolo tempo libero e di libertà. Una traduzione domestica e paesana dei significati classici della veglia , del restare svegli e vigili anche nelle ore propizie al dormire, quelle notturne. Qualcosa di diverso - ma non ho intenzioni né demonizzanti né canonizzanti! - da manifestazioni un po' smodate, tipo fine anno o carnevale, per i quali la stessa lingua offre un accrescitivo - veglione - prezioso perché lascia autonomi e senza intorbidamenti la veglia e i suoi significati.

La liturgia cristiana privilegia una veglia: quella pasquale. Però la stessa liturgia concede al Natale una messa notturna. Che, in pratica, è un invito a vegliare. E, infatti, veglia natalizia è stata ed è con sempre maggiore fortuna. Per spontanea iniziativa e libera programmazione delle comunità e, quindi, diversamente dalla veglia pasquale sempre uguale perché fissata in testi e gesti codificati, sempre differente da comunità a comunità e di anno in anno. La nostra veglia natalizia 1997 - ed eccomi a quanto voglio raccontarvi - ha fatto riferimento ad Artaban.

Artaban: chi era costui?

Artaban è nato nel 1896 dalla fantasia del pastore presbiteriano Enry Van Dyke, americano di origine olandese, ed è approdato alla nostra lingua esattamente un secolo dopo (Il quarto saggio , Gribaudi, Milano 1996). Si aggiunge ai leggendari Gaspare, Melchiorre e Baldassare.

Anche lui vide la stella e anche lui partì portando con sé dei doni: quattro gemme. Ma non arrivò a Betlemme, o non vi arrivò in tempo per adorare il Bambino. Semplicemente perché lungo il viaggio si fermò per aiutare il prossimo. Prima fermata: un uomo, in fin di vita, afferrò un lembo della sua veste ed Artaban si interrogò: "Doveva volgersi, fosse solo per un istante, dal seguire la stella, per dare un sorso d'acqua (lui Medo) a un povero ebreo morente?".

Scelse di fermarsi e spese la prima delle gemme destinate al Re. La seconda gemma Artaban la spese più serenamente per salvare un bambino dalla furia omicida di Erode (era giunto a Betlemme ma durante la strage degli innocenti). Ma rimaneva il dubbio: "Ecco, due dei doni se ne sono andati. Ho speso per l'uomo ciò che era destinato a Dio. Sarò mai degno di vedere il volto del Re?". Passarono gli anni. Artaban giunse in Egitto e, qui, in zone devastate dalla carestia e dalle epidemie, in prigioni e navi-galere, non trovò nessuno da adorare ma molti da aiutare. "Sembrava quasi aver dimenticato la sua ricerca". E se ne andò la terza gemma. Ormai vecchio Artaban si ritrovò alle porte di Gerusalemme. Una giovane donna che stava per essere venduta come schiava, lo indusse ha sacrificare l'ultima gemma.

Ed arrivò la conclusione: non ambientata a Betlemme ma al Calvario dove una voce gli disse: "In verità io ti dico, in quanto tu lo hai fatto ad uno degli ultimi di questi miei fratelli, tu lo hai fatto a me". "Il viaggio era finito! I suoi tesori erano accettati! Il Quarto Saggio aveva trovato il Re!".

Artaban è diverso da Gaspare, Melchiorre e Baldassare. Questi procedono guardando in alto e arrivano carichi di offerte e di omaggi. Lui, Artaban, cammina guardandosi intorno, si ferma, spende e si spende e arriva a mani vuote e senza voglia di genuflessioni.Mi sento più discendente di Artaban che degli altri tre. Ma soltanto idealmente.
Perché sono scarsissimo come adorante ma non ho molto da vantare nemmeno come aiutante .Sul primo versante ho aggiustato le mie convinzioni: non credo che Dio mi abbia creato per adorarlo. Non mi quadra l'idea di Dio che crea gli umani per popolare di suoi cortigiani il piano Terra a completamento dei tantissimi (angeli, arcangeli.; la "corte celeste") che - si ritiene - ha già alloggiati al piano Cielo. Sto con chi disse che "la gloria di Dio è l'uomo vivente". E mi piace una sua traduzione recente: Dio non è teocentrico ma antropocentrico. Del resto Artaban non è affatto originale ma "copia" i dati fondamentali del grande portavoce di Dio, Gesù di Nazareth.

