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RICERCHE ARCHEOLOGICHE A MARETTIMO 
IN CONTRADA "CASE ROMANE"

Nell'autunno del 1994 la Soprintendenza di Trapani in collaborazione con l'Istituto di Archeologia dell'Università degli studi di Palermo, dietro suggerimento di chi scrive, intraprendeva in contrada "Case Romane" la prima campagna di scavi archeologici. 
L'interesse per questa area era nato nel 1989 quando le dott.ssa Elena Pezzini e Fabiola Ardizzone in occasione di una esercitazione scritta per la cattedra di topografia dell'Università "La Sapienza" di Roma avevano studiato l'edificio romano in opus reticulatum (una tecnica costruttiva tipicamente romana di età imperiale) e la chiesetta medievale ivi conservati. 
In seguito, in occasione di un Convegno a Marettimo, l'Associazione Culturale, aveva allestito una piccola mostra permanente con alcuni materiali raccolti durante una campagna di prospezione nel sito, ed un pannello didascalico, riassunto delle nostre ricerche. 
L'esito delle indagini archeologiche ha sostanzialmente confermato i dati cronologici ed interpretativi preliminarmente emersi, relativi all'edificio militare fatto costruire da Sesto Pompeo come faro nel 36 a.C. e alla chiesetta medievale di XI secolo. Il dato straordinario venuto fuori a seguito di questa campagna di scavo è costituito da una insospettata fase di frequentazione di IV-V secolo d.C. legata alla presenza, nella fascia ad est della costruzione romana, di un complesso sistema di convogliamento e raccolta delle acque della sorgente, di difficile lettura a causa del pessimo stato di conservazione. 
Si tratta di un insieme stratificato di strutture che pur non essendo coeve, certamente in un determinato momento storico hanno costituito un complesso architettonico unitario, formato da un recinto rettangolare lastricato, una vasca foderata di cocciopesto e una rete di canalette per l'adduzione e la scarico dell'acqua.

Per il momento i dati in nostra possesso non ci consentono di proporre per queste strutture un'interpretazione esaustiva che, si spera possa venire dopo la prossima campagna di scavo non ancora programmata.  Le strutture emerse nel corso della scavo certamente non sono relative ad un impianto insediativo di abitato, ma probabilmente ad edifici legati alla presenza taumaturgica dell'acqua. Non è da escludere, infatti, che esista un nesso tra l'antico nome dell'isola Hiera (in greco sacra), la sua posizione di scalo quasi obbligato lungo le rotte per l'Africa e le emergenze monumentali poste in prossimità della sorgente più ricca dell'isola, con una accentuata caratterizzazione sacra suggerita ancora oggi dalla presenza della chiesetta medievale. 
Come ci tramandano le fonti arabe del XII secolo, nel medioevo l'isola di Marettimo era data per selvaggia e deserta, ricca di pozzi, di animali selvatici e dotata di un porto, luogo ideale per condurre una vita ascetica a diretto contatto con la natura ed in eremitaggio. 
Testimonianza di questa fase di vita dell'isola è la chiesetta medievale conservata in contrada Case Romane che, infatti, rientra da un punto di vista stilistico nell'ambito dell'architettura basiliana dell'XI secolo. 
Nello stesso periodo l'edificio romano, come è risultato anche dalle indagini archeologiche, venne riutilizzato quale cenobio dai monaci basiliani, gli unici che, di radicata cultura greca erano dediti all'eremitaggio ed alla vita ascetica. 
Il 15 dicembre del 1995, gli esiti delle ricerche archeologiche condotte a Marettimo verranno presentati dalle dott.sse Elena Pezzini, Fabiola Ardizzone e dell'arch. Rosa Di Liberto a Cassino nell'ambito dei lavori della Conferenza Italiana di Archeologia Medievale 1995 "Scavi medievali in Italia, 1994-1995". 
 

Elena Pezzini 
Fabiola Ardizzone 
 

A PROPOSITO DEL CASTELLO...


Sono stati richiesti dal Comune all'Azienda Forestale alcune informazioni sulla concessione dell'antico maniero di Punta Troia:

Con la presente, facendomi anche interprete del desiderio della popolazione di Marettimo, chiedo a codesto Ispettorato di essere aggiornato sugli sviluppi, qualora ve ne fossero, e sugli orientamenti presenti e futuri riguardanti il Castello di Punta la cui ristrutturazione e gestione era stata a suo tempo da Voi sollecitata e richiesta agli organi competenti. 
Il destino di questo antico maniero, simbolo dell'isola stessa, sta molto a cuore all'intera collettività, ed osservare impotenti il suo ormai devastante logorio e decadimento, è decisamente straziante, e per ogni pezzo che inesorabilmente si stacca e crolla è come se assieme ad essa si cancellasse definitivamente anche una parte di storia di questa isola e dei suoi abitanti. 
Abbiamo in passato lottato, manifestato affinché questo baluardo non cadesse in mani sbagliate, perorando la Vs. candidatura che ci appariva nei progetti da Voi esposti, la più consona alle aspettative della popolazione isolana. 
 



