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L'APOLLINARISMO
Se
lasciamo l'Occidente per tornare in Oriente, vi troveremo ancora delle
controversie di ordine speculativo. Si discute meno sulla grazia e sulla
libertà umana che sulla natura di Cristo, e sulla unione, in lui, della
natura umana e della natura divina. Ed è sempre in stretto legame con le
eresie ariane e semi-ariane che si producono nuove deviazioni dottrinali. Si
è visto ad esempio che, per Ario, l'anima di Cristo non era altro che il
Verbo, la prima creatura tratta dal nulla da Dio. Troveremo qualcosa di
simile con il vescovo Apollinare di Laodicea.
Questi era un uomo di virtù e di scienza. Si era mostrato avversario risoluto
dell'arianesimo, sostenendo la divinità del Verbo o Logos. Ma non seppe
difendersi dall'errore dello stesso Ario in ciò che riguarda l'anima di
Cristo. Per lui, come per Ario, è il Verbo che tiene il posto di quest'anima. E interpreta in tal senso, al pari di Ario,
le parole del Vangelo: " E il Verbo si fece carne " (Giov.1, 14). Credeva con ciò di salvaguardare meglio l'unità
di persona in Cristo e soprattutto la sua perfetta santità, poiché - diceva -
"dal momento che esiste l'uomo completo esiste anche il peccato ". L'apollinarismo fu tuttavia rigettato in parecchi concili e
particolarmente nel grande concilio di Costantinopoli del 381. NESTORIO E IL
NESTORIANESIMO
Per
meglio combattere l'apollinarismo, il più insigne
dottore della scuola di Antiochia, Diodoro, vescovo
di Tarso dal 378, aveva manifestato una certa tendenza ad opporre il Figlio
di Dio, consostanziale al Padre, al Figlio di
David, nato dalla Vergine. Il Figlio di David, secondo lui, era stato solo il
tempio del Figlio di Dio. Maria non meritava quindi per alcun motivo
l'attributo di Madre di Dio. Diodoro, illustre vescovo e teologo, intendeva
bensì salvaguardare l'unità morale di Cristo, ma non si accorgeva di
salvaguardarla solo a parole: in realtà sembrava ammettere due persone nello
stesso Cristo: una persona divina e una persona umana. Dopo Diodoro. che era
morto nel 394, il suo migliore discepolo, Teodoro, vescovo di Mopsuestia dal 392, si dedica a penetrare quella che noi
chiameremmo oggi la psicologia umana del Cristo. Egli lo vede svilupparsi,
come ogni altro uomo: o lottare, al pari degli altri, contro le tentazioni,
ma finire col meritare la sua unione con il Verbo. Teodoro
aveva tuttavia avuto cura di rivestire il suo pensiero di forme così
tradizionali da non sollevare alcuna protesta. Però nell'anno stesso della
sua morte, avvenuta nel 428, uno dei suoi discepoli, il prete Anastasio,
condotto da Antiochia a Costantinopoli dal nuovo
vescovo di questa città, Nestorio, si ispirò alle
sue idee nella propria predicazione. Dovendo parlare in pubblico della
Vergine Maria, contestò al popolo cristiano il diritto di chiamarla Madre di
Dio - Theotocos - come si usava fare ormai da lungo
tempo. Questa opinione del prete Anastasio produsse sbigottimento nella
città. Davanti allo stupore dei fedeli, Nestorio,
che condivideva la convinzione di Anastasio dietro le orme di Diodoro di
Tarso e di Teodoro Mopsuesteno, prese decisamente
posizione in suo favore. Un laico di nome Eusebio, che diverrà più tardi
vescovo di Dorilea, protestò ad alta voce contro il
linguaggio del vescovo. Tutta
la città e la Corte si trovarono interdette. La Corte imperiale si schierò
con il vescovo, ma i monaci e il popolo erano per la tradizione mariana.
