Decanato di Rovereto (TN)

                                       

Domenica 18 novembre 1832: Antonio Rosmini iniziò a scrivere "Delle cinque piaghe della santa Chiesa", pubblicate nel 1848 e messe all'indice del libri proibiti un anno dopo. I suoi nemici però non furono ancora soddisfatti. Così 32 anni dopo la morte riuscirono a far condannare anche "40 proposizioni" tratte dai suoi libri. 

 

Domenica 18 novembre 2007 cioè 175 anni dopo,  Antonio Rosmini fu proclamato beato. Da questa data l'eredità spirituale del sacerdote filosofo di Rovereto è stata finalmente sdoganata e messa al servizio dell'uomo. 

 

       ANTONIO ROSMINI  (1797 – 1855) 

Antonio Rosmini Serbati, nato a Rovereto nel 1797, prete nel 1821, fondatore dell'Istituto della Carità nel 1828, si dedicò presto anche alla riflessione teologica e filosofica. Nel 1823 Pio VII lo incoraggiò a continuare gli studi di filosofia per i quali mostrava una straordinaria inclinazione. Tale incoraggiamento venne poi confermato qualche anno più tardi dal nuovo pontefice Pio VIII, che ne approva pure la volontà di dar vita a un Istituto religioso maschile. In seguito per l'acutezza del suo pensiero fu benvoluto da Pio IX che, nel 1848, gli confidò l'intenzione - poi innattuata - di crearlo cardinale. Nel 1849 Rosmini pubblicò "Delle cinque piaghe della Chiesa", un 'opera che fu messa all'Indice. In essa sosteneva che era tempo di purificare la Chiesa romana dai privilegi del potere temporale ed anche di dare la parola ai laici, di promuovere insomma una comunità che avesse come metro di misura l'evangelo e la fraternità. Quella che sognava Rosmini non era affatto una Chiesa "nuova", o "rivoluzionaria", ma la Chiesa "antica" che poteva trasparire dall'esempio della primitiva comunità cristiana, ricca solo della fede in Gesù. Una tale ipotesi di Chiesa metteva però in discussione molte tradizioni mondane ormai istituzionalizzate. Chiedeva in sostanza una dolorosa conversione. D'altronde, anche il pensiero filosofico e teologico che Rosmini andava esplicitando, suonava strano a chi era abituato alla filosofia aristotelica e alla teologia di s. Tommaso d'Aquino. Così una parte del clero si alleò contro il Roveretano, per farlo condannare. Ma, per volere di Pio IX, la Congregazione dell'Indice non condannò le idee di Rosmini, ribadendo che in esse nulla era stato trovato che fosse contro la fede o la morale. Il Rosmini moriva l'anno dopo a Stresa (1855). Ma i suoi avversari tanto fecero che, nel 1887, sotto papa Leone XIII, la Congregazione del Sant'Uffizio (ben 32 anni dopo la sua morte) emise un "Decreto post obitum" in cui "condannò e proscrisse " quaranta sue proposizioni. Le "proposizioni" condannate, tratte qua e là dagli scritti del Roveretano, riguardavano, in particolare, il mistero di Dio ed il rapporto tra l'Infinito e la creatura umana, dotata di anima immortale. Il Concilio Vaticano lI (1962-65), pur senza citarlo espressamente, ha di fatto rivalutato molte delle intuizioni che Rosmini aveva anticipato nelle Cinque piaghe. Perciò nel post Concilio da più parti si era chiesta una pubblica riabilitazione di Rosmini. Così il card. Joseph Ratzinger, al tempo prefetto della Congregazione per la dottrina della fede (prima dell'elezione a Pontefice), ha emesso una Nota in cui si afferma: «Si possono attualmente considerare ormai superati i motivi di preoccupazione e di difficoltà dottrinali e prudenziali, che hanno determinato la promulgazione del "Decreto post obitum" di condanna delle "Quaranta Proposizioni" tratte dalle opere di Antonio Rosmini. E ciò a motivo del fatto che il senso delle "proposizioni", così inteso e condannato dal medesimo Decreto, non appartiene in realtà all'autentica posizione di Rosmini, ma a possibili conclusioni della lettura delle sue opere».  

Così a tutti gli effetti Rosmini viene rimesso su quel candelabro ecclesiale da cui improvvidamente il Magistero ecclesiastico del tempo lo aveva tolto; e significa che di Rosmini e su Rosmini pensatore si può dissertare, approvando o meno le sue idee, ma senza che più alcuna spada di Damocle penda su di lui. Non ci si può che rallegrare che, dopo 114 anni di ingiusta condanna, Antonio Rosmini venga ufficialmente riabilitato nel suo onore di pensatore. 

SALVARE LA PERSONA

Il 1° luglio 1855, si spegneva, dopo una lunga malattia, il prete roveretano Antonio Rosmini. «Prete roveretano», l'unico titolo di cui egli amava fregiarsi, nonostante discendesse da una delle più nobili e facoltose famiglie trentine. Uomo dalla cultura enciclopedica, filosofo eccezionale, fine teologo e pensatore politico, amico di alcune delle più belle menti del suo tempo (basti ricordare Niccolo Tommaseo e Alessandro Manzoni), Rosmini ha lasciato un segno indelebile nella storia italiana degli anni che precedettero l'unificazione. Una figura non sempre capita, quella di Rosmini: fortemente amata da coloro che ebbero la fortuna di lasciarsi affascinare dalla sua mente eccelsa e dal suo grande cuore; ma anche astiosamente rifiutata da chi lo giudicò troppo frettolosamente un giovane presuntuoso intellettuale. Gli obiettivi che Rosmini si prefisse, già dall'inizio della sua breve ma straordinaria attività, non erano assolutamente modesti. Ancora giovane studente aveva convinto alcuni amici a unirsi a lui nella redazione di un'enciclopedia cattolica che avrebbe dovuto rappresentare, secondo l'intenzione dei suoi curatori, la risposta cristiana al progetto illuminista di Diderot e D'Alembert. Il progetto fallì, ma l'inquietudine di poter dare all'universo cattolico un'opera di ampio respiro, che potesse rispondere alle sfide sempre più pressanti che venivano da un mondo in costante evoluzione, rimase ben radicata nel pensatore trentino. La situazione in cui versava l'Italia pre-risorgimentale, accesa dai fuochi della rivoluzione francese, era un laboratorio pressoché unico di fermenti e idee, in cui Rosmini si immerse con decisione. E ben presto comprese come il malessere diffuso che si avvertiva nella penisola e in Europa andava affrontato con strumenti diversi e più radicali di quelli che poteva offrire la politica. Secondo Rosmini, la gente aveva perso la capacità di pensare «correttamente» e ben poco avrebbe giovato un cambio politico che non fosse accompagnato da una crescita intellettuale, morale e spirituale delle singole persone. Nasce da questa consapevolezza il carisma specifico rosminiano, quella «carità intellettuale», che orienterà i suoi studi fino al giorno della sua morte, e cioè, lo sforzo di instradare i suoi contemporanei alla scuola dell'essere, fondamento della realtà e via che conduce alla contemplazione del mistero di Dio, unica verità. Questo progetto, che toccherà tutti gli ambiti del pensiero filosofico e teologico, si concretizzerà in un numero straordinario di opere pubblicate, numero reso ancora più incredibile se si pensa che Rosmini morì a soli 58 anni.

Due furono i motori che lo spinsero a quest'opera di rinnovamento del pensiero cristiano. Il primo può essere riassunto nel principio rosminiano di «passività», cioè, nella consapevolezza che per poter aiutare con efficacia l'uomo a correggere la propria mentalità, è necessario creare in se stessi l'attitudine dell'uomo di fede che sempre sottomette alla volontà di Dio i propri interessi e desideri. Il secondo stimolo venne al Rosmini dall'esplicito incoraggiamento dell'allora papa Pio VII a proseguire gli studi che si era prefisso in campo filosofico. Nonostante le critiche che cercarono di colpire il pensiero, persona e attività di Rosmini, nate in molti casi in ambienti ecclesiali, il pensatore trentino sempre intese la sua opera in comunione stretta con la chiesa, per la quale ebbe durante tutta la vita amore e devozione. Anche quando, con la pubblicazione del famoso trattato Delle cinque piaghe della santa chiesa (1848) Rosmini mise a nudo alcuni problemi che affliggevano la realtà ecclesiale del tempo, l'intento di fondo fu quello di aiutare gli uomini a servire meglio la chiesa, aiutandola a sbloccarsi da quei difetti che la tenevano come «crocifissa», impossibilitata a liberare le sue enormi potenzialità di fare il bene.

Il fine di tutto lo studio rosminiano è eminentemente antropologico.  Al centro del suo pensiero è l'uomo, e tutta la sua filosofia deve essere intesa come una vera e propria pedagogia dello spirito umano. Sempre pose bene in chiaro l'inutilità di una filosofia non diretta al miglioramento della condizione umana. In particolare, Rosmini pose l'accento sul concetto di persona, «il pinnacolo della natura umana», il cui valore, dignità e potenzialità indicano il cammino di ricerca della verità che ci può davvero rendere liberi. L'antropologia rosminiana potrebbe trovare la sua collocazione nella valigia del missionario, dando all'apostolo di oggi una comprensione profonda e un grande apprezzamento della persona, dei suoi valori e dei suoi diritti inalienabili. «Salvata la persona è salvato l'uomo».

Un secolo prima di Maritain, il filosofo trentino ci presenta una figura di persona integrale, un piccolo microcosmo non riducibile a una parte, che ha in sé il germe della totalità, dovuta al dono della razionalità di cui ogni persona è fornita e che la rende diritto sussistente, essenza stessa del diritto. Non lo stato, quindi, neppure il capitale o la finanza possono pretendere di essere essenza del diritto, ma la stessa persona umana. Un messaggio forte per un'epoca in cui troppe persone non sono più considerate come soggetti di diritto, in cui la loro dignità e offesa dal momento della nascita a quello della morte. E anche per questo suo sempre attuale contributo «personalistico» che nella sua enciclica Fides et ratio, papa Giovanni Paolo II associò il nome di Rosmini a quello di altri significativi autori cristiani, l'attenzione all'itinerario spirituale dei quali «non potrà che giovare al progresso nella ricerca della verità e nell'utilizzo a servizio dell'uomo dei risultati conseguiti» (n 74).

                                                                                                  Ugo Pozzoli

ATTUALITÀ DEL PENSIERO ROSMINIANO

Già negli anni giovanili  Rosmini si era dedicato allo studio della filosofia della politica, stimolato dalle condizioni politiche e dai fermenti che agitavano la società civile dopo la rivoluzione francese e le imprese napoleoniche. Ma a Milano aveva avvertito l'esigenza di far precedere lo studio dei problemi più fondamentali della filosofia, come quelli riguardanti il valore della conoscenza umana e dei princìpi della vita morale. In seguito, nel clima politico del Risorgimento, riprese quegli studi e pubblicò diverse opere sulla società civile ed un voluminoso trattato sulla Filosofia del Diritto.

"I diritti di natura e di ragione sono inviolabili per ogni uomo"' questo il primo articolo che egli proponeva nel progetto di una Costituzione secondo la giustizia sociale. E spiegava: "Ogni dispotismo ha per sua radice la negazione dei diritti di natura e di ragione: questi si disconoscono dalla autorità dispotica molte volte in teoria, più spesso nel fatto". Questo vale per ogni forma di dispotismo: dal dispotismo monarchico (l'assolutismo dei Prìncipi), al dispotismo popolare (il dispotismo delle maggioranze), a nuove forme di assolutismo. "rivestito della veste magnifica d'una perfetta legalità".

Più oltre mostra come l’unico modo di "distruggere il dispotismo sotto tutte le sue forme", sta nel "riconoscere che sopra la società civile, sopra il popolo, sopra l'umanità intera vi è una giustizia eterna...; che avanti tutte le leggi positive della società civile ve ne sono delle altre, a cui quelle della società devono conformarsi sotto pena di esser nulle". Occorre "ammettere un diritto di natura e di ragione precedente alla civile convivenza, che dev'essere rispettato da tutte le disposizioni civili": solo allora il potere civile ''cesserà di essere dispotico".

 

                                                                                                           tratto da un articolo di Luigi Sandri