
Si fanno sempre più disperanti le notizie della gigantesca mattanza
in corso in Africa, dal Guinea alla Ruanda,dalla Sierra Leone al
Sudan. Persone letteralmente fatte a pezzi, migliaia e migliaia di bambini
lasciati liberamente morire di fame, donne oltraggiate e massacrate. L'Africa
assomiglia sempre più a un girone dantesco, dove gli uomini completano
con raccapricciante impegno l'opera di distruzione che carestie cicliche
ed epidemie vecchie e "nuove" (tra il 3O e il 4O% dell'intera popolazione
africana è sieropositiva) vanno compiendo.
Accanto alle migliaia di esseri umani vittime di una follia bestiale,
tra i tanti sogni che muoiono all'alba di questo nuovo millennio, ce n'è
uno che è sopravvissuto stentatamente per poco più di qualche
decennio, quello del riscatto e dell'emancipazione politica e civile delle
genti africane attraverso il processo di decolonizzazione dall'inizio degli
anni Sessanta,da quando in progressione estremamente rapida l' "uomo bianco"si
è liberato del suo ignobile "fardello", della sua pretesa "missione
civilizzatrice", e ha reso l'indipendenza all'Africa,i massacri si sono
succeduti a ritmo incessante in un crescendo di orrore vertiginoso.
Alle antiche e anche asperrime rivalità tribali, agli atavici
odii tra etnie e clan, si sono sovrapposti nuovi conflitti, alimentari
o addirittura creati dagli ex dominatori in "ritirata". Improbabili classi
dirigenti locali, tragiche e allucinate figure di generali e marescialli
di sedicenti "eserciti" si sono ritrovare per raccogliere il potere, in
nome di un "nazionalismo" che altro non era se non la via maestra attraverso
la quale le ex presenze coloniali si rendevano finalmente le mani libere
di predare ancora meglio un continente ricco di risorse economiche ma poverissimo
di risorse politiche e lasciato completamente e colpevolmente solo nella
difficilissima opera di ricostruzione dello Stato.
Una situazione talmente disperata, quella africana, che la fine della
Guerra Fredda, ha -se possibile- ancora totalmente peggiorato, tanto da
far sempre più apertamente ipotizzare da parte di diversi esperti
di politica internazionale di alcune regioni del continente - sostanzialmente
una riedizione edulcorata e meno formalizzata della politica dei "mandati"
- come unica via di uscita dal caos. Ed è una politica che, di fatto,
viene attivata ogni qual volta, dalla Somalia al Ruanda, all'insostenibilità
di una situazione si associa la possibilità di trovare qualcuno
che sia disposto a farsene carico.
In realtà, è il concetto stesso di sovranità dello
Stato a essere sfidato e messo in dubbio nella sua validità assoluta
dalle reiterate crisi africane. Dal punto di vista giuridico, innanzitutto,
ma anche da un punto di vista squisitamente politico, l'azione dalla comunità
internazionale è ostacolata, quando non completamente bloccata,
da quel principio di non intervento (ovvero di non ingerenza della politica
interna di un singolo stato), che è la pietra angolare su cui si
fonda l'intera costruzione della società internazionale.
Oggi esso appare lo scudo dell'ignavia e dell'egoismo delle potenze
(europee, in particolare); ma va ricordato che - storicamente - il principio
del non intervento venne invocato e progressivamente applicato proprio
per consentire alle forze nazionali degli stati in via di formazione (si
pensi all'Italia tra il 1820 e il 1860) di realizzare il proprio destino,
liberi da condizionamento diretto (e normalmente realizzato con la forza
militare) di qualche potenza egemone. Il principio di non intervento era
- e resta, concettuale - la manifestazione di quell'idea di sovranità
dui ogni singolo stato e consente di rimettere alla libera volontà
di un popolo sovrano le decisioni riguardanti la propria organizzazione
politica.
Proprio qui sta il punto, allora. Che, nella maggior parte dei casi,
in Africa, non ci troviamo - se non nel senso di un puro artificio formale
- di fronte a stati veri e propri. Ci troviamo bensì davanti a bande
armate che controllano un territorio per fini propri, che nulla hanno a
che fare con quelli tipici dello stato e, men che meno, con la realizzazione
della sovrana volontà popolare. Ma da qui deriva anche la difficoltà
di esercitare una qualsiasi pressione su quei "governi" attraverso i classici
strumenti diplomatici, giuridici, economici, restando, purtroppo, il linguaggio
delle armi l'unico che i diversi capobanda mostrano di poter capire.