Presto il rumore di queste controversie giunse ad Alessandria, sede
episcopale in rivalità secolare con la scuola di Antiochia
e con la sede di Costantinopoli. Il vescovo di Alessandria era appunto un
teologo di primissimo piano, Cirillo. Egli intervenne senza indugi, dapprima
con cortesia, rivolgendosi direttamente a Nestorio;
poi quando vide che le sue osservazioni non erano accettate, si rivolse a
Roma. Nestorio aveva già fatto altrettanto. Da
una parte e dall'altra, si comprendeva benissimo che il nodo della questione
risiedeva nell'uso dell'attributo Madre di Dio applicato a Maria. Se glielo
si rifiutava, si veniva a rompere l'unità di persona in Gesù Cristo. Invece
di una persona se ne ammettevano due: la persona umana di Cristo di cui Maria
era madre - Christotokos - e la persona divina del
Verbo, aggiunta a quella di Cristo, in una unione puramente morale. Se invece
si ammetteva in Cristo una sola persona, quella del Verbo, come aveva sempre
fatto la tradizione cristiana, ne seguiva che la relazione di maternità, in
quanto riguardava la persona, attraverso la natura generata, doveva avere
come termine il Verbo. Maria doveva essere detta, in quanto fonte della
natura umana di Cristo, Madre di Dio. Maternità e filiazione si dicono
infatti da persona a persona. A
Roma, così si intendevano le cose. Il papa Celestino diede ragione a Cirillo
contro Nestorio. Il suo primo diacono, Leone, il
futuro papa. scrisse subito a Giovanni Cassiano,
che conosceva da lungo tempo, per chiedergli di scrivere un trattato
sull'argomento. Cassiano obbedì a questo desiderio,
e noi possediamo il suo trattato in cui egli dimostra attraverso la Scrittura
e la Tradizione, che Maria non deve essere chiamata solo Madre di Cristo, a
meno che non si specifichi subito che ciò significa Madre di Dio. Se Nestorio rifiutava di ammettere questa conclusione, era
impossibile non trattarlo come eretico. E la cosa era così grave che si
doveva radunare al più presto un concilio generale. Cirillo, nel frattempo,
aveva riassunto il suo pensiero in dodici anatemi. Nestorio
vi aveva risposto con dodici contro-anatemi. E accusava Cirillo di ricadere
nell'apollinarismo, facendo del Verbo il sostituto
della personalità umana di Cristo. IL CONCILIO DI EFESO
(431)
I
due imperatori Teodosio II (Orienle) e Valentiniano III (Occidente) avevano convocato i vescovi
a Efeso per il 7 giugno. In tale data, si trovò presente Cirillo con un certo
numero di vescovi, ma non erano giunti né i legati del papa né i vescovi antiocheni. Cirillo, il personaggio più illustre di
quelli che erano riuniti, pazientò per quindici giorni, non senza trattare
abilmente con la Corte. Quindi il 22 giugno, senza attendere oltre, aprì il
concilio, che in un giorno risolse la controversia, condannò Nestorio e lo depose. I vescovi (in numero di 198) e il
popolo acclamarono queste decisioni. Quattro
giorni dopo, giunse Giovanni d'Antiochia con i suoi
vescovi, tutti favorevoli a Nestorio che era, come
si è detto, della scuola antiochena. Essi opposero
quindi subito un controconcilio a quello del 22
giugno, condannarono e scomunicarono Cirillo, e annullarono quanto era stato
fatto in loro assenza. Fu il secondo atto del dramma. Ma seguì immediatamente
il terzo. Giunsero infatti presto i legati del papa. Portavano una condanna
formale di Nestorio pronunciata dal papa Celestino
I in un sinodo romano. Avevano ricevuto dal papa l'incarico di chiedere a
Cirillo e all'intero concilio una semplice promulgazione del giudizio
inappellabile già pronunciato dal pontefice romano. Essi approvarono quindi,
l'11 luglio del 431, tutte le decisioni prese da Cirillo e dal concilio il 22
giugno precedente. Nestorio tuttavia contava sempre
sull'appoggio della corte imperiale. Fra questa e Cirillo si impegnò una
lotta diplomatica, nella quale il vescovo di Alessandria deve essere ricorso
a procedimenti che erano anche troppo in uso in quel tempo, colmando di doni
i consiglieri più influenti dell'imperatore. In fondo, aveva buoni motivi per
farlo. Teodosio II si lasciò convincere. Fece rinchiudere Ncstorio
in un monastero e lasciò rientrare Cirillo come vincitore ad Alessandria,
mentre Giovanni di Antiochia tornava, molto
scontento, in Siria. Cirillo da parte sua dovette provare di non ammettere in
alcun modo l'apollinarismo perché fosse finalmente
ristabilita la pace fra lui e i vescovi antiocheni
(433). Nestorio, mandato più tardi in esilio, vi
compose un'opera intitolala: Il libro di Eraclide
di Damasco. Questo
scritto, rinvenuto nel 1910, è una accorta apologia. Ma l'eresia di Nestorio, per quanto velata, vi rimane abbastanza
visibile. Anche dopo che gli scritti di Nestorio
erano stati condannati alle fiamme, la sua eresia sopravvisse nelle opere di
Diodoro di Tarso e di Teodoro Mopsuesteno. Conservò
quindi degli adepti, e ne conserva ancora ai nostri giorni. Si formò una
scuola teologica a Edessa, e quindi a Nisibi in Persia. Il nestorianesimo
si propagò di qui nell'Arabia, nelle Indie, e perfino nella Cina e nella
Mongolia. Tuttavia, la maggior parte dei nestoriani
tornarono, a partire dal secolo XVI, all'unità cattolica. Alcuni caddero
sotto l'influsso di missionari protestanti, americani e anglicani; altri
passarono alla " ortodossia russa " a partire dal 1897. Durante la
prima guerra mondiale, molti furono massacrati dai Turchi. Altri
fuggirono sui monti del Kurdistan, o in Mesopotamia.
Vi sono attualmente dei nestoriani nell'Iraq, nella
Siria, nella Persia e nell'India. Si calcolano a 30.000 quelli dell'Iraq, ad
alcune migliaia quelli della Siria, a 9.000 quelli della Persia e infine a
2.000 quelli che restano nell'India sotto il nome di mellusiani.
In totale, certamente meno di 100.000 nestoriani
autentici. L'EUTICHIANESIMO
Come
il nestorianesimo era stato una reazione contro l'apollinarismo, così l'eutichianesimo
fu una reazione contro il nestorianesimo, ma così
eccessiva da cadere nell'errore opposto. Si
è visto come Cirillo Alessandrino si fosse dovuto difendere dal sospetto di apollinarismo. Per meglio esprimere l'utilità di persona
in Cristo, egli aveva usato poco opportunamente l'espressione " unità
fisica " dell'umanità e della divinità nella sola persona del Verbo. Ai
nostri giorni diciamo unione ipostatica, che significa unione delle due
nature distinte in una sola persona; ma prima che fossero raggiunte queste
precisazioni, vi fu un monaco di Costantinopoli, di nome Eutiche,
archimandrita di un grande monastero della città, che, convinto di essere
fedele al pensiero di Cirillo, si fece notare per il suo zelo nel parlar
dell'unione fisica dell'umano e del divino in Gesù Cristo. Cirillo era morto
nel 444. Il suo pensiero personale era certamente ortodosso. Ma Eutiche lo traduceva male. Egli sembra aver ammesso che
in Gesù Cristo l'umanità è assorbita dalla divinità e fusa in essa, come una
goccia d'acqua nell'oceano. Lo stesso Eusebio di Dorilea,
che aveva denunciato Nestorio, denunciò Eutiche al suo vescovo, Flaviano di Costantinopoli, che
lo fece condannare in un sinodo fin dal 448. Eutiche,
come era allora usanza comune, fece subito ricorso a Roma. Governava allora
la Chiesa, dal 440, san Leone Magno. Nello
stesso tempo, Eutiche chiese aiuto al vescovo di
Alessandria, Dioscoro, che riuscì a convincere
subito, come pure l'appoggio dell'imperatore, che era sempre Teodosio II.
Dietro le sue istanze, quest'ultimo radunò un
concilio, ancora nella città di Efeso. IL CONCILIO DI CALCEDONIA
(451)
Il
concilio che si radunò a Efeso nel 449 fu contrassegnato da spiacevoli
violenze. Era presieduto da Dioscoro di
Alessandria. Al legato del papa fu negato i1 primo posto, che pure gli
spettava. I 135 vescovi presenti furono costretti, sotto la minaccia delle
anni di bande di monaci, guadagnate alla causa di Eutiche,
a sottoscrivere per così dire in bianco la condanna della dottrina ortodossa
stigmatizzata con il nome di diofisismo (due nature
in Gesù Cristo). Flaviano di Costantinopoli fu maltrattato, e l'imperatore, tratto
in errore, confermò la sentenza che lo deponeva e lo mandava in esilio, dove
morì. Per fortuna, i legali del papa erano riusciti a fuggire. Il papa san
Leone, informato da essi di quanto era accaduto, non perdette tempo per
stroncare i progressi del male. Radunò un sinodo a Roma, secondo l'uso
pontificio del tempo. Questo sinodo romano, tenuto nel 449, annullò tutta la
procedura di Efeso e il papa chiamò quel vergognoso concilio un latrocinium e il nome gli è rimasto: il latrocinio di
Efeso. La
morte dell'imperatore Teodosio li precipitò la soluzione di questo doloroso
conflitto. Egli ebbe come successore, il 28 luglio del 450, la sorella
Pulcheria. D'accordo con Marciano, suo sposo, essa convocò un concilio
generale che si aprì a Calcedonia - l'attuale Kadi-Keui, dirimpetto a Costantinopoli, nel territorio
asiatico. - Questa
volta, tutto si svolse correttamente. La presidenza fu data ai legati del
papa. Dioscoro di Alessandria era presente, ma
aveva con sé solo una ventina di vescovi egiziani, sperduti nella moltitudine
di 500 o 600 vescovi accorsi al concilio. Egli fu giudicato e condannato alla
deposizione, per la condotta tenuta al concilio di Efeso. La vera dottrina
era stata magistralmente esposta, due anni prima, dal papa san Leone, in una
lettera rimasta famosa, indirizzata al patriarca Flaviano. Essa
verteva sui seguenti punti, che costituiscono un vero compendio della fede
cattolica: 1. In Gesù Cristo vi è un'unica persona, la persona del Verbo
incarnato nella nostra natura; 2. nell'unica persona del Verbo si trovano
dopo l'incarnazione due nature, la natura divina e la natura umana, senza
fusione o confusione possibile; 3. ciascuna di queste due nature conserva la
propria operazione che esplica in comunione con 1'altra 4. in virtù della
unione sostanziale delle due nature, si deve attribuire unicamente al Verbo
tutto ciò che, in Cristo, spetta al Figlio di Dio e al Figlio
dell'Uomo, In questo senso si può appunto dire che " Dio è morto per noi
". L'attribuzione
alla sola persona del Verbo di tutto l'umano e di tutto il divino in Gesù
Cristo ha ricevuto il nome di comunicazione degli idiomi, cioè scambio delle
proprietà di ciascuna natura. Quando
al concilio fu riletta con entusiasmo la lettera di san Leone, i Padri
esclamarono: " Pietro ha parlato per bocca di Leone ". E nella
seguente professione di fede il dogma cristologico
venne espresso in questi precisi termini: " Noi insegniamo tutti
unanimemente un unico e stesso Figlio, Nostro Signore, perfetto nella sua
divinità e perfetto nella sua umanità, veramente Dio e veramente uomo,
composto di un'anima ragionevole e di un corpo, consostanziale
al Padre secondo la divinità e consostanziale a noi
secondo l'umanità, simile a noi in tutto fuorché nel peccato ". Questa
confessione fu sottoscritta da 355 vescovi. Dopo
che il concilio ebbe terminato la sua opera dogmatica, i Padri, a dispetto
dell'opposizione dei legati, dichiararono con il famoso canone 28 che il
patriarca di Costantinopoli avrebbe avuto nella Chiesa il secondo posto dopo
il papa di Roma; ma, ratificando gli atti del concilio, il papa dichiarò
espressamente, nel 453, di non approvare e di non confermare che le decisioni
riguardanti la fede, e non già le altre. Purtroppo,
i vescovi egiziani non si erano sottomessi. Essi
consideravano l'eutichianesimo come la dottrina
personale del loro grande dottore san Cirillo, il che era falso. Il monofìsismo (una sola natura in Gesù Cristo) continuò ad
essere professato in Egitto e il clero di questo paese passò ben presto allo
scisma dichiarato. Senza riferire qui in particolare gli innumerevoli
incidenti che segnarono le controversie tra monofìsiti
e cattolici ortodossi, basti notare che i primi riuscirono a costituirsi in
Chiesa separata. Le divisioni che nacquero tra essi nel VI secolo, come
accade sempre quando si sia perduta l'unita romana, non impedirono loro di
organizzarsi e di resistere. La Chiesa monofisita esiste ancora in Armenia,
in Siria, Mesopotamia e in Egitto. I gruppi sono
indipendenti gli uni dagli altri. Il più importante è quello che si trova in
Egitto, dove costituisce la cosiddetta Chiesa copta. I TRE CAPITOLI
Non si deve credere che la Chiesa perdesse il senso profondo
della unità che aveva ricevuto dal suo fondatore. Al contrario, furono fatti
tutti i tentativi per riconciliare le varie frazioni cristiane che la
polemica monofisita aveva messe l'una contro l'altra. Tutto quello che
dobbiamo dire ora rientra nell'ambito di questa più grave preoccupazione. Non
dimentichiamo, del resto, che alla preoccupazione religiosa si univa una
preoccupazione politica. La rottura dell'unità cattolica era resa più
pericolosa, come era accaduto per il donatismo,
dalle passioni nazionalistiche locali, che tendevano a dividere l'impero. Era
stato un usurpatore egiziano, Basilisco, che aveva consolidato l'eutichianesimo o monofisismo ad Alessandria, verso il
475. Dopo la sua sconfitta l'imperatore Zenone, mal consigliato dal patriarca
Acacio di Costantinopoli, pubblicò una formula di
conciliazione chiamata enotica o di Unificazione
(484). Ma il papa Felice II ritenne insufficiente e inammissibile questa
formula. Acacio tenne duro e si separò dalla
comunione romana. Fu lo scisma acaciano che durò
per 35 anni (484-519). Questo scisma era fortunatamente terminato quando salì
al trono il celebre imperatore Giustiniano (527-565). Questi fece come buona
parte dei suoi predecessori. Considerò le questioni teologiche di attinenza
del suo governo. Si lasciò guidare il più delle volte dalla sua colta e
raffinata moglie, Teodora, che era stata danzatrice ma si piccava di alta
scienza religiosa. Al fine di placare i monofisiti egiziani, Giustiniano
radunò nel 553 un concilio a Costantinopoli, che è considerato come il V
concilio ecumenico. Vi si condannarono, come inquinati di nestorianesimo,
tre gruppi di scritti, noti da allora sotto il nome di Tre Capitoli: 1. gli
scritti di Teodoro Mopsuesteno, morto nel 428; 2.
quelli di Teodoreto di Ciro, contro san Cirillo di
Alessandria nel V secolo; 3. una lettera di Iba,
vescovo di Edessa, capo dei nestoriani,
indirizzata al persiano Mari. Questi
tre gruppi di scritti erano esecrati dai monofisiti. Condannandoli
solennemente, si dava loro piena soddisfazione. Ma essi esigevano di più.
Sarebbe stato necessario, secondo loro, annullare le decisioni del concilio
di Calcedonia, e professare insieme con essi il
monofisismo. Era impossibile ammettere ciò. Perciò il papa Vigilio si rese
chiaramente conto che le decisioni del concilio non avrebbero prodotto alcun
frutto di bene. Ma siccome queste decisioni erano giustificate, finì per
approvarle, non senza esitazione. LA QUESTIONE ORIGENISTA
Nel concilio del 553 furono condannale anche le dottrine origeniste. Origene era stato, agli inizi del III secolo,
il capo della scuola catechetica di Alessandria. Era
dotato di un genio incomparabile e aveva scritto moltissimo. Era inevitabile
che, in quella moltitudine di opere uscite dalla sua mano e che numerosi
copisti scrivevano sotto sua dettatura, si trovassero dottrine più o meno
arrischiate. Vi sono infatti, nelle opere che conosciamo di lui, pagine
magnifiche, idee splendide, e anche teorie piuttosto azzardate, che
l'ortodossia non ha potuto accettare. Sono le teorie che formano l'origenismo: 1. la creazione eterna e il numero infinito
dei mondi successivi; 2. la preesistenza (platonica) delle anime e la loro
caduta nei corpi, a modo di castigo per le colpe passate; 3. La corporeità
degli angeli (eterea); 4. la negazione dell'eternità dell'inferno, detta
anche restaurazione universale, mediante una riabilitazione generale dei
dannati, compresa, a quanto sembra, quella di Satana; 5. la negazione della
resurrezione della carne come è espressa nel Simbolo degli apostoli; 6. la
subordinazione del Verbo al Padre; 7. quella dello Spirito Santo rispetto al
Verbo. Si attribuiva
a Origene la dottrina secondo la quale il Verbo agisce unicamente negli
esseri ragionevoli, e lo Spirito unicamente nei santi. Infine si rimproverava
a Origene, e gli si rimprovera anche ai nostri giorni, il suo allegorismo generalizzato ed eccessivo in materia
biblica. Le
teorie origeniste furono oggetto di accese
discussioni in seno alla Chiesa dopo la morte del grande scrittore. I monaci antropomorfiti egiziani, turbati da questo allegorismo, erano i più accaniti. Furono approvati da
uno scrittore di valore, sant'Epifanio. vescovo di Salamina nell'isola di Cipro, che denunciò con vigore
quella che egli non esitava a chiamare l'eresia origenista. Aspre
controversie - alle quali furono mischiati san Girolamo, ritiratosi in
Palestina, e il suo amico Rufino, grande ammiratore di Origene e traduttore
della sua opera principale, il De principiis -
nacquero e turbarono tutto l'Oriente. Girolamo si mise in contrasto, in
questa occasione, con Rufino, e impegnò contro di lui una disputa spesso
accompagnata da spiacevoli invettive. Si può dire che tutti i grandi dottori
d'Oriente - Cirillo, Basilio e Crisostomo - dovettero prendere posizione prò o contro Origene. Agli inizi del VI secolo, si era
formata una scuola origenista in Palestina. Si
trattava di monaci amanti del grande dottore alessandrino. Dietro pressione
di Efrem, vescovo di Antiochia, e di Pietro,
vescovo di Gerusalemme, Giustiniano li fece condannare in un sinodo tenuto
nel 543. Origene e l'origenismo furono colpiti con
10 anatemi particolareggiati che il papa Vigilio confermò. Nel 553, prima del
concilio ecumenico, fu ripresa tale condanna, questa volta in 15 anatemi.
Sembra che il papa Vigilio, allora presente a Costantinopoli, li abbia ancora
una volta approvati. Infine, lo stesso concilio generale, senza tornare sugli
anatemi pronunciati, pose Origene nel numero degli eretici. Si ammette ai
nostri giorni che Origene non avesse detto tutto ciò che gli si attribuiva e
che il suo allegorismo non è necessariamente
dovunque erroneo. Affermazioni sicuramente sue sono la preesistenza delle
anime, la loro caduta nei corpi, la restaurazione universale e la teoria che
certi astri siano esseri animati. Meno
certo è il fatto che egli abbia sostenuto le seguenti idee: Cristo si è fatto
successivamente simile a ogni ordine di creature celesti; il corpo di Cristo
fu formato prima che si unisse colla sua anima; Cristo, in in un altro mondo sarà crocifisso per i demoni; Dio ha
creato tutto ciò che era in suo potere di creare, ecc. E'
assolutamente dubbio che egli abbia sostenuto che tutta la creazione
materiale e tutti i corpi finiranno per essere annientati; che tutti gli
spiriti saranno finalmente uniti a Dio come l'anima di Cristo; e che allora
avrà fine il Regno di Cristo. Origene è rimasto per noi un soggetto di grande
curiosità, mista di ammirazione e anche di venerazione, poiché i suoi errori,
siccome la dottrina non era ancora fissata, possono essere considerati solo
come eresie materiali e non formali. Sembra certo che egli fosse troppo
"uomo della Chiesa" per non sottomettersi alle sue decisioni
qualora ve ne fossero state, ai suoi tempi, sugli argomenti da lui trattati. IL MONOTELISMO
Le concessioni fatte ai monofisiti, e in particolare la condanna
dei Tre Capitoli, non avevano tatto che incoraggiarli. Non si erano
sottomessi. Agli inizi del VII secolo il patriarca di Costantinopoli, Sergio,
mente duttile e astuta, progettò nn nuovo sistema
di conciliazione. Si
era in lotta contro i Persiani. L'unità dell'impero si imponeva con maggior
forza che mai. Sergio propose quindi di insegnare che l'unione delle due
nature in Gesù Cristo era così intima che non vi era mai stata in lui se non
una sola volontà e una sola azione. E' ciò che venne chiamato il monotelismo o teoria della unica volontà. Nel frattempo, nel
631, un certo Ciro di Faside divenne patriarca di
Alessandria. E' noto che questa città era la capitale del monofisismo. Ciro
si associò alla dottrina di Sergio. I monofisiti poterono cantare vittoria:
" E' stato il concilio di Calcedonia a venire
a noi ", dicevano,
"e non noi ad esso! ". Si elevarono tuttavia delle proteste. Il più
insigne avversario della nuova teoria fu san Sofronio, vescovo di Gerusalemme
dal 634. Sergio, per avere il sopravvento, cercò di conquistarsi il papa
Onorio, chiedendogli di dichiarare inopportuna questa distinzione di una o
due energie, di una o due volontà in Cristo. Onorio, pro bono
pacis, entrò nelle sue vedute e, per quanto
approvasse in fondo la dottrina di Sofronio che era ortodossa, si pronunciò
per Sergio. L'imperatore
Eraclio, prese la palla al balzo e pubblicò un formulario dottrinale chiamato
Ectesi (638). In Gesù Cristo, diceva questo
documento, non vi è che una volontà, e non si deve distinguere in lui fra una
o due energie. Era l'eresia, poiché la natura umana in Cristo, priva di
volontà e di energia propria, non era più la natura umana come la possediamo
noi. Essendo
morto il papa Onorio, i suoi successori - Severino e quindi Giovanni IV -
rigettarono l'Ectesi. Morendo
nel 641, Eraclio dichiarò di sottomettersi al papa e fece ricadere su Sergio
la responsabilità del suo formulario del 638. Ma il suo successore Costante
II (642-668) 1o riprese. Roma e l'Occidente lo combatterono. Costante II,
scosso, sostituì l'Ectesi con un nuovo decreto, il
Tipo (648), che si limitava ad imporre il silenzio sulla controversa
questione. Fin dal 649, il papa Martino I riuniva un concilio in Laterano e vi faceva condannare da 105 vescovi tanto l'Ectesi che il Tipo. Irritato, l'imperatore fece arrestare
il papa, che fu maltrattato, mandato in esilio, e morì nel Chersoneso nel 655. Noi lo onoriamo come martire il 12
novembre. Dopo
la morte di Costante II, il suo successore Costantino IV Pogonato
(il Barbuto), si accordò con il papa per convocare un concilio generale a
Costantinopoli - il VI ecumenico - (2 novembre 680 - 16 settembre 681). Vi fu
condannato solennemente il monotelismo, e lo stesso
papa Onorio fu colpito da anatema per aver accettato gli " empi dogmi di
Sergio ". Ma, confermando il concilio, il papa Leone II, successore di
Agatone, precisò il senso di questa condanna, spesso invocata contro
l'infallibilità dei papi: " Egli non ha saputo purificare questa Chiesa
apostolica professando la tradizione apostolica, e ha invece permesso che la
fede immacolata fosse macchiata di un deplorevole tradimento ". Gli si
rimproverava quindi una mancanza di vigilanza, una debolezza, piuttosto che
una adesione all'errore. Ai nostri giorni si ritiene che il pensiero di
Onorio, qualunque cosa ne abbiano detto i gallicani,
sia rimasto sempre ortodosso e che egli non sia mai stato eretico nel
significato preciso del termine. LA QUESTIONE DELLE
IMMAGINI
Dall'arianesimo in poi, si è visto che tutti gli errori o la
maggior parte di essi, si collegavano gli uni agli altri. Anche l'origenismo, anteriore all'arianesimo, ne era stato un
preludio con la teoria della subordinazione del Figlio al Padre. Con la
gravissima Questione delle immagini usciamo da questo cerchio. Dal
717 regnava a Costantinopoli un rozzo generale, diventato imperatore con il nome
di Leone Isaurico. Non comprendeva naturalmente
nulla delle cose di teologia, ma era consuetudine dell'impero legiferare in
queste materie come in tutte le altre. Imitando forse il califfo arabo Isid II, che aveva proscritto le immagini nelle moschee,
e forse dietro i consigli del vescovo frigio Costantino di Nacolia, egli prese nel 725 una serie di misure contro il
culto delle immagini. Charles Dichl
e Louis Brehier hanno
dimostrato come il suo scopo fosse soprattutto quello di lottare contro
l'eccessivo influsso dei monaci. Gli editti si succedettero aggravandosi
senza tregua. Dapprima si erano condannate le immagini dei santi, degli
angeli e dei martiri. Si giunse quindi a proscrivere anche le immagini di
Cristo e della Vergine. Si
può immaginare il turbamento dei fedeli, soprattutto in Oriente, dove le
basiliche erano splendidamente ornate di mosaici policromi in onore di
Cristo, della Vergine e dei santi. Mani empie si diedero a distruggere tutto
quel patrimonio artistico del passato. Il patriarca di Costantinopoli, san
Germano, protestò energicamente, ma fu deposto e sostituito con un prelato
ligio alla Corte, Anastasio. I papi Gregorio II e Gregorio III condannarono a
loro volta l'iconoclastia o distruzione delle immagini, nel 727 e nel 731. Un
teologo di primo piano, san Giovanni Damasceno,
entrò in campo per difendere la legittimità del culto reso alle immagini. Ma
l'imperatore, che era molto autoritario, non cedette. Vi
furono deplorevoli sottomissioni nel clero, ma anche eroiche resistenze tra i
monaci e i fedeli. Si segnalano in particolare come martiri della
persecuzione alcune donne che avevano rovesciato la scala di un operaio
iconoclasta. Il figlio e successore di Leone Isaurico,
Costantino Copronimo (il sudicio), che regnò dal
741 al 775, proseguì la detestabile politica del padre. Soltanto sotto
l'imperatore Leone IV (775-780), e soprattutto sotto la sua vedova Irene, fu
ristabilita la pace e riportato in onore il culto delle immagini. Irene, in
pieno accordo con il papa Adriano I (772-795) e il patriarca di
Costantinopoli san Tarasio, radunò, nonostante
l'opposizione del partito militare, il concilio di Nicea (VII ecumenico), nel
787. Questo concilio definì chiaramente in quale senso sia legittimo onorare
le immagini. Si tratta di un culto relativo, che si rivolge cioè alla Persona
rappresentata e non all'immagine stessa. Il papa Adriano fece tutti i
tentativi per far ammettere questa dottrina in Occidente, ma Carlomagno, tratto in errore da una cattiva traduzione
degli atti del concilio, pensò che si trattasse di onorare le immagini di un
culto assoluto. In un trattato noto sotto il nome di Libri Carolingi si criticava aspramente il cullo delle immagini
cosi male interpretato, e il concilio di Francoforte condannò tale culto nel
794. A poco a poco tuttavia il malinteso fu chiarito, e non vi sarà crisi
iconoclastica in Occidente se non sotto l'influsso di alcune sette
protestanti, come il calvinismo che ancor oggi bandisce le immagini dai suoi
templi. Una
seconda crisi iconoclasta si verificò in Oriente nel IX secolo, sotto gli
imperatori Leone l'Armeno (813-820), Michele il Balbuziente (820-829) e
Teofilo (829-842). Il primo e il terzo si mostrarono particolarmente
accaniti. Il grande difensore delle immagini fu allora san Teodoro Studita (+ 826). E fu ancora una volta una donna,
l'imperatrice Teodora, vedova di Teofilo e madre di Michele III, che ebbe la
gioia di ristabilire la pace restaurando il culto delle immagini. Appena
salita al potere, nel 842, si intese con il patriarca di Costantinopoli san
Metodio, che radunò un concilio per confermarvi definitivamente i decreti di
Nicea riguardo alle immagini. |