«Si
dovria educare la gioventù
dando loro libri
i cui autori iniziano per "S",
come... S.Agostino, S.Gregorio,
S.Benedetto e tanti altri»
[S.
Filippo Neri]

Per la catechesi il nostro oratorio dispone di diverse aule, ognuna delle quali è dedicata a un santo o ad una santa. Essi sono uomini e donne in cui lo Spirito di Dio ha mostrato tutta la sua irresistibile fantasia, sono compagni di viaggio nel cammino educativo che l'oratorio propone, sono esempi della creatività e vivacità che tutti insieme cerchiamo di realizzare nel nostro quotidiano. Eccoli:
San Filippo Neri
Santa Teresa di Lisieux
San Francesco d'Assisi
San Luigi Gonzaga
Beata Gianna Beretta Molla
Beato Piergiorgio Frassati
Accanto ai santi "veri e propri" ci sono poi delle figure spirituali, le cui vite e i cui scritti sono di stimolo soprattutto per l'itinerario di fede di adolescenti e giovani, ...ma non solo. (per approfondimenti abbiamo riportato alcune indicazioni bibliografiche).
SAN
FILIPPO NERI
[saloncino sedie
rosse]
Filippo nasce nel 1515 a Firenze, ma già da ragazzo
deve lasciare la famiglia non tanto per imparare un mestiere,
quanto perché in casa le bocche da sfamare sono troppe. Si
trasferisce così a Roma, probabilmente perché il suo carattere
indipendente gli suggerisce che, nella grande città, sarebbe
riuscito a trovare di che vivere, potendo allo stesso tempo
impostare la vita a proprio piacimento. La sua indole gioviale e
aperta gli permette di attirarsi le simpatie di tutti: si dedica
a un apostolato di strada, accompagnando un gioviale saluto con
una buona esortazione a chi gli capitava di incontrare, andando
ad assistere e servire gli ammalati negli ospedali, dedicando
molto tempo alla preghiera. La frequenza di gruppi in cui ormai
si vive il clima fervente della riforma cattolica, di comunità
religiose tutte volte ad una scrupolosa osservanza, e il suo
amore verso il prossimo portano lentamente Filippo a maturare la
decisione di farsi prete a 35 anni. Il suo ministero è
caratterizzato dalla disponibilità ad ogni ora per ricevere le
confessioni e per fare direzione spirituale per la formazione
delle coscienze.
Aiutati dal suo carattere estroverso e sempre pronto alla battuta,
attorno al santo si radunano in modo informale alcuni giovani,
che con il tempo costituiscono un gruppo, chiamato "Oratorio".
Filippo, tuttavia, non vuole regole: tutto deve essere improntato
alla spontaneità e alla semplicità, perché ognuno si senta a
suo agio, circondato di affetto e di amicizia, nello sforzo di
essere più "buono" (diventerà celebre la frase:
"State buoni, se potete"). Tra le iniziative dell'oratorio
che hanno più successo c'è il pellegrinaggio ai sette sepolcri,
che si svolge tutte le settimane per le basiliche dell'Urbe. A
Roma Filippo Neri conosce diverse personalità importanti per la
Chiesa: Ignazio di Loyola, Francesco Saverio, ma soprattutto
Carlo Borromeo, che lo invita a trasferire l'Oratorio a Milano e
che, dopo il suo rifiuto, istituisce i "nostri" primi
oratori. Dopo una lunga malattia e molte amarezze Filippo Neri
muore nel 1595.
«Ciò che attirava innanzitutto verso Filippo era il senso ineluttabile della presenza in lui dello Spirito. Una scena in confessionale ce lo dipinge a meraviglia. Una donna gli ha visto celebrare la Messa. Poco tempo dopo, eccola confessarglisi. Vuole confidare un giudizio che considera temerario: "Padre..." ma si vergogna a continuare. Filippo allora le dice: "Sciocca, hai mormorato sul mio conto, non è vero? Che cosa hai detto?" E lei: "Padre, vi avevo visto alzarvi da terra mentre dicevate messa, e mi sono detta: ahimé, questo padre deve essere posseduto..." Filippo si mette allora a ridere e le dice: "E' vero, è vero" e, preso da un accesso di risa, ripete felice nell'ombra del confessionale: "Sono posseduto, sono posseduto!". Nessuno più di Filippo è parso abbandonarsi tanto spontaneamente ai sentimenti più caldi e più veri. Lacrime e riso si colorano in lui della verità profonda che vale agli occhi degli uomini semplici, tanto da apparire inestimabile.» [L.Bouyer, La musica di Dio, Jaca Book 1979]
SANTA
TERESA DI LISIEUX
[segreteria]
Teresa Martin nacque ad Alençon, Francia, il 2 gennaio 1873 e
morì a Lisieux il 30 settembre 1897. Fu l'ultima di nove figli,
cinque dei quali si consacrarono alla vita religiosa. A 4 anni e
mezzo perse la madre e la sorella Paolina ne assunse il ruolo,
cosa che rese la seconda perdita ancora peggiore quando qualche
anno più tardi Paolina entrò nel Carmelo: Teresa si ammalò
gravemente e veniva data per spacciata, tanto che la sua
improvvisa guarigione fu considerata miracolosa. Molto sensibile
di carattere, Teresa scoppiava in lacrime ogni volta che aveva l'impressione
di essere criticata o non apprezzata: dopodiché il rimorso per
aver pianto era tanto intenso da condurla ancora a piangere. Ogni
sforzo di contenere le sue emozioni era vano. Soltanto un
faticoso cammino la portò a considerare i sentimenti degli altri
prima dei propri. A soli 15 anni sollecitò il permesso di farsi
religiosa: per dissuaderla il padre la portò in pellegrinaggio a
Roma, fino dal papa! Alla fine tutte le resistenze caddero e
Teresa entrò nel Carmelo di Lisieux alla eccezionale età di 15
anni. Le sue romantiche idee della vita nel convento si
scontrarono con la realtà quando il padre fu ricoverato a causa
di una malattia mentale e fu abbandonato da tutti i suoi amici,
mentre a lei non fu permesso neppure di visitarlo. Di sé stessa
scriveva: "Sento in me la
vocazione del sacerdote. Ho la vocazione dell'apostolo. Il
martirio è il sogno della mia giovinezza. Considerando il corpo
mistico della Chiesa, desideravo vedermi in qualunque cosa. La
carità mi diede la chiave della mia vocazione: ho capito che la
Chiesa ha un cuore che brucia d'amore. Ho capito che l'amore
abbraccia tutte le vocazioni, l'amore è tutto, in una parola: è
eterno. La mia vocazione, alla fine, l'ho trovata. La mia
vocazione è l'amore". Ancora novizia, le fu affidata la
formazione delle altre novizie, ma nel 1896 si ammalò gravemente
e morì l'anno successivo a soli 24 anni. Pur non essendo mai
uscita dal suo monastero, fu proclamata patrona delle missioni
per il suo grande amore per l'apostolato e per le preghiere e le
lettere a sostegno della attività dei missionari. La sua "piccola
via" alla santità ha profondamente segnato la spiritualità
del nostro secolo, tanto che al termine della Giornata Mondiale
della Gioventù tenutasi a Parigi nel 1997, il papa ha annunciato
la proclamazione a dottore della Chiesa della "piccola
Teresa", a cento anni dalla sua morte: è il più giovane
dottore della storia della Chiesa.
«Ho sempre desiderato essere una santa,
ma - ahimé - ho sempre accertato, quando mi sono paragonata ai
santi, che tra essi e me c'è la stessa differenza che tra una
montagna la cui vetta si perde nei cieli e il granello di sabbia
oscura calpestato sotto i piedi dei passanti. Invece di
scoraggiarmi, mi sono detta: il buon Dio non può ispirare
desideri inattuabili, perciò posso, nonostante la mia piccolezza,
aspirare alla santità. Diventare più grande mi è impossibile,
devo sopportarmi tale quale sono con tutte le mie imperfezioni,
nondimeno voglio cercare il mezzo di andare in cielo per una via
ben dritta, molto breve, una piccola via tutta nuova.
Siamo in un secolo di invenzioni, non vale più la pena di salire
gli scalini, nelle case dei ricchi un ascensore li sostituisce
vantaggiosamente. Vorrei anch'io trovare un ascensore per salire
la dura scala della perfezione. Allora ho cercato nei libri dei
santi l'indicazione dell'ascensore, oggetto del mio desiderio, e
ho letto queste parole: "Se qualcuno è piccolissimo, venga
a me. Come una madre carezza il suo bimbo, io vi consolerò, vi
poserò sul mio cuore e vi terrò sulle mie ginocchia". Mai
parole più tenere, più armoniose hanno allietato l'anima mia: l'ascensore
dìche deve innalzarmi fino al cielo sono le vostre braccia, Gesù!
Per questo non ho bisogno di crescere, al contrario bisogna che
resti piccola, che lo divenga sempre più». [S.Teresa di Lisieux, Manoscritto
autobiografico C]
SAN
FRANCESCO D'ASSISI
[aula primo piano]
Francesco nasce ad Assisi nel 1182 da Pietro di
Bernardone e Madonna Pica, una delle famiglie più agiate della
città. Il padre commerciava in spezie e stoffe. La fanciullezza
trascorse serenamente in famiglia e Francesco potè studiare il
latino, il volgare, il provenzale e la musica; le sue note
insieme alle sue poesie, furono sempre apprezzate nelle feste
della città. Un giorno era intento nel fondaco paterno a
riassettare la merce quando alla porta si presentò un mendicante
che chiedeva elemosina in nome di Dio. Dapprima Francesco lo
scacciò in malo modo, ma poi pentitosi lo seguì e raggiuntolo
si intrattenne con lui, scusandosi ed elargendogli dei denari.
All'età di vent'anni partecipò alla guerra tra Assisi e Perugia,
e fu fatto prigioniero. Tornò a casa gravemente malato e solo le
amorevoli cure della madre ed il tempo lo ristabilirono, ma la
vita spensierata, che nel frattempo aveva riassunto, gli sembrò
vuota. Ad Assisi davanti ad un lebbroso non fuggì come facevano
tutti, ma gli si avvicinò e lo baciò. Gli amici lo schernivano
e deridevano, il padre manifestava apertamente la sua delusione,
solo la madre lo confortava. Francesco scelse il silenzio e la
meditazione tra le campagne e le colline di Assisi, facendo
spesso tappa nella Chiesetta di San Damiano dove il crocifisso
gli parlò: "Va, ripara la mia casa che cade in rovina".
Francesco vendette allora le stoffe della bottega paterna e portò
i denari al sacerdote di San Damiano, ma l'ira del padre
costrinse Francesco a nascondersi. La diatriba fu risolta solo
con l'intervento del Vescovo di Assisi, davanti al quale
Francesco rinunciò a tutti i beni paterni. Cominciò un periodo
di spostamenti: di quel periodo è l'episodio del lupo di Gubbio,
un animale che incuteva terrore e morte, ammansito dalle parole
del santo. Nel 1219 Francesco partì per la Terrasanta al seguito
della crociata e giunse in Egitto alla corte del saladino. L'anno
seguente tornò ad Assisi dove i suoi ideali di povertà, di
carità, di semplicità avevano fatto presa su molti. A Greccio
istituì il primo Presepio; nel 1224 sul Monte della Verna
ricevette le stimmate. Stanco, malato e quasi cieco, compose il
Cantico delle Creature, opera di alta religiosità e lirismo. Morì
al tramonto della giornata del 3 ottobre 1226.
«Altissimo glorioso Dio,
illumina le tenebre de lo core mio.
Et dame fede dricta, speranza certa e carità perfecta,
senno e cognoscemento, Signore,
che faccia lo tuo santo e verace comandamento.»
[S.Francesco, Davanti al
Crocifisso]
SAN
LUIGI GONZAGA
[saloncino sotto
il bar]
Luigi Gonzaga, figlio del marchese Ferrante e di
Donna Marta Tana di Sentena, nacque in una delle stanze del
Castello di Castiglione delle Stiviere il 9 marzo 1568. In quella
casa Luigi abitò da ragazzino, nei brevi periodi che si
alternavano ai lunghi viaggi che il padre Ferrante lo costringeva
a intraprendere per le corti italiane ed europee. Il marchese
desiderava infatti educare così il suo erede alla vita di corte
ed addestrarlo alle arti diplomatiche, nelle quali i Gonzaga
eccellevano per tradizione. Mentre era alla corte di Spagna,
ospite di Filippo II, nella mente del ragazzo prese forma l'idea
di rinunciare al marchesato e di abbracciare la vita religiosa.
Al ritorno, la comunicazione di questo intento scatenò un dramma
di famiglia. Ferrante, conscio dell'intelligenza e della
rettitudine del figlio, non voleva rinunciare a un successore che
avrebbe dato sicuramente lustro al casato. Convinto che potesse
trattarsi di un capriccio adolescenziale, si adoperò in ogni
modo per dissuadere il figlio, ora con rimproveri, ora con
ricatti, ora tentando di distrarlo con viaggi e piacevolezze
della vita mondana. Non servì a nulla. La collera del marchese
si quietò soltanto dopo che ebbe visto il figlio, che si era
ritirato in preghiera nella dimora estiva del Convento di Santa
Maria, in preda a una mortificazione tale che non lasciava dubbi
sulla fermezza e l'autenticità della sua vocazione. A 18 anni,
firmato l'atto di rinuncia al marchesato in favore del fratello
Rodolfo, Luigi potè partire finalmente per Roma, per entrare,
com'era suo desiderio, nella Compagnia di Gesù. Alcune delicate
vicende familiari lo avrebbero portato saltuariamente a casa ( in
aiuto della madre ormai vedova per risolvere questioni
diplomatiche o per porre rimedio ad alcune imprudenze del
fratello Rodolfo). La sua giovane vita si concluse a Roma. Nella
città imperversava una terribile epidemia di peste, effetto di
uno spropositato afflusso di persone afflitte dalla carestia.
Nonostante l'invito da parte dei Padri Gesuiti ad astenersi,
volle prestare soccorso ad un malato caricandoselo sulle spalle.
Contagiato dalla malattia, Luigi morì tre mesi dopo. Era il 21
giugno 1591, aveva solo 21 anni. Nel giugno 1991, in occasione
della celebrazione del IV centenario della morte di S. Luigi, il
papa Giovanni Paolo II lo ha ricordato ai giovani lombardi con
queste parole: "Una figura che provoca l'universo giovanile
del nostro tempo, diviso tra l'intima tensione a dare un
significato pieno alla vita e le mode superficiali".
BEATA
GIANNA BERETTA MOLLA
[aula primo piano]
Gianna Beretta nasce a Magenta (Mi) nel 1922 da
genitori retti, sapienti e timorati di Dio. Cresciuta in una
famiglia numerosa, tante volte si interroga su quale sia per lei
la volontà di Dio. Sarà un ritiro a darle la giusta direzione,
che la porterà a scoprire il campo della sua santificazione:
mamma di famiglia e medico. Animatrice di Azione Cattolica, nel
1949 consegue la laurea in Medicina e Chirurgia. Da allora vede
nel contatto coi malati la sua missione, dove poter incontrare
Gesù nel volto dei sofferenti. Sogna di andare in Brasile come
missionaria laica presso l'ospedale del fratello sacerdote, ma
Dio pone sul suo cammino, dopo insistente preghiera, Pietro Molla.
Un fidanzamento incantevole per una ragazza amante della musica,
esperta sciatrice, raffinata nei gusti, sprizzante di vita,
radiosa, ricca di speranza per il futuro: il matrimonio su cui
Dio riversa il Suo amore. Il matrimonio con Pietro Molla avviene
nel 1955. Nascono i primi tre bambini. Nel 1961 si scopre di
nuovo incinta, ma a fianco dell'utero cresce un grosso fibroma
asportabile solo con un intervento chirurgico. Nel suo cuore di
medico si scatena la lotta: la sua vita o la vita del bimbo con
la morte sicura della madre? La scelta è per la vita del figlio:
"Quello che ha fatto non l'ha fatto per andare in paradiso",
sono le parole del marito, "l'ha fatto perché si sentiva
una mamma". Difende, ama così la creatura che portava in
grembo con gli stessi diritti degli altri figli, anche se è
stata concepita da appena due mesi. Per la piccola creatura che
sta nascendo in lei, dà la vita, anche se è persuasa di essere
utilissima alla sua famiglia. Il Venerdì Santo del 1962, Gianna
entra nell'ospedale di Monza per affrontare un intervento
chirurgico che non può più essere ritardato e che rivelerà
tutto il suo coraggio e la sua fede in Dio. Al marito prima del
parto dice, con tono fermo e al tempo stesso sereno, con uno
sguardo profondo: "Se dovete decidere fra me e il bimbo,
nessuna esitazione: scegliete, e lo esigo, il bimbo: salvate lui!".
Dopo il taglio cesareo, ecco una bella bimba. Sarà chiamata, per
volontà del padre, Gianna Emanuela: Gianna in ricordo della
madre ed Emanuela per ricordare la presenza di Dio tra di noi,
anche nei momenti difficili della vita. Dopo qualche ora dal
parto iniziano per la madre sofferenze inaudite, una lunga agonia,
durante la quale per salvarla viene tentato di tutto. Gesù
invocato e ricevuto tante volte, le dà la forza per l'ultimo
dono di vita... Gianna si spegne mormorando: "Gesù, ti amo".
E' il 28 aprile 1962.
BEATO
PIERGIORGIO FRASSATI
[aula primo piano]
Piergiorgio Frassati nasce nel 1901 a Torino. Suo
padre è il fondatore del quotidiano "La stampa", poi
senatore e ambasciatore d'Italia a Berlino. La sua famiglia,
laica e liberale, permette la sua formazione cattolica, sperando
che il giovane non prenda troppo sul serio la fede. Ma
Piergiorgio si innamora davvero di Cristo e gli dona tutta la
vita: fin da giovane va tutti i giorni a Messa e, crescendo,
trascorre lunghe ore, di giorno e di notte, davanti al
tabernacolo. La sua preghiera prediletta è però il Rosario nei
vari santuari del Piemonte. Studia con tenacia, perché vuole
imparare a servire il prossimo con competenza e amore: vuole
diventare ingegnere minerario per stare con i minatori, i
lavoratori più in pericolo. Ama la montagna, dove porta spesso a
divertirsi i suoi amici; ma non dimentica i più poveri, i
bambini soli, gli sfruttati, i barboni e soprattutto i malati del
Cottolengo. A Berlino, mentre all'ambasciata si balla, va nelle
case di coloro che non hanno più nulla a portare denaro, cibo,
medicinali, vestiti. Ma questo non gli basta: entra in politica
insieme a don Sturzo e nel Terzo Ordine Domenicano, impegnandosi
affinché Cristo non sia solo nelle chiese e nei cuori, ma nella
scuola, nel lavoro, nella società, in tutte le cose. A 24 anni
Piergiorgio sembra il giovane che ha tutto dalla vita, ma molto
gli è tolto: il suo amore per una ragazza che i suoi genitori
non accettano, il suo ideale di società libera e solidale
distrutto dai fascisti, il suo progetto di lavoro nelle miniere
perché il padre lo vuole con se a "La stampa". Nel
1925, colpito da poliomelite fulminante, va incontro al suo Dio
dopo una lunga agonia.
«Tu mi domandi se sono allegro. E come potrei non esserlo? Finché la fede mi darà la forza, sempre allegro! Ogni cattolico non può che essere allegro; la tristezza deve essere bandita dagli animi cattolici: il dolore non è la tristezza, che è una malattia peggiore di ogni altra. Questa malattia è quasi sempre prodotta dall'ateismo; ma lo scopo per cui siamo stati creati ci addita la via, seppur seminata di molte spine, ma non una triste via: essa è allegra anche attraverso i dolori... La nostra vita per essere cristiana è una continua rinunzia, un continuo sacrificio, che però non è pesante quando si pensi cosa sono questi pochi anni passati nel dolore in confronto all'eredità felice, dove la gioia non avrà misura e fine, dove noi godremo di una pace inimmaginabile.» [P.G.Frassati, Diario]
PAOLO
VI
[salone schermo
gigante]
Giovanni Battista Montini nacque a Concesio (Bs) il
26 settembre 1897 e venne battezzato il 30 settembre dello stesso
anno. La sua era una famiglia benestante: il padre, avvocato, era
un giornalista impegnato nella promozione dell'azione sociale.
Giovanni era un ragazzo intelligente ma fragile: persino dopo l'ingresso
in seminario, dovette trascorrere a casa diversi periodi di tempo
a causa della salute cagionevole. Dopo la sua ordinazione nel
1920, venne destinato a Roma per continuare gli studi all'università
e quasi subito si trasferì all'accademia di diplomazia del
Vaticano. Nel 1923 fu inviato alla nunziatura di Varsavia, ma gli
effetti sulla sua salute del rigido inverno polacco lo
costrinsero a fare ritorno a Roma, dove fu assegnato alla
segreteria di stato (il ministero degli esteri della Santa Sede)
e nel frattempo fu nominato cappellano della Federazione
Universitari Cattolici Italiani (FUCI), a stretto contatto con i
fondatori della Democrazia Cristiana. Diventato uno dei
responsabili della segreteria di stato, fu incaricato, durante la
guerra, della cura dei rifugiati politici. Rinunciò al
cardinalato che gli era stato offerto e quando qualcuno gli fece
notare che aveva così perso il tram che lo avrebbe portato in
alto, rispose: "Può darsi, ma spero di aver preso la
carriola che mi condurrà in paradiso". Nel 1954 divenne
arcivescovo di Milano e subito si fece notare per gli sforzi
profusi nel tentativo di rivitalizzare la diocesi attraverso l'annuncio
del Vangelo, a partire dalle classi dei lavoratori: erano gli
anni del "boom" economico. Creato cardinale nel 1958 da
papa Giovanni XXIII, alla sua morte venne chiamato a succedergli
con il nome di Paolo VI. Il suo primo impegno fu la continuazione
e la conclusione del Vaticano II, il concilio che portò una
nuova primavera nella Chiesa. Il suo rapporto con la stampa fu
incredibilmente sofferto, forse anche a causa del paragone con il
suo predecessore estroverso e gioviale: chi lo conosceva bene,
però, lo descriveva come un uomo brillante, gentile e riservato,
di profonda spiritualità e infinita cortesia. Fu il primo papa a
visitare i cinque continenti, e la storia lo ricorderà per il
discorso all'ONU del 1965 e per la coraggiosa enciclica sociale
"Popolorum progressio" (1967). Gli ultimi anni del suo
pontificato furono oscurati dalle controversie scatenatesi in
seguito alla sua ultima enciclica, "Humanae vitae" (1968),
sulla regolamentazione delle nascite. Paolo VI morì il 6 agosto
1978, festa della Trasfigurazione; secondo il suo desiderio, il
suo corpo fu deposto "sulla nuda terra".
«Noi non rifiuteremo
mai di essere fratelli,
amici, confortatori, educatori, servitori.
Saremo ricchi della povertà e poveri in mezzo alle ricchezze.
Saremo capaci di comprendere gli affanni e di trasformarli,
non nella collera e nella violenza,
ma nell'energia forte e pacifica di opere costruttive.
Avremo caro che il nostro servizio sia silenzioso e
disinteressato,
sincero nella costanza, nell'amore e nel sacrificio,
fiduciosi che la tua venuta lo renderà, un giorno, efficace.
Avremo sempre davanti a noi lo Spirito della tua Chiesa,
una santa cattolica, pellegrinante verso l'eterna meta
e porteremo scolpita nella memoria e nel cuore
la nostra divisa apostolica: siamo gli ambasciatori di Cristo.»
[Paolo VI]
Madeleine Delbrêl
nasce il 24 ottobre 1904 a Mussidan e cresce qua e là per la
Francia, seguendo il padre che lavora nelle ferrovie. Nel 1916 la
sua famiglia si stabilisce definitivamente a Parigi: lì
Madeleine segue gli studi in modo molto anticonformista, poiché
i genitori ne vogliono fare un'artista. La giovane mostra un'intelligenza
precoce, priva di ogni inclinazione sentimentale o romantica,
elegante nel suo realismo poetico, incisiva nel mettere a nudo l'assurdità
della vita. Così proclama il suo lucido ateismo da adolescente:
"Dio è morto, viva la morte". Frequenta alla Sorbona i
corsi di filosofia e a 19 anni si innamora di un giovane credente,
Jean Maydieu, con cui forma una bella coppia, ma che
improvvisamente la lascia per diventare domenicano. Nel frattempo
il padre di Madeleine perde progressivamente la vista. La
sofferenza provocata da queste vicende conduce la giovane a una
profonda crisi, ma Madeleine non va in cerca di consolazione. Al
contrario, continua a ragionare, e fare i conti con questi fatti
scandalosi. Lo schietto rigore, che sempre accompagna la sua
diffidenza nei confronti dell'idealismo, la porta a non poter più
negare con piena evidenza l'esistenza di Dio. Che fare allora?
Decide di pregare: "Fin dalla prima volta decisi di pregare
in ginocchio per paura dell'idealismo. Dopo, leggendo e
riflettendo, ho trovato Dio; ma pregando ho creduto che Dio mi
trovasse e che egli è la verità vivente, e che si può amarlo
come si ama una persona". E' il 1924, l'anno della sua
conversione. Vorrebbe entrare nel Carmelo, ma non può
abbandonare il padre malato. Continua così la sua vita normale,
coltivando le sue passioni di un tempo: la poesia (una sua
raccolta le frutta un premio letterario) e la danza. Frequenta la
sua parrocchia, dove è accompagnata spiritualmente da un prete
eccezionale, l'abbè Lorenzo. Prega molto: durante un ritiro,
insieme ad altre compagne, confida all'abbè Lorenzo il desiderio
di costituire un piccolo gruppo, nel quale ciascuna si sarebbe
guadagnata da vivere mescolandosi alla vita quotidiana delle
persone. Nel 1933 una piccola comunità si installa a Ivry, nella
periferia proletaria di Parigi, dove viene in contatto con la
miseria e l'ingiustizia che attanagliano il quartiere operaio e
deve aprirsi alle differenze e imparare il linguaggio dell'altro:
il comunismo. Madeleine non cerca di convertire ne lancia
anatemi: piuttosto collabora con i comunisti e cerca di
guadagnare la loro confidenza con l'impegno come assistente
sociale. L'ambiente ateo diventa per lei l'occasione di una
continua conversione e di un radicamento sempre più profondo nel
Vangelo. Nel 1957 pubblica le sue riflessioni in un libro che
lascia il segno nella cristianità francese che si sta
interrogando sulla esperienza dei preti-operai: "Città
marxista, terra di missione". Madeleine vive in pieno il
travaglio della Chiesa nel mondo contemporaneo, il difficile
parto di un nuovo stile di vita cristiana nel cuore della
modernità: in questo contesto appare come una magistrale
interprete dell'esigenza di essere nella storia un prolungamento
di Cristo, e insieme di inventare da capo la forma di questa
presenza. Qui sta, per Madeleine, l'"insolito"
cristiano. Tra sofferenza e solitudine, Madeleine vede crescere
le divisioni attorno a lei, la sfiducia per il lavoro che sta
compiendo, ma inaspettatamente trova anche chi la sostiene e la
incoraggia a proseguire (tra questi il card. Montini): viene
invitata anche a presentare la sua esperienza in Polonia e in
Africa. Gioisce quando, con Giovanni XXIII e il Concilio,
finalmente riesce a scorgere una nuova primavera per la Chiesa,
per cui non ha risparmiato salute ed energie, che alla fine la
abbandonano: il 13 ottobre 1964 termina così la sua avventura
terrena.
«Poiché le parole non
sono fatte per rimanere inerti nei nostri libri,
ma per prenderci e correre il mondo in noi,
lascia, o Signore, che di quella lezione di felicità,
di quel fuoco di gioia che accendesti un giorno sul monte,
alcune scintille ci tocchino, ci mordano, c'investano, ci
invadano.
Fa' che da essi penetrati come "faville nelle stoppie"
noi corriamo le strade di città accompagnando l'onda delle folle
contagiosi di beatitudine, contagiosi di gioia.
Perché ne abbiamo veramente abbastanza
di tutti i banditori di cattive notizie, di tristi notizie:
essi fan talmente rumore che la tua parola non risuona più.
Fa' esplodere nel loro frastuono il nostro silenzio che palpita
del tuo messaggio.»
[M.Delbrel, La gioia di
credere, Gribaudi 1994]
Don Luigi Serenthà nacque a
Monza il 9 agosto 1938 da una famiglia di medie condizioni
economiche per l'epoca: il padre svolgeva in proprio l'attività
di meccanico. Da lui, cooperatore dell'oratorio, e dalla madre,
presidente delle donne di Azione Cattolica, Luigi con i fratelli
apprese a frequentare la chiesa e l'oratorio; fu un chierichetto
serio e di buon carattere. Non meraviglia quindi che in lui
sbocciasse l'aspirazione al sacerdozio. Nel 1949 entrò in
seminario e venne ordinato prete nel 1962 dal card. Montini. Il
suo primo incarico fu il perfezionamento dello studio della
teologia a Roma; in seguito accompagnò i preti novelli nella
attività pastorale, invitandoli a lasciarsi coinvolgere da ogni
grande questione umana e a non sottrarsi al confronto con le
questioni difficili. Insegnava nel frattempo filosofia e teologia
nel seminario e nella Facoltà Teologica di Milano. Amico e
stretto collaboratore del card. Martini, dal 1981 gli vennero
assegnati compiti sempre più delicati nella cura delle vocazioni
sacerdotali, finché nel 1983 fu nominato rettore maggiore del
seminario. Don Luigi, esuberante e dinamico di natura, mostrò
sempre una straordinaria apertura del cuore, nel dialogo sempre
perseguito con chiunque lo incontrasse. Ogni sera, terminati i
suoi impegni ufficiali, amava svolgere attività culturali,
catechetiche, ricreative, rivolte alle famiglie e in particolare
ai giovani. Un particolare legame lo univa all'opera de "La
nostra famiglia", ai ragazzi handicappati e alla spiritualità
del suo fondatore, don Luigi Monza. Nel novembre del 1985 fu
invitato dai giovani di Azione Cattolica a tenere un convegno dal
titolo "Danzare la vita" nel quale emerse tutta la sua
profonda umanità e la sua vivacità. All'inizio del 1986 gli
venne diagnosticato un tumore: morì a Milano il 28 settembre
1986.
«Dove danzare? Quando danzare? Si può
danzare in ogni luogo? Si può danzare in ogni tempo? Oppure la
danza della croce di Cristo, sintesi etica di tutta la vita dell'uomo,
non può essere danzata là dove c'è inerzia, dove c'è
incomprensione, dove c'è mancanza di libertà, dove c'è morte?
La contemplazione della croce di Cristo ci dice che la danza può
dovunque essere fatta, perché la contemplazione della croce di
Cristo ci mette davanti a una forza d'amore e quindi di vita e di
gioia che non si spaventa davanti ai più clamorosi ostacoli, ma
addirittura trasforma l'ostacolo in un motivo di musica più
intensa, di danza più grande, più vivace, addirittura di danza
contagiosa. La croce di Cristo rappresenta una forma di amore che
non ha trovato nell'odio, nel peccato, nella morte dell'uomo un
motivo per dire: "Ecco non ci sto più al gioco, non danzo
più", ma paradossalmente ha trovato in tutto ciò un motivo
per amarlo con maggiore intensità. La suprema danza Cristo l'ha
vissuta inchiodato alla croce, quando le sue mani non potevano
muoversi più, quando i suoi piedi erano paralizzati. Egli ha
danzato col proprio perdono.» [Luigi Serenthà, Danzare la vita, In dialogo 1987]
Charlie Brown, con la
schiera dei piccoli personaggi del mondo dei "Peanuts",
è troppo famoso per aver bisogno di presentazione. Veramente troppo
famoso. Perché ormai è diventato, per l'immediata presa sul
pubblico, un materiale buono da sfruttare per ogni scopo: primo
fra tutti quello economico. Ma il vero Charlie Brown non ha
bisogno della popolarità, ma di un'amicizia vera, lui che,
nonostante i suoi difetti, crede nei valori. Scriveva Schulz, il
disegnatore dei Peanuts: "...se tu non dici nulla in un
fumetto, avresti fatto bene a non disegnarlo affatto. L'umorismo
che non dice niente è un umorismo senza valore. Così io
sostengo che un autore di fumetti deve avere la possibilità di
compiere la propria predicazione". E il messaggio che Schulz
lascia intravedere, in maniera lieve e allusiva ma inequivocabile
per chi ha "occhi per vedere", è il messaggio di gioia
del Vangelo. Suonerà forse strano a molti che conoscono i suoi
fumetti: eppure egli ha più volte espresso apertamente non solo
la sua fede, ma anche la convinzione che il cristiano deve
manifestare ciò in cui crede con tutta la propria vita e la
propria opera: nel caso di Schulz i fumetti, appunto... Il mondo
dei Peanuts affonda così in una visione di fede: una fede che da
un lato sottolinea con forza la miseria dell'uomo e la sfiducia
nella società, dall'altro annuncia con altrettanta gioia la
certezza che l'uomo non è solo, lasciando scorgere l'amore e la
misericordia infinita di quel Qualcuno che solo può sollevare l'uomo
dalla sua condizione. "Ma sta' allegro, Charlie Brown! Poiché,
dopo tutto quello che si dice o si fa, c'è qualcuno che vuole
bene - e questo qualcuno è soltanto un rappresentante umile,
molto umile, a misura di nocciolina (peanut), di Qualcuno molto
più grande di lui".

Non affannatevi per la vostra vita, di
quello che mangerete o berrete, e neanche per il vostro corpo, di
quello che indosserete; la vita non vale più del cibo e il corpo
più del vestito? Guardate gli uccelli del cielo: non seminano, né
mietono, né ammassano nei granai, eppure il Padre vostro celeste
li nutre. Non contate voi forse più di loro? Non affannatevi
dunque dicendo: che cosa mangeremo? Che cosa berremo? Che cosa
indosseremo? Di tutte queste cose si preoccupano i pagani; il
Padre vostro celeste infatti sa che ne avete bisogno. Cercate
prima il Regno di Dio e la sua giustizia e tutte queste cose vi
saranno date in aggiunta.
[Mt. 6, 25-26. 31-33]

Noi sappiamo che tutto concorre al bene
di coloro che amano Dio, che sono stati chiamati secondo il suo
disegno.
Che diremo dunque in proposito? Se Dio è per noi, chi sarà
contro di noi? Egli che non ha risparmiato il proprio Figlio,
come non ci donerà ogni cosa insieme con lui?
Io sono persuaso che né morte né vita, né angeli né
principati, né presente né avvenire, né potenze, né altezza né
profondità, né alcun altra creatura potrà mai separarci dall'amore
di Dio, in Cristo Gesù, nostro Signore.
[Rm 8, 28. 31-32. 38]
Qui puoi trovare alcuni testi che speriamo ti possano servire: