Lizzanella  Decanato e Comune di Rovereto  - Trentino

 L'Islam tra noi

Islam e terrorismo

Che religione è l'Islam, se in suo nome si inculcano sentimenti cosi disumani? E’ la domanda che molti si pongono. Infatti ragazzi e perfino bambini di pochi anni si dichiarano pronti al martirio. Si ascoltano mamme orgogliose dell'eroismo sacrificale dei figli. E scuole e moschee, che  spesso si confondono, iniettano nei piccoli il veleno dell'odio. Quadro veramente raccapricciante. La prima risposta è che  l’Islam religioso non c'entra in tutto questo, se non per una cattiva interpretazione della sua dottrina, della sua storia e per l'uso strumentale che ne fanno gruppi di fanatici fondamentalisti, che alimentano il terrorismo reclutando ragazzi con l'inganno e l'illusione di un premio nell'aldilà, raffigurato come una sorta di paese dei balocchi. Cinismo da un lato e ignoranza dall'altro (questi bambini vivono come reclusi, spesso dopo essere stati testimoni oculari di terribili vendette ed avere assistito ai massacro dei loro cari) congiurano per fare della morte, suicida e assassina al tempo stesso, un'atroce ragione di vita. Ma il Corano, il libro sacro dei musulmani, condanna il suicidio e l'uccisione di civili innocenti.

 Il principe El Hassan bin Talal, fratello del compianto re Hussein di Giordania, risponde a tali interrogativi pubblicati in un libro di Alain Elkann (Essere musulmano. Saggi Bompiani). A pagina 33 c'è una domanda esplicita su terrorismo e integralismo, come noi in occidente li conosciamo. La risposta del Principe non è elusiva e parte dalla constatazione che fino al Regno del Terrore, instaurato in Francia dopo la Rivoluzione, il termine terrorismo neppure esisteva, che in inglese compare per la prima volta nel 1795 e che solo negli ultimi decenni è stato trovato un sinonimo in arabo irhab, da arhaba che significa «intimidire»). Spiega il principe: «Ci si dovrebbe dunque chiedere chi ha imparato il terrorismo da chi. La religione islamica non perdona l'uso della violenza, l'intimidazione o il sacrificio di persone innocenti in nessuna circostanza, e quindi è chiaramente antiterroristica nei suoi principi. La pratica del terrorismo da parte dei musulmani negli ultimi decenni non giustifica l'associazione del termine "terrorismo" a Islam. 

                                                               (tratto da uno scritto di don Luigi Zega)

 

 

L´Islam è la seconda religione in Italia. Ma come ci poniamo di fronte ai musulmani? Quali sono gli aspetti comuni e le differenze con i cristiani?
di don Pietro Rattin (biblista trentino)

 

Che si tratti della fine di Ramadàn, o di qualsiasi altra ricorrenza del calendario islamico, ogni occasione è propizia alla seconda religione maggioritaria in Italia per avanzare richieste o rivendicare il riconoscimento di particolari diritti. L´opinione pubblica, superato il primo momento di sconcerto, si schiera: chi a favore (non raramente in modo alquanto irenistico e irresponsabile), chi contro (sovente con motivazioni più apparentate al pregiudizio che alla riflessione equilibrata e lungimirante).
Lo Stato, disponibile a un riconoscimento giuridico per la comunità musulmana in Italia, ha preferito accantonare ipotesi d´"intesa" e optare per una più generica legge sulla "libertà religiosa".
Cautela e prudenza si impongono, infatti, per almeno due buoni motivi.


