Il San Clemente



articolo di
Paola 
Colombo.



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Santuario

 

Se è vero che il fascino del passato si nutre del mistero e dell’indefinito che avvolge ciò che fu e scarse tracce conserva, vero è anche che più prepotente si fa allorquando ci è offerta la possibilità di vedere, di toccare, di riandare sull’orme antiche. Salire al S. Clemente sul monte di Sangiano, propone questa esperienza con una tale naturalezza da catturare anche il più restio a questi richiami.

Infatti, eccetto la strada realizzata dall’ing. Fantoni , non rimane altra possibilità di ascesa che ripercorrere, come si consigliava già in un opuscolo per turisti del 19101, i due sentieri che, l’uno da Sangiano inerpicandosi arduamente at-traverso il villaggio di S. Clemente per 4 km.,l’altro più dolcemente da Caravate attraverso il convento dei Padri Passionisti conducono alla vetta2.

E l’attrattiva nel percorrerli cresce dopo la faticosa salita del gallo, entro i boschi e le robinie, di fronte alle tracce preistoriche esistenti, nella piana al cospetto delle due tombe a cassetta, ora lavatoio, e all’ar-monia delle quattro case di pietra, fino all’abside della chiesa di S. Clemente.

Fu catturato da questa emozione Giovanni Stefano Cotta , feudatario locale, che nel XVII sec. cita il S. Clemente e i suoi sentieri in un componimento metrico sulla Valcuvia : né passerò sotto silenzio Varano e le genti di Caravate e Gemonio . Rischiavo quasi di tralasciare la chiesetta di S. Clemente, il grande dirupo e gli erti sentieri3. Dovette arrivare sulla vetta ed anche per lui si spalancò un panorama rilevantissimo che lascia correre l’occhio dal Monviso alle vette dell’Ossola, del monte rosa ai paesi del cir-condario. Ma non sfugge una osservazione: sia per il versante attraverso cui lo si raggiunge, sia perché domina di più la sponda lombarda del Lago Maggiore che la comasca Valcuvia, comprensibile di appare l’insorgere passato di aspre contese tra il Comune di Caravate, e quindi la Diocesi di Como a cui appartiene, e gli ambrosiani, in particolare della Parrocchia di Leggiuno.

E’ questa considerazione l’introduzione nella storia della chiesa che trova la sia prima citazione certa nel documento trecentesco del prete Goffredo da Rovello detto il Bussero: In monte Lexeduni ecclesia Sancti Clementis, Altare Sancte Marie Magdalene4. Una chiesa dunque con un altare degno di nota e non sola in quanto vengono registrate altre due chiese, confermate dai ritrovamenti archeologici, quella di S. Martino e quella di S. Nicola, nonché un convento di frati Agostiniani presenti fino al 1700.

Sappiamo poi da una iscrizione ora perduta, esistente nella cappella e riportata negli Atti della visita del cardinale Federico Borromeo (1604), che l’altare fu consacrato il 14 maggio 1466 da Giacomo Vescovo Laodicense5.

La chiesa dovette entrare presto nella devozione popolare, come testimoniano le varie processioni che dal 1537 trovano posto negli Annali dell’Archivio Parrocchiale di Sangiano e Leggiuno. Le prime rientrano nella tradizione di portare offerte di formaggi di capra o vacca e giungono da Cheglio nel 1537, da Dumenza nel 1539, da Trarego ( Cannobio ) nel 1562, da Agra,Montegrino, Luino, Germignaga, Castronno, Tradate e seguono un itinerario che vede come tappe il Santuario di Sessa nella festa di S. Alberto, quello di Agro per S. Provino, quello del Sacro Monte di Varese il giorno di Pentecoste e quello di S. Clemente nella festa di S. Rocco.

E’ l’obbligo dell’oblazione era tanto sentito che nel 1551 il Presbitero Primus Luinus, evidentemente malato, invia una persona di fiducia con i doni. Solo un lustro dopo le offerte si specificarono anche in soldi e cera per l’altare; ma proprio nell’anno del loro arricchirsi viene registrato un episodio a dir poco curioso, passato alla storia come il fuoco sugli sciopi.

Vede come protagonisti gli abitanti di Montegrino che il giorno dopo la Pentecoste, salgono al S. Clemente per implorare la pioggia.

Quando il loro capo Ambrosio de Vallis Traulie pone i doni nelle mani del preposto Moderno di Sangiano, ecco che il presbitero ed il vicepresbitero di Caravate rivendicano i diritti sulla offerta. Durante il furibondo litigio, i due presbiteri s’impadroniscono dei paramenti della chiesa (un calice del valore di dodici scudi, un messale di media grandezza, una tovaglia nuova, una pianeta, un tappeto in damasco di seta, una saccola con dentro un corporale) e gli abitanti di Caravate accorrono in aiuto armati di scolopiis ignitis e con la sacca da polvere aperta, cum pulverino discoperto, per impedire ai sangianesi di riprenderseli, giungendo financo a puntare delle aste contro il petto del prevosto.

Non c’è più remora: il presbitero Antonio di Caravate colpisce alla testa Pietro di Sangiano col fodero della spada.

E se il presbitero Antonio di Interule, nientemeno che rettore di San Giovanni Maurizio di Caravate, è armato di spada e pugnale, tale presbitero Bartolomeo parmesano ha uno pistolero. L’elenco delle armi annovera d’altra parte anche alabarde e schioppi, impugnati da personaggi caratatesi come Jo Antonio di Filipeto, Andrea de Codo, Bernardino de Farino, Jacopo de Boniti, Cristoforo Zavattino, Baptista del Bodino, Ambrosio di Montegrino a tale scandalo, ordina di riprendersi le offerte, provocando l’ira del preposto e le querele che si prolungarono nel tempo.

Nello stesso 1566, il 2 marzo, abbiamo il primo cenno ad una visita del prete Matteo Ciceri, prevosto di Leggiuno, su incarico del Vicario Generale dell’Arcivescovo di Milano, alla chiesa campestre di S. Clemente parte di Caravate et parte di Mombello. Ciò non stupisce in quanto, investiti dei legati della chiesa, erano i canonici sia di Leggiuno che di Caravate, i quali ricevevano dai contadini un moggio di segale, uno di panico, tre staie di frumento.

La prima visita pastorale propriamente detta risale al 7 novembre 1567 e ci presenta la situazione ancora precaria di questa chiesa canonicale circondata dai resti di case distrutte; gli ordini infatti, che vengono impartiti, impongono la chiusura della porta sul lato destro e sinistro dell’altare e di due a metà della chiesa, di ricoprire la pietra santa con una tela e di richiuderla nell’apposita cassa, e culminano con l’ordine di trasferire i beni nella chiesa di S. Stefano in Leggiuno.

Il 4 agosto 1569 un’altra visita ne conferma lo stato di povertà così descrivendola: con un unico altare in una nicchia, con una antica predella rotta, priva di paramenti e con santi dipinti su tavole piccole, antiche, corrose.

Ne ricaviamo anche la descrizione architettonica di una chiesa divisa in tre parti: la prima fornicata, la centrale piccola, quella presso l’altare coperta solo di tegole.

Tuttavia vi si celebra ed i preposti hanno frutti e masseria curata da Bartolomeo di S. Clemente, Donina di S. Clemente, Stefano Molinaro, Joannina di S. Clemente con i figli Giovanni, Andrea, Bartolomeo.

Ma la situazione spartana della chiesa non frenò quattro sgratiati di Caravate che, nel 1572, furono condannati per furto proprio in S. Clemente.

Non manca a S. Clemente neppure la visita di una delle massime figure del secolo: il 16 luglio 1574 vi giunge San Carlo Borromeo. Trova la chiesa umida con l’altare maggiore rivolto ad oriente sub testudine picta, con due piccole e vicine finestre nell’abside e fuori dalla volta, con un campanile esterno dotato di una piccola campana, ed un unico pezzo pregevole: un antico palliottolo di panno verde.

All’esterno la cappella di San Giovanni con fonte battesimale e la canonica, entrambe diroccate.

Gli ordini sono di conseguenza perentori; bisogna portare l’altare presso il muro absidale, rinfrescare le pitture velate dal fumo dei ceri, acquistare un vaso d’argento per il SS. Sacramento, ma soprattutto seppellire sotto l’altare l’osso di braccio avvolto in vello di pecora, ritenuto, senza alcuna fondatezza, una reliquia di S. Clemente.

Dai decreti della Visita Pastorale del 1578 abbiamo in parte conferma della suddetta notizia, in parte un ampliamento in quanto veniamo a sapere che nella cappella semicircolare c’è un foro per gli orcioli (urzeolis), che esistono sì pitture ma intercalate da parti imbiancate, che non è terminato del tutto l’intonaco e dal tetto piove.

Esiste una scala in sasso attraverso la quale si accede alla parte superiore della chiesa che ha un porticato e due finestre che non permettono comunque la visione dell’altare, affiancato da un altro portatile con le reliquie di S. Vitale, S. Valeria, S. Primo, S. Feliciano ed altri.

Nota curiosa è che i furti devono essere continuati, in quanto si parla di una cassetta per le offerte che è stata manomessa, mentre nota interessante è che all’esterno esistevano le vestigia di un edificio distrutto che pareva un’altra chiesa. Più in basso del monte si trovavano le abitazioni per il ricovero degli animali durante la notte e dei massari di Mombello, che in quest’epoca oltre ai beni in natura erano tenuti a dare alla chiesa quattro lire milanesi all’anno.

L’intervento che si procede ad operare in seguito a questa visita, è la chiusura, mediante un muro, della porta che da accesso alla parte superiore della chiesa; non ne debbono aver fatto seguito altri in quanto, al ritorno di S. Carlo all’eremo, il 12 luglio 1581, l’umidità è peggiorata, le pitture sono ancora corrose, la falsa reliquia non è stata sepolta anzi è divenuta una meta devozionale tradizionale, mancano i paramenti, l’intonaco, i muri, dal tetto piove e la cappella di S. Giovanni è ulteriormente deteriorata. Evidentemente nonostante le numerose processioni del 1578, del 1580 e del 1581, i doni, le offerte, la proibizione di mangiare e bere nella chiesa, com’era d’uso al tempo, non si era provveduto organicamente alla tutela e al restauro della chiesa nella quale, tra l’altro, non si celebra più. Gli unici donativi, volti al suo arricchimento, sono degli ornamenti offerti nel 1596 a quella che risultava essere ormai una chiesa nuda e spoglia; ed anche le oblazioni, portate dalle processioni del 1604, vengono impiegate dal prevosto evidentemente per altri fini.

Frattanto non si era ancora sedata la faida tra i curati di Caravate ed il prevosto di Leggiuno, se nel 1593 i primi vengono costretti a pagare cento scudi più le spese per aver turbato il possesso di S. Clemente il 2 ottobre 1604 e nella registrazione della visita oltre a precisare i soggetti degli affreschi (S. Rocco, S. Clemente, S. Martino ed il Salvatore) e l’esistenza di un armadio dalla parte dell’epistola, in cui il custode teneva derrate alimentari, vengono registrate per la prima volta le misure della cappella che risulta alta 8 cubiti, larga 9, lunga 11, con l’altare distante dalla parte absidale di un cubito o poco più e l’acquasantiera sulla parete meridionale.

La chiesa pertanto in totale risulta lunga 38 cubiti, larga 13, alta 10 nella parte bassa, 18 nella più elevata.

Sul citato custode è bene invece soffermare l’attenzione: si tratta di un eremita che risulta tenere le chiavi e viene autorizzato a raccogliere elemosine.

La presenza di un eremita era già stata registrata nel 1574 durante la visita di S. Carlo e nel 1603 era giunto come custode un certo Dominico de Sarigo de Valle Travaglia. Di cosui possediamo un certo numero di dati: sappiamo che ha quarant’anni, è figlio di un tale Francisco de Boldrini o del Balduino, è un anacoreta dell’età di dodici anni ed ha vissuto tra Sarigo, Roma, presso il Rev. Sinibaldo curato di San Nicolao, e Viterbo dove risiede per due anni. Ma sono notizie vaghe finché giungiamo all’epoca in cui rientra a Sarigo, risiede per tre anni a S. Antonio di Val Travaglia e finalmente con licenza del 28 gennaio 1603, firmata da Petro Francesco Cairati, prevosto di Leggiuno, poi confermata il 10 giugno 1604 dal nuovo prevosto Toma Serafini, presso S. Clemente.

Non possiede beni, vive d’elemosine, dorme e cucina in un angolo della chiesa, poiché sul monte di Sangiano non vi è sede, veste con la tunica tipica degli eremiti lunga, di panno grosso e ruvido, con un mantello dello stesso tessuto lungo alle ginocchia ed una corda in vita con appesa la corona del rosario. Perciò invita gli abitanti a correre alla costruzione di una ediculas e pone la norma che ogni sei mesi gli si debba rinnovare la licenza di questua.

Nel contempo le processioni non solo sono continuate con i soliti omaggi del popolo, anzi sono andate via via organizzandosi e conformandosi a regole precise. Infatti dal 1631 ai sacerdoti che si fermano per devozione tre giorni, viene data refezione, a coloro che arrivano da Montegrino o Tradate si è soliti dare una segia de vino per contropagare il dono di formaggio solitamente abbondante. Addirittura, il curato di Castronno e i suoi scelgono di giungervi a sera, per pernottarvi e ripartire il giorno seguente.

Quando nel 1640 il cardinale Monti viene in visita, non ci stupisce di scoprire che debba imporre ai leggiunesi di restituire la campana da loro trafugata: il tempo sembra incapace di sopire le rivalse degli uomini.

Ciò non impedisce però che nel 1653 in ottobre si compiano dei lavori a S. Clemente6, tanto che dieci anni dopo il cardinale Federico Visconti, qui giunto, riscontra che le misure dell’oratorio sono cambiate: la lunghezza è ora di 20 cubiti, la larghezza di 10 circa.

La chiesa manca ancora di reddito, ma ha avuto nel 1622 un nuovo custode, certo Stefano Cernella, milanese. Purtroppo la presenza di questi eremiti-custodi segna un brutto periodo; intorni al 1764 un indegno romito pare si ubriacasse col vino delle offerte ed usasse per se le elemosine.

Costui ha una storia personale quanto mai emblematica: nato a Mombello, a vent’anni, condannato per furto, per sfuggire alla pena si recò a Roma. Saputo dell’oratorio di S. Clemente, si offre per custodirlo e riuscendo a fingere qualità non possedute, convince il Monsignore Visitatore a tenerlo in prova. Ottenute le chiavi e il permesso di far questua, spende più delle sue possibilità, truffa persone anche a Milano, ruba le uve dei dintorni  per farne vino, si dà ai bagordi ed ai giochi nelle osterie, dove per altro viene deriso per l’accento romano e le smargiassate. Vistosi per tali motivi licenziato, si reca a Roma dove, non a conoscenza dei suoi misfatti, spera di riottenere la licenza per continuare a portare l’abito di terziario. Quando torna mostra una lettera con un gran sigillo, affermando che il Papa stesso lo ha incaricato della custodia di S. Clemente e prende con sé, per cercare di coprire la realtà, un eremita della Diocesi di Novara per la questua di formaggio in Valtellina.

Ma l’episodio che fa traboccare il vaso e porterà al suo allontanamento, si ha il 13 maggio 1764, quando tenta di riaccendere la questione dei diritti di Caravate ad amministrare la chiesa.

Durante un pellegrinaggio di castronnesi, il romito reca loro una lettera del parroco di Caravate che rivendica le elemosine, offrendo in compenso un rinfresco. I Castronnesi, memori di avere sempre dato le offerte al parroco di S. Clemente, si rifiutano anche quando il parroco di Caravate si fa forte di una delega del Vescovo di Como, ottenuta attraverso la Suprema Congregazione di Roma. E fanno bene perché questa si diceva ottenuta proprio dal romito famoso, Giovanni Tedesco, e possiamo immaginare quale autenticità e validità abbia potuto avere. Dopo uno scambio di infuocate lettere tra il parroco, don Pietro Besozzi, e Mons. Gamberone, si giunge ad allontanare lo scandaloso questuante.

Rimane un rammarico che, parallela alla scomparsa dei romiti, è la sparizione anche dei ricordi e delle tradizioni legate a S. Clemente: l’ultima testimonianza risale infatti alla processione della Diocesi di Como e Milano nel 1772 e in particolare all’annotazione del 29 marzo che riferisce della necessità per i pellegrini di dormire in chiesa.

Questa la storia, ma sappiamo quanta leggenda si affianchi normalmente ed anche la chiesa di S. Clemente non sfugge a questa regola. La più complessa rimane quella della Triste dama della rocca di S. Giano. Questa bella e misteriosa signora, che doveva vivere in un castello che oggi può essere fatto corrispondere ad un ampio crepaccio sul monte, era pare dedita alla magia con la quale attirava i cavalieri del luogo, che, dopo orge sfrenate, divenivano introvabili probabilmente sacrificati a dei inferi.

Il timore dei luoghi per gli abitanti era grande, come grande l’attesa del paladino salvatore che si identificò in un prestante cavaliere di nome Giano. Costui con i suoi compagni assalì il maniero e vide la donna gettarsi tra le fiamme che lo distruggevano, purificando così il luogo ed il paese che prese pertanto il nome di Sangiano.

Altre sono quelle del soldato romano fattosi eremita sul monte Picuz in espiazione delle sue colpe, o quella della "Pita d’oro", l’incredibile chioccia longobardica che con i suoi piccoli avrebbe trovato rifugio nella chiesa, per concludere con l’attribuzione quasi inevitabile dell’edificazione della chiesa ai due fratelli S. Giulio e Giuliano, secondo la tradizione delle cento chiese costruite da questi tra il Varesotto, il Lago Maggiore e l’Orta.

Entrando ora in un discorso di datazione, dobbiamo immediatamente staccarci dalla attribuzione al XIII sec., dovuta al famoso Liber di Goffredo il Bussero, in quanto fin da una prima ricognizione è visibile un’origine più antica. Tale convinzione è stata per altro confermata dagli scavi archeologici effettuati nel 19687, quando dall’analisi stratigrafica, dal mosaico absidale, dallo studio delle tradizioni culturali8 locali, si è potuto arrivare ad ascrivere la parte absidale della chiesa al IX-X sec. e la restante nei secoli immediatamente successivi: cioè dal preromanico al romanico pieno.

Ma il discorso potrebbe essere fatto partire da molto più lontano, perché dai reperti trovati negli scavi, come l’ossuario romano o i vetri romani del I-II sec., è necessario tracciare anche per S. Clemente la storia di molte chiese cristiane, sorte su aree pagane che si sono trasformate nel loro percorso storico in templi cristiani.

Da un punto di vista strutturale è bene rifarci a come la chiesa si presentasse prima dei restauri: con una sua lunghezza totale di m. 19,45, una lunghezza variabile dagli m. 8,30 dell’avancorpo agli 8,40 della parte centrale ai 5,80 della parte absidale; con un’altezza che oscilla dai m. 8,80 della volta a botte ai 4,40 nell’abside.

Si articola in tre parti distinte che hanno permesso la suddetta diversificazione nella datazione: la parte centrale primitiva, in muratura massiccia con volta a botte di severità medioevale, anche se in realtà ha subito un rifacimento recente; l’avancorpo con tre piccole finestre ad arco, a doppio strombo9, essenziali e ben costruite nella linea, con ai lati una decorazione in grossi massi squadrati a guisa di modanature; l’abside che dava elementi allora incerti, essendo stato demolito in passato.

Nel presbiterio si apre una finestra semicircolare, delimitata dal cotto e voluta da S. Carlo per illuminare l’altare. La facciata è in conci del calcare detto maiolica e comunemente chiamato cepa, molto friabile. Sui due lati esterni esistono due porte murate con i piedritti in sarizzo e l’architrave trapezoidale, e sul fianco destro alzata da terra di qualche metro, un’apertura a cui si accede con una scala a pioli e che conduce ad un locale superiore, dal quale, attraverso due archetti, si domina la parte anteriore della chiesa, e che, per questo suo orientamento, può far pensare ad un coro.

All’interno da una lapide si deducono i momenti salienti della chiesa:

 

ILLUSTRI VISITATORI

DEL SANTUARIO DEL S. CLEMENTE

ERETTO NEL SECOLO XIII

CONSACRATO NEL 1466 RESTAURATO NEL 1935

SAN CARLO BORROMEO 16/7/1574

CARD. FEDERICO BORROMEO 2/X/1604

CARD. CESARE MONTI 8/IX/1640

CARD. FEDERICO VISCONTI 2/VII/1683

CARD. GIUSEPPE POZZOBONELLI 7/VI/1748

CARD. ANDREA C. FERRARI 24/1/1904

CARD. ILDEFONSO SCHUSTER 8/VI/1940

       (   * nel 1990 : Card. Carlo Maria Martini )

La chiesa però intorno al 1965 era in uno stato vergognoso, come una lettera di Ciro Nalbiachi di Roma fa presente al Sig. Carlo Alberto Lotti, che vi fece una ricognizione confermante l’abbandono generale del monumento10.

Negli anni successivi, con l’aiuto di contribuenti locali, fu costruita la strada del Picuz, che permetteva di raggiungere in macchina la chiesa e di partire con i lavori.

Si rilevarono subito estremamente proficui a partire dal masso squadrato, inserito nella muratura vicino alla porta centrale, recante un simbolo apotropaico, segno della continuità di riti non cristiani, fino al 25 ottobre 1968, quando la ruspa della ditta Verbano riporta in superficie, lungo gli ultimi metri della strada Sangiano-S. Clemente, un ossuario romano frammentato, un lacerto di muro con tracce di affresco raffigurante animali in movimento, embrici (tegole romane usate anche in epoca più tarda), rocchi di colonne. Ne fu data immediatamente notizia il 27 ottobre sulla "Prealpina" e fu un momento di prestigio e vanto per il comitato che aveva lavorato per la costruzione della strada, presieduto da Luigi Bassetti, don Angelo Clerici, Enrica Fantoni. Dettero immediatamente il proprio contributo l’ing. Cesare Fantoni, il restauratore C.A. Lotti, il sig. Tettamanti.

Con l’intervento del dott. Piero Astini di Luino, ispettore onorario alle antichità, fu informato il soprintendente alle Antichità della Lombardia, prof. Mario Mirabella Roberti. Ottenuti così i permessi di scavo, si cominciò a ripulire il luogo della zona di rispetto dell’abside, con l’aiuto di volontari appassionati: i sigg. Bertolio, Bartelli, Zimbelli.

Già durante questa operazione si notarono frammenti di un pavimento in cocciopesto, ma fu dopo i primi sondaggi che, a 30 cm. di profondità, comparve un pavimento in mosaico frammentato a tessere grandi bianche, rosse, nere. Era il pavimento musivo dell’abside, stilisticamente di epoca carolingia11. Lo scavo al suo completamento portò alla luce anche lo spazio dell’antica mensa rettangolare che S. Carlo aveva fatto rimuovere, e fece notare che il mosaico si estendeva anche sotto il muro dell’abside, ricostruita nel 1859, dopo la distruzione operata da soldati austriaci.

Il passo successivo fu la rimozione dell’intonaco che aveva ricoperto in più strati il muro absidale e le pareti laterali. Su quella di destra rispetto all’altare comparve un affresco del XII-XIII sec., raffigurante un Santo vescovo (S.Biagio ?)in una positura decorativa che sottolinea una ricomparsa monofora, profilata da due lastre in sarizzo, costituenti le spalle esterne. L’archetto non perfetto, il doppio strombo solo accennato, l’archivolto rustico leggermente a fungo, la pongono intorno al X sec.

Alla sinistra della finestrella apparvero tracce dell’affresco di una Madonna , continuante sotto il muro dell’abside. Si procedette allora ad un saggio di scavo tra l’altare ed il muro dell’abside, che riportò alla luce il vecchio pavimento in beoloni grossolani , mal squadrati, poi tessere in nero del mosaico, una moneta veneta del doge Marino Grimano (1594-1605), un peso da muratore di piombo dell’800.

Dopo lo smantellamento dell’altare, del pavimento in piastrelle e di quello in beole, si trovarono altre monete: d’argento, una di Francesco Sforza duca di Milano (1450-1466) una di Filippo III di Spagna duca di Milano (1588-1621): di rame, una di Filippo di Spagna duca di Milano, una di Filippo III di Spagna duca di Milano, cinque di Filippo II di Spagna duca di Milano (1556-1598) e due quadrangolari, spesse 3 mm, con testa d’ariete.

Si ritrovarono perte di un osso lungo e di una teca cranica umana, resti di ceramica vetriata medioevale a fondo giallo e marrone, altra più grossolana a fondo bruno, un pezzo d’argento fuso, frammenti sottili di vetri romani del I-II sec. In ultimo si ritrovò un focolare pressoché quadrangolare, di calcare del S. Clemente, evidentemente molto usato e ricoperto di cenere pressata.

Sulla sinistra, in un piccolo vano, ampi frammenti in pietra di un oggetto domestico annerito dal fuoco, nonché ceramica domestica con leggerissime unghiature al bordo, e frammenti di ceramica fine color bruno.

Si verificù successivamente che l’abside era delimitata nella profondità da un muro indipendente dal resto della navata, e che la sottofondazione della stessa iniziava a 60 cm. circa dal muro. Questo determinava che il blocco centrale della chiesa, rinforzato all’esterno da due barbacani, si presentasse come un corpo a se stante, quasi preesistente alla costruzione e venutone a far parte in un secondo tempo: in effetti sia la presenza in questa parte di opus sectile, sia il già citato orientamento del locale superiore, ne vengono a sostegno.

Prima di iniziare la demolizione del muro absidale, al fine di incorporare il bellissimo mosaico carolingio, si procede a saggi di scavo che danno ceramica variata medioevale decorata in verde e frammenti di embrici impresse a zigzag, sovrapposti su doppia fila, o tre cerchi ben incisi.

Ma dallo stesso muro si ricavano materiali riempiegati per la sua edificazione, che vanno da frammenti di tegoloni romani con varie marcature, ad una colonna tortile in marmo, ad un delicato capitello, a rocchi di colonna di vario materiale, fino a parti dell’affresco che ricopre il catino dell’abside.

E’ ora questa a porre problemi in quanto ci si domanda quale fosse la sua forma originale; se ne ipotizzano due: rotonda o quadrata. La questione rimane aperta sino al ritrovamento, nel novembre 1969, di due inviti dell’abside semicircolare, costituiti da massi ben squadrati, uniti con sabbia e calce: si può ora dare il via alla ricostruzione dell’abside.

Quando viene ripulita la cisterna, o quanto meno ciò che viene indicato con tale nome, si scoprono due punte di frecce in selce che aprono nuove ipotesi sugli antichi abitatori del luogo, mentre il fondo in cocciopesto la fa coeva al mosaico.

In ultimo si consolidano le fondamenta della chiesa e su quelle ritrovate si procede alla ricostruzione della scala esterna in calcare, mentre si da luogo anche ad una ricerca su quelle che si definiscono le case dei canonici, fino a poter individuare i vani che le compongono.

Purtroppo a questo punto il fervore dei lavori si spegne a motivo della scomparsa del suo animatore: l’ing. Fantoni.

Meritano una trattazione più ampia sia l’ossuario che il lacerto di affresco e soprattutto il mosaico absidale12.

L’ossuario romano, in granito di Baveno, fratturato posteriormente, reca questa scritta di quattro righe:

C………. VALERIUS

TERTIUS-ET-C. VALERIUS

IUCUNDUS-MATRI-PIENTIS

SUMAE

(C..... Valerio Terzo e C. Valerio Giocondo

alla madre virtuosissima)

I caratteri delle lettere sono capitali del I sec. e le particolarità si rilevano nella M ed N molto larghe e nella C ben arrotondata.

Purtroppo la prima riga lascia numerosi spazi vuoti, permettendo la sola ipotesi dell’esistenza dopo la C di una lettera E e dopo forse una R. Che CE valga per CURAM EGIT è però una congettura incerta. Si tratta comunque dell’estremo tributo ad un’ottima madre da parte di due fratelli, come deduciamo dal prenome, nome e cognome riportati.

La gens Valeria, oltre ad annoverare l’illustre poeta Catullo, è spesso presente nelle iscrizioni di tutto il Varesotto, Comasco, Canton Ticino, Brescia, Verona, già in età repubblicana.

Un foro sul lato destro inoltre ha fatto pensare ad un suo riuso forse come vasca per fonte.

Il lacero di affresco, trovato a pochi metri alla sinistra dell’abside, raffigura animali simbolici in movimento, affrontati e divisi da un alberello. In quello di sinistra, mancante della testa, si può ipotizzare un leone o un cane nell’atto di saltare, l’altro, elegante, è però ancora meno identificabile.

Pur non essendo ricco di colori, le sue tonalità di terra gialla, rossa e del nero, lo rendono bello a vedersi. Con buona approssimazione si può datare tra il X e il XII secolo.

Del mosaico sono stati ritrovati alcuni metri quadrati la cui base è molto semplice, in quanto le tessere sono state affogate in un letto di cocciopesto e malta, ottenendo degli splendidi riflessi rosati. Le tessere sono alternativamente di calcare bianco locale, di calcare nero di Varenna, di cotto rosso.

Il disegno, piuttosto elementare, presenta sei riquadri perpendicolari alla mensa, di cui i due esterni scomparsi e i due più interni con un cerchio che racchiude cinque palle, alternativamente rosse e bianche, ed un disegno sottostante romboidale a tessere nere.

Delle fasce intermedie ne è rimasta la sola di sinistra, frammentaria, mostrante un quadrato con inserite quattro palle bianche ed una nera centrale.

Dal riquadro pende il disegno di un’ancora che si posa in una triplice fila di tessere bianche, romboidali, raffiguranti onde.

Questo simbolismo è fondamentale, in quanto noi sappiamo che secondo la tradizione, S. Clemente martire e Papa, fu gettato nel 102 in mare con un’ancora appesa al collo.

Sul lato sinistro della mensa vi è una stella bianca con sei raggi intorno ad un tondo centrale e le punte volte all’esterno, a destra un’altra pure bianca, ma con otto raggi e le punte volte all’interno.

L’attribuzione di questa pavimentazione musiva è intorno al IX-X sec., perché il IX sec. presenta in Francia numerosi mosaici a disegni geometrici ed in Italia Settentrionale una simile seppur modesta tradizione (cfr. S. Ilario e Zaccaria a Venezia).

Inoltre ci orienta verso questa epoca anche la forma primitiva di questo edificio, simile a quella nutrita schiera di chiese carolingie, formate da una semplice aula con abside semicircolare più bassa.

Dal 1969 i lavori al S. Clemente sono fermi, finchè il 18 dicembre 1982 i signori: Stocco Domenico, Margheritis Adolfo, Parnisari Italo, Alborghetti Severino, Cortesi Luigi, Monti Luigi, Masciocchi Sandro, D’Alessandro Mario, Cortesi Mario, fondano l’associazione Pro S. Clemente, allo scopo della tutela ambientale e dello sviluppo culturale della zona13.

L’anno successivo si costituisce sullo spiazzo antistante la chiesa, un muretto in sassi, approvato dalla Soprintendenza per i beni ambientali ed architettonici della Regione Lombardia.

Si ha cura poi di inghiaiare il tratto di strada che va dalla località Picuz alla frazione, di eliminare sterpaglie e rovi e di sistemare il terreno adiacente ai pozzi d’acqua e, nel 1989, di realizzare il nuovo pozzo in frazione.

 

NOTE

1) Le Lac Majeur et les allèes avoisinantes, Luino 1910.

Il sussidio cita testualmente : Au mont san Clemente (521 m) et au monte di Sangiano ( 541m). Intèressante et peu faticante excursion... on arrive à Caravate (1622 hab. Alt. 275m.), aux cretes couronnèes de S. Clemente (470m) et au sommet du mont où se trouve un antique vignes. Un sentier muletier, en I heure environ, conduit au petit village batiment en ruines dènommè èglise S. Clemente. Beau panorama sur le lac Mayeur et le Varesotto. De là on atteint, à l’ouest, le mont Sangiano et on redescend vers le village de San Giano qui se trouve à la base du mont.

 

2) Esistevano anche altri percorsi attraverso Cittiglio e i casolari di S. Biagio, attualmente del tutto impraticabili.

 

3) Ora in Verbani Lacus. Il Lago Verbano. Saggio di stratigrafia storica dal secolo XV al secolo XX, a cura di P. FRIGERIO, S. MAZZA, P. PISONI, Intra 1975, p. 85.

 

4) Liber Notitiae Sanctorum Mediolani, a cura di M. MAGISTRETTI e U. MONNERET DE VILLARD, Milano 1917, c. 81, 82.

 

5) L’iscrizione apposta sulla cassettina che conteneva la pietra sacra, recita: Nel nome del Signore, l’anno 1488, sabato 14 giugno, indizione VI, il reverendo don Jacopo, per grazia di Dio e della Sede Apostolica, Vescovo Laodicense, consacrò questo altare all’onore di Dio e della Vergine Maria nel quale sono custodite delle ossa di San Cristoforo martire e delle Undicimila Vergini. Deo Gratias.

 

6) Questo è l’elenco dei lavori eseguiti: giornate di lavoro fate di Bartolomeo e Francesco tuti doi in compagnia gg. 11 a meter su il teto de la volta… e più da 2o a mastro Gaspare Sartor meza brenta di vino bono e più da 20 braca sei di asi di castano grosi di meter doe le gronde del teto del coro…

2 viaggi calce da Laveno

5 viaggi sabbia da Laveno

6 viaggi copi da Laveno

4 viaggi pianele da Laveno

1 viaggi refasi da Laveno

1 viaggi asi da Laveno

2 giornate a portar tera ne la ciesa.

 

7) Si occuparono di questi scavi Piero Astini e sua moglie Piera Miravalle Astini. Ne venne data notizia nella stampa quotidiana locale da P. ASTINI.

L’ossuario romano del monte Picuz riconferma la notorietà dei Valerio, in "La Prealpina", 28 novembre 1968.

8) Il culto di S. Clemente papa e martire ebbe la sua massima diffusione nel IX secolo, quando il suo corpo venne trasportato a Roma dalla Crimea.

9) Queste tre finestrelle hanno fatto pensare ad un primitivo pronao ad arcate, aperto alle intemperie.

10) Carlo Alberto Lotti ne diede notizia nella pagina dedicata al S. Clemente da "La Prealpina", L. C. A., Il San Clemente di Sangiano riscoperto grazie ad una lettera da Roma, in "La Prealpina", 28 novembre 1968.

11) P. ASTINI, Il simbolismo del mosaico absidale si ricollega al culto di S. Clemente, in "La Prealpina", 28 novembre 1968.

12) Venne data segnalazione del ritrovamento fatto da Piera Miravalle Astini nella "Rivista Archeologica dell’antica Provincia e Diocesi di Como", fasc. 150-151, 1968-1969, p. 343. Se ne occupò anche A. SOFFREDI DE CAMILLI, resti romani e carolingi a San Clemente di san Giano (Varese), in "La Veneranda Anticaglia", XV, 1968, pp. 22-23.

13) Il lavoro principale sul San Clemente, che riassume tutto quanto era stato scritto in precedenza e che resta ancora fondamentale strumento di studio sull’argomento, è quello di P. MIRAVALLE ASTINI, San Clemente sul monte di Sangiano, in "Rivista della Società Storica Varesina", XII, 1975, pp. 29-50, al quale rinviamo anche per la bibliografia.

 

 

         

 

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