Terminato l'entusiasmo e accantonati i buoni propositi ci troviamo però oggi con una struttura fatiscente, pericolosa e drammaticamente destinata a soccombere in tempi brevi sotto l'incalzare inesorabile delle intemperie e del tempo. Attendere e tergiversare ancora vuol dire diventare spettatori della ineluttabile scomparsa dell'antico maniero, mutilando quest'isola di una delle più splendide bellezze naturalistiche e storiche. 
Viene spontaneo a questo punto chiedere se codesto Ispettorato sia al corrente della gravità della situazione sopra enunciata, e se vi sia ancora la volontà di intervento nei riguardi del Castello di P. T. 
Se tutti i quei propositi e gli splendidi progetti elaborati anni addietro fossero nel frattempo, come spesso avviene, naufragati, anche per motivi di forza maggiore sarebbe doveroso da parte Vs. tenerci debitamente informati affinché si possa celermente provvedere alla ricerca di nuove soluzioni e conseguentemente di nuove organizzazioni o Enti disponibili, nel rispetto della volontà popolare, ad un tempestivo intervento sul decrepito ma sempre fiero Castello di Punta Troia. 
 

IL SINDACO

 

CORSARI NELLE EGADI: YUSEF CONCINI

di Antonino Rallo

Fra i tanti anonimi saraceni che per generazioni usarono le isole Egadi - in particolare Marettimo e Levanzo - come basi per le loro scorrerie, spicca il nome di Giuseppe Concini. 
Calabrese di nascita, aveva islamizzato il suo nome in Yusef e per molti anni con la sua galeotta aveva terrorizzato le coste della Sicilia occidentale. La crudeltà con cui trattava gli schiavi cristiani incatenati ai remi era diventata leggendaria, così come fu memorabile la sua fine, avvenuta mentre navigava tra Levanzo e la tonnara di Bonagia, sotto le falde del monte Erice. 
La ricostruzione che ne abbiamo fatto si riferisce ad una vicenda realmente avvenuta appena qualche anno prima della battaglia di Lepanto, vinta nel 1571 dalle navi cristiane contro la flotta ottomana di Mehemet Alì Pascià. 
Tutto cominciò a Levanzo, dove il rinnegato fece di fretta il viottolo che dalla torre bassa e tozza conduceva a Cala Minnola. 
Giunto alla riva, si soffermò per un attimo ad osservare la galeotta dondolare all'ancora: il vento fresco di ponente e libeccio era propizio per un'altra veloce razzia nel Golfo di Castellammare. 
Ormai da un paio di mesi aveva stabilito nell'isola la sua base, seminando il terrore tra le popolazioni costiere sparse fra il Monte San Giuliano e Monte Pellegrino. 
Ad un tiro di schioppo da Levanzo, chiamata dai saraceni Gazirat al ya Bisah, "l'arida", gli spagnoli tenevano ben munita la tonnara di Formica, ma si guardavano bene dall'andare a stanare i saraceni dal loro covo. 
Gli ultimi a farne le spese erano stati tre pescatori di San Vito rapiti mentre tiravano le reti propria sotto la torre di avvistamento di Makari. Adesso stavano lì, ammucchiati sul pagliolato, pallidi e ammutoliti dal terrore. Guardavano affranti i ferri che gli serravano polsi e caviglie, incapaci ancora di sopportare il fetore di umanità dolente e martoriata che aleggiava nella piccola galera del rais Yusef Concini. 
A un cenno del corsaro alcuni aguzzini liberarono dai ferri tre rematori debilitati da anni di stenti. Poi li trascinarono a poppa, dove li legarono mani e piedi a pesanti mazzere e li imbavagliarono per non farne sentire i gemiti al resto dei forzati incatenati ai remi. 
I tre pescatori presero il loro posto, alternati a robusti rematori dalla pelle lentigginosa arsa da un sole che li faceva soffrire ancor più degli altri: erano contadini irlandesi, strappati una notte di giugno dalle loro case da temerari pirati algerini e venduti a caro prezzo a Concini un paio anni prima. Il rinnegato aveva dato ordini agli aguzzini di sferzarli solo se necessario, sperando di farli sopravvivere ancora qualche settimana. Ormai era stato ripagato abbondantemente da quell'investimento in carne umana fatto al mercato di Orano. 
Nel frattempo a poppa l'Hodja, metà scriba e metà divinatore, aveva alzato gli occhi dalle sue carte e sussurrato con deferenza alcune parole al rinnegato: - Sciogli la vela al vento propizio e risparmia le forze degli uomini ai remi. Sta scritto che di loro farai uso prima che il sole passi al meridiano. Concini lo guardò con aria di scherno, lanciando uno sputo accanto alle carte dello scrivano e poi sibilò: - Niente vela, niente fantasia con Yusef Concini. Remeranno sino a sputare l'anima. 
Usanza di guerra. La galeotta alzò la stendardo verde con teschio, clessidra e mezzaluna d'oro, mettendo la prua verso levante. Al traverso della tonnara di Formica il rais diede ordine ai marinai di gettare in mare i tre prigionieri tolti poco prima dai remi.
 

Affogarono in pochi attimi, seguiti dagli sguardi impietriti dei compagni. Nella stessa mattinata, al largo della tonnara di S. Giuliano il rais udì l'eco di tre colpi di cannone alle sue spalle. 
Provenivano da una galera che aveva voluto così rendere onore al santuario della Madonna di Trapani, molto venerata dalle marinerie cristiane. 
Concini si voltò brusco verso poppa, in tempo per vedere lo stendardo con la croce di Malta issarsi velocemente sul legno nemico, le cui due grandi vele stavano sfruttando al meglio il vento in poppa, avvicinandosi a vista d'occhio alla galeotta saracena. Ringhiando un ordine concitato, il rinnegato cercò ancora una volta di usare la straordinaria velocità della sua galeotta per sfuggire agli inseguitori. 
Ai prigionieri venne ordinato di mettere in bocca il tappo che portavano legato al collo. Di lì a poco sferzate ancora più violente sarebbero piovute sulle spalle martoriate dei rematori, divisi tra la voglia di attenuare almeno un poco la crudeltà dei colpi che laceravano le loro carni ed il desiderio di favorire, con il loro minore impegno, l'avvicinarsi della galera cristiana. Silenziosamente fecero la loro scelta: meglio morire di sferzate che continuare ad essere vittime di un rais così spietato. 
Nel frattempo anche i maltesi avevano armato i remi e, seppure in maniera meno marcata, sembravano progredire nel loro avvicinamento alla galeotta berbera. 
Assieme alla croce di Malta adesso si scorgeva garrire l'insegna di Romegas, gran priore di Tolosa e cavaliere della lingua di Provenza. Lo scafo all'inseguimento di Concini non poteva essere che la "Santa Marta", a quei tempi una delle poche galere cristiane veramente temute dai saraceni. 
Per evitare un corpo a corpo che prevedeva disperato, Concini portò all'estremo il tormento degli uomini incatenati ai remi, maneggiando lui stesso la squarcina, una sferza che lasciava poca carne attaccata alle ossa di chi ne subiva i colpi. 
Il sangue dei rematori scorreva ormai copioso sui banchi, accompagnato da urla strazianti, quando l'artiglieria maltese aprì il fuoco confermando la propria fama: l' albero della grossa imbarcazione corsara venne spezzato in due, gettando lo scompiglio a bordo. 
I remi si accavallarono e cozzarono tra di loro, in un crescendo di grida strozzate di rematori storpiati, bestemmie, imprecazioni e invocazioni alla Madonna. 
Fu in quel momento che il rinnegato, aggirandosi furioso tra i banchi, scivolò su una macchia di sangue, finendo tra i piedi delle sue vittime. La reazione degli uomini incatenati al remo fu imprevista quanto raccapricciante. Con ferocia cominciarono a mordere rabbiosamente Concini, passandoselo da una banda all'altra della galeotta, senza che marinai e giannizzeri potessero far nulla per salvare il rais: oramai i maltesi erano già a bordo e attaccavano con la sicurezza di chi ha in mano una facile vittoria. 
Quando, di lì a poco, ammassati a poppa i saraceni superstiti, Romegas andò a ispezionare i correligionari incatenati ai banchi, del corpo di Yusef Concini non rimaneva che un ammasso informe e sanguinolento. La galeotta venne rimorchiata alla tonnara di Bonagia, salutata dalle salve di cannone sparate dalle torri di Martogna e San Giuliano. 
E mentre i cristiani appena liberati venivano ripuliti alla meglio per essere avviati in processione verso il santuario della Madonna, i bonagioti demolivano a colpi d'ascia la scafo saraceno. 
Almeno per quella volta erano scampati a un penoso destino di schiavitù in terra d'Africa.