La vicenda di Artaban ripete quella del samaritano, dell'unico che si ferma sulla strada da Gerusalemme a Gerico mentre il sacerdote e il levita proseguono per non mancare all'appuntamento con il culto (Lc 10,30-36). E si conclude con la stessa sentenza che sancisce la vicenda di tutti gli umani: "benedetti" o "maledetti" in base all'aiutare e non all'adorare (Mt 25, 31-46).Mi sembra accertato: si può non adorare.Ma non si può non aiutare.
E cominciano i problemi. Per me. E, su questo versante, senza riuscire a trovare difese e nemmeno attenuanti.Tento di dirmi: non dipende da me se le mie strade sono fortunatamente a scorrimento tranquillo e non mi interpella nessun moribondo, nessun bambino in pericolo, nessun indigente o infermo o vittima di ingiustizie e nessuna donna minacciata nella sua libertà e dignità; insomma nessuna delle urgenze umane che si impongono ad Artaban.

Ma so benissimo di confessarmi cieco e sordo. Cioè menomato come chiunque artofizzi se stesso negandosi all'altro.Insisto: ma aiuta soltanto chi soccorre bisogni fisico-economici o aiuta anche chi si occupa di difficoltà mentali, culturali?
So che nemmeno in questa direzione troverò personali assoluzioni. Però l'interrogativo è serio. Nella meravigliosa fioritura di volontariati il volontariato delle "teste", quello che tenta di attivare in uomini e donne un pensare in proprio e capacità di resistere a dipendenze dal pensare altrui, è, forse, il meno coltivato.
Talvolta circola addirittuura il sospetto che le "teste" possano pagare il prezzo del soccorso ai " corpi" che aumentino soggezioni e aggregazioni attraverso minestre e medicine. Non tranquillizzano volontariati sempre molto etichettati, di dichiarato schieramento politico o religioso: il grazie degli assistiti lascia gli assistiti senza debiti nei confronti di quelle etichette, di quegli schieramenti?

Non sempre l'aiuto è disinteressato. Non sempre l'aiuto giova alla dignità dell'assistito. Non sempre l'aiuto all'altro è incontro e rispetto dell'altruità: amare il prossimo per amore di Dio, ad esempio, non esalta certamente il prossimo, perché nessuno può essere molto gratificato da attenzioni indirette, da amori per interposta persona.

Betlemme può attendere.

Betlemme come metafora di stazione di arrivo all'adorare. Ma Betlemme è principalmente e fondamentalmente altra cosa. Praticamente quasi l'opposto: il luogo dove Dio spinge il suo antropocentrismo fino a farsi lui stesso uomo. Come dire che Dio rinuncia a ciò si pensa spetti alla divinità e cioè a inchini e ad omaggi e accetta soltanto a ciò che è doveroso nei confronti di ogni essere creato e cioè rispetto e sostegno.
E, per i credenti, questa congiunzione del divino con l'umano dovrebbe fare da sostegno a trattare l'umano come si onora il divino.

Martino Morganti

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Martini Morganti, nato a Pistoia nel 1927, frate minore dal 1943, è laureato in diritto Canonico (Pontificio Ateneo Antoniano) e in Liturgia (Pontificio Ateneo S.Anselmo). Ha insegnato per circa quindici anni nello Studio Teologico Francescano di Fiesole e nel Seminario Maggiore di Firenze ed ha tenuto lezioni e corsi di liturgia in molti istituti e diocesi. Ha pubblicato alcuni volumi in proprio o con altri e collaborato a varie riviste. Dal 1969 al 1979 ha diretto Studi Francescani , diventata rivista di vita religiosa postconciliare. Nel 1969, insieme con alcuni confratelli, ha dato vita, a Livorno, ad una "piccola fraternità" inserita nelle condizioni di esistenza e di lavoro della gente, diventando operaio a tempo pieno. Dal 1971 vive l'esperienza delle CdB (Comunità livornese di p.za del Luogo Pio, ex via Mentana). È mancato l'11 settembre 1999.

 

Fonte

http://www.tempidifraternita.it/archivio/martinoweb/lettereainipoti.htm


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