Un arcipelago molto frastagliato


Primo, la situazione di "arcipelago" tipica dell´Islàm in Italia (ma anche in altri Paesi Europei): tra i fedeli musulmani presenti nel nostro Paese, appartenenti per la maggioranza al mondo sunnita, prevalgono attualmente i magrebini (43%), seguiti dagli albanesi (20%), senegalesi e mediorientali (10,8%), estremo-orientali (7%); per non dire delle differenze socio-religiose che coinvolgono questo arcipelago in modo trasversale, sia nelle credenze (strettamente osservanti: 49%, parzialmente secolarizzati: 23%, critici-non praticanti: 7%), sia nelle pratiche (cultura e sistema giuridico degli albanesi, ad esempio, sono agli antipodi delle norme e credenze dei magrebini).
Quale organismo unitario potrebbe, allo stato attuale, rappresentare una tale complessità? Le associazioni che raggruppano maggior numero di aderenti sono attualmente l´Unione delle Comunità e delle Organizzazioni Islamiche in Italia (UCOI, a dirigenza fondamentalista neo-tradizionalista, che rappresenta in sostanza gli immigrati che frequentano le moschee), la Lega Musulmana Mondiale (che controlla la moschea di Roma), l´Associazione Musulmani d´Italia (AMI), la Comunità Religiosa Islamica Italiana (COREIS).
L´altro buon motivo di cautela è offerto dall´esperienza già realizzata in altri Paesi Europei: Francia, Spagna, Austria, Belgio. Non di rado l´avventatezza nell´individuare un interlocutore unico ha avuto quale effetto l´emergere di soggetti islamici che non accettavano i patti stipulati.
Anche perché quell´unico interlocutore, sovente portavoce dell´Islàm delle moschee, rappresenta una minoranza (15%) le cui attese sono spesso ben diverse da quelle della maggioranza dei musulmani in Europa.
Strategia migliore, per l´esperienza di questi Paesi, sembra quella di favorire il sorgere di commissioni consultive, che siano espressione di una sensibilità musulmana differenziata, piuttosto che contare su rappresentanze perennemente conflittuali al proprio interno.
Non sono pochi gli elementi che, proprio nell´ottica dell´integrazione e della futura convivenza civile, fanno toccare con mano la diversità della cultura occidentale rispetto a quella musulmana; si pensi, ad esempio, al vasto settore del diritto di famiglia… L´opinione pubblica, tuttavia, sembra prestare attenzione più accalorata a rivendicazioni che vanno aldilà di quest´ambito (probabilmente perché paiono intaccare più direttamente l´anima della cultura occidentale). Vediamone qualcuna.


L´insegnamento dell´islam a scuola


In sede locale, ha suscitato sconcerto la richiesta del responsabile della Comunità musulmana di introdurre l´insegnamento della religione islamica nella scuola pubblica.
A onor del vero, va detto che tale richiesta era già stata inserita nella bozza d´intesa presentata allo Stato da parte di due delle già menzionate associazioni islamiche esistenti in Italia: A.M.I e Co.Re.Is.
Che la legge italiana, al momento attuale, non consenta l´accoglimento di una richiesta di tal genere è un dato di fatto che solo in apparenza fa problema: si sa benissimo, anche da recenti cronache parlamentari, che certe leggi possono senz´altro essere modificate. Non solo, anche a prescindere da eventuali modifiche di legge, è noto che l´elasticità del sistema scolastico consente ai genitori dei ragazzi musulmani di chiedere, al Consiglio di Circolo o d´Istituto, d´inserire tra le attività complementari lo studio del fatto religioso, oppure di tutelare la lingua e la cultura d´origine mediante l´istituzione d´appositi corsi (L.286/1998, Testo unico dell´istruzione religiosa, art. 38).
La questione da dibattere è un´altra, e va riconosciuta: è o non è accettabile un´ipotesi di questo genere? Per quali motivi? In un´ottica democratica, a minoranze appartenenti a religione diversa, va riconosciuta o rifiutata la legittimità di una tale richiesta?
Occorre valutarla nel suo significato e nel suo contesto. Quanto al significato, occorre darne atto: così com´è stata formulata dall´imam di Trento, dimostra e sottintende se non altro una notevole disponibilità ad accettare e valorizzare le pubbliche istituzioni, nonché il confronto culturale che la scuola rappresenta. Il che risalta ancor più se si guarda al contesto (italiano, appunto): la maggioranza, per non dire la totalità, degli imam "immigrati" in Italia, rifiuta di cimentarsi con rivendicazioni che implicano confronto di culture.
Un eventuale diniego, quantunque sopportato da motivazioni serie (che non siano semplici pregiudizi) dovrà in ogni caso fare i conti con prospettive future: si voglia o non si voglia, la presenza dei musulmani tra noi andrà crescendo e, a meno che non si scelga di relegarli perennemente a cittadini di serie B, sarà giocoforza consentire loro i canali e gli strumenti in grado di salvaguardare e coltivare la loro identità religiosa e culturale.
L´ipotesi alternativa a un´offerta dell´insegnamento islamico nella scuola pubblica potrebbe essere quella di una sua collocazione nell´ambito di istituzioni private (ipotesi vista inizialmente con favore dalle Comunità islamiche d´Italia, ma poi accantonata a causa degli alti costi che avrebbe comportato).
È da credere tuttavia che - visto come vanno le cose in fatto di politiche scolastiche - non passerà molto tempo che anche i musulmani potranno disporre di istituti scolastici privati. Ma occorre domandarsi con tutta franchezza: quale integrazione potrà favorire una tale soluzione? quale confronto interculturale? o non sarà piuttosto un contributo ulteriore a una pericolosa ghettizzazione? Chi potrà fare da arbitro super partes in una tale situazione, e vigilare contro ogni possibile focolaio di fondamentalismi?


Simboli religiosi? Vanno accostati


È un altro aspetto del confronto culturale che suscita talora aspre polemiche. È più che ovvio che la furia negatrice di un Adel Smith, tesa ad eliminare dai luoghi pubblici i simboli cristiani, non riscuota alcun plauso da parte di molta gente di buon senso (cristiani o musulmani che siano). Non ne riscuote nemmeno la frettolosa disponibilità di certi progressisti ad accantonare per amor di pace qualsiasi simbolo religioso. Né è condivisibile la furia di quei tali che vorrebbero riportarli ovunque "a furor di popolo" (era l´espressione che ricorreva in una ben nota trasmissione radiofonica sull´argomento: dalla storia risulta che l´unico "furor di popolo" nella faccenda del Crocifisso fosse prerogativa dei crocifissori, non dei devoti del Crocifisso!).
Ben venga il confronto su una tale questione, se avrà l´effetto di coscientizzare chi si professa cristiano, sul cumulo di significati esigenti e compromettenti che il Crocifisso incarna e rappresenta. Ma le battaglie e le crociate, no: non si addicono a chi venera il crocifisso; sarebbe come andare in guerra recando in mano un ramo d´ulivo, o una colomba, al posto del mitra: patetici si sarebbe (oltre che ridicoli).
Il magistrato Michele di Schiena scriveva su «Avvenire» (se pure a prezzo di scandalo per molti suoi lettori): «Perché questi crociati dell´ultima ora non scendono in piazza e non protestano quando il Crocifisso viene ferito e tormentato sul tragico legno della storia contemporanea, con i chiodi delle politiche che affamano milioni di uomini e delle guerre "infinite" che devastano e uccidono?».
È più ragionevole che, nei luoghi pubblici, ogni religione (se rappresentata nella popolazione che vi accede) trovi espressione simbolica appropriata, senza alcuna pretesa di esclusivismo.
I simboli religiosi si devono accostare, non elidere a vicenda. Che questo significhi cedere al relativismo, è cosa che solo certi agnostici possono pensare (coloro per i quali "le religioni sono tutte eguali"), oppure quei credenti che si illudono di avere il monopolio del Trascendente e di doverlo ad ogni costo difendere (cristiani o musulmani che siano).
In realtà, l´accostamento pacifico dei simboli delle grandi religioni potrebbe costituire un forte segnale educativo, un vero richiamo a quel cammino di pace per il quale ognuna di esse ha qualcosa da dire e molto da condividere con le altre.


Le moschee? Fanno politica


Quella di un´eventuale moschea è tra le rivendicazioni che suscitano maggiori polemiche. Stranamente, tuttavia (ed è un´ulteriore riprova della superficialità con cui si interloquisce), finiscono col coagularsi quasi tutte su un terreno… finanziario («Vogliono la moschea? Se la costruiscano con i loro soldi… non con quelli dell´Ente pubblico!»).
Ebbene, non è affatto questa l´angolatura esatta da cui affrontare la questione (non si dimentichi che quello dei finanziamenti da reperire è un problema solo relativo: la grande Moschea di Roma, infatti, è stata realizzata a spese dell´Arabia Saudita!). Sono piuttosto d´altro genere le considerazioni da fare e tutte inducono ad affrontare l´argomento con serietà e cautela.
Le moschee vere e proprie in Italia sono soltanto quattro (salvo errore): Roma, Milano, Catania e Palermo. Tutte le altre (più di 200) sono delle semplici sale adibite per la preghiera. «La moschea - scrive il gesuita Khalil Samir - non è assimilabile ad una chiesa cristiana, ma rappresenta qualcosa di completamente e radicalmente diverso… È il luogo dove la comunità si raduna per affrontare tutto ciò che la riguarda… Considerarla un luogo di culto è sbagliato e limitativo». «L´Islàm delle moschee (esordisce Tino Negri sulla rivista "Il Dialogo - al biwàr") è, salvo eccezioni, di matrice salafita (parola che deriva da salaf e indica i "pii antenati"). La storia contemporanea dimostra che il salafismo è la matrice del fondamentalismo e del radicalismo armato, senza evidentemente identificarli tout-court. Nei paesi islamici la moschea (jami´a) è un complesso di edifici che comprende un ampio luogo di culto e di raduno dove un imam è autorizzato a tenere il sermone del venerdì, di carattere sempre morale e politico. Nelle jami´a statali predica l´ideologia politica del sovrano, in quelle libere non è raro che si esprima la voce del contestatore politico. Sarà superfluo ricordare che tutti i movimenti islamici violenti sono nati e si sono alimentati spiritualmente in moschea? Chi di noi italiani condivide oggi una tale visione del culto?».
È accaduto anche in città italiane che musulmani abbiano disertato il culto del venerdì per non dover sorbire sermoni di carattere prettamente politico…
Sono considerazioni, queste, che non faranno piacere a molti nostri interlocutori musulmani, ma il vero confronto, serio e rispettoso, esige di chiamare "pane il pane e vino il vino".
Nulla da eccepire sul diritto e sulla necessità di reperire sedi appropriate o più capienti per la preghiera, ma per quanto riguarda le moschee vere e proprie ci sia consentito esprimere cautela e attendere maggiore chiarezza.

 

Passi avanti da parte nostra


Passo avanti è uno sforzo di "liberazione mentale", anzitutto. Va riconosciuto che, almeno in buona parte, siamo ancora prigionieri di stereotipi ideologici, o di schieramenti limitanti. Quegli stessi che, all´occorrenza, portano a disquisizioni eloquenti e circostanziate, ma la radice quadrata delle quali è più o meno la seguente: "Sono di destra, quindi: rifiuto" / "Sono di sinistra, pertanto: apertura". Di fronte alle reali novità, gli stereotipi servono ben poco, anzi, sono delle autentiche palle al piede.
Liberazione è necessaria anche da certo retaggio culturale del passato che, a quanto pare, continua a dominare nel populismo di certi promotori d´opinione: alludo a quella visuale "caricaturale" dell´Islàm che in Occidente ha imperversato fin dal Medio Evo. Islàm quale religione di beduini incolti e selvaggi… povera di valori, incapace di promuovere cultura e progresso, tendenzialmente priva di autentica spiritualità… Solo chi ha fatto un´esplicita scelta d´ignoranza può permettersi di condividere e riproporre visuali di tal genere al giorno d´oggi.
Un terzo legame da infrangere è quello di un pregiudizio, relativamente giovane e recente, avallato dai drammatici eventi di questi ultimi anni, quali le stragi operate dal terrorismo e le guerre che presumono di sradicarlo a livello globale. Un certo modo d´informare (o di non informare) l´opinione pubblica, una marcata insistenza su certi fatti più che su certi altri, hanno favorito l´idea del Bene-tutto-da-una-parte e del Male-tutto-dall´altra. È incredibile quanto facilmente si possano modificare i parametri etici delle masse, per convogliarle a pensarla in un certo modo! Eppure non vi è confronto senza un retroterra di libertà, che è anche capacità di stanziamento, di critica (e autocritica).
A quest´opera (che è di demolizione in un certo senso), deve seguire uno sforzo di costruzione: ci è necessario forgiare strumenti che siano adeguati per il confronto, e perché il dialogo che ne consegue sia equilibrato e vantaggioso per ambedue gli interlocutori. Tali strumenti mi pare che possano e debbano essere i seguenti.
Cognizione di causa, anzitutto. In altre parole: occorre conoscere l´interlocutore, che è il fenomeno Islàm nella sua globalità. La storia studiata sui libri di scuola non ci ha informati granché al riguardo. È probabile che d´ora in poi avremo altri stimoli per approfondire quel variegato e complesso campo di rapporti che sono intercorsi tra Occidente e Islàm a partire dall´8° secolo in poi. Rapporti che, conoscendoli, e proprio per la loro complessità, potranno renderci più cauti nei nostri giudizi. (Quanti, ad esempio, tra gli entusiasti della modernità dell´Occidente, sono a conoscenza degli apporti, filosofici e scientifici d´ogni genere, pervenuti a noi dal mondo Arabo, ben prima che iniziasse la nostra epoca moderna?). L´ignoranza della storia porta inevitabilