
Matto è chi spera che nostra ragione
possa trascorrer la infinita via
che tiene una sustanza in tre persone.
State contenti umana gente, al quia;
che se possuto aveste veder tutto,
mestier non era parturir Maria.
Tempo fa un lettore mi ha regalato una Divina Commedia tascabile che spesso porto con me. Così alle soglie della solennità della Trinità, mentre dovevo decidere il tema del "Mattutino" odierno, mi è quasi venuta incontro questa duplice terzina del Purgatorio (III, 34-39) che sicuramente in molti lettori echeggerà come ricordo di studi più o meno lontani. L'unica sostanza divina nelle tre persone, che è la definizione della Trinità, è vista da Dante come "la infinita via" che la ragione non può ovviamente percorrere in tutta la sua integralità.
Ecco allora l'appallo all'umiltà del sostare al quia , al "che", cioè al mistero annunziato, contemplato, meditato. Un mistero, però che non è bloccato in una fissità immobile e terribile. Infatti dante ricorda il parrto di Maria, cioè l'ingresso nella nostra storia del Figlio di Dio, giunto a noi proprio per introdurci a quella "infinita via" che egli pienamente ha percorso. E' ciò che proclama Giovanni nell'ultima riga dell'inno che funge da prologo al suo Vangelo: "Dio nessuno l'ha mai visto: proprio il Figlio unigenito, che è nel seno del Padre, lui lo ha rivelato!" (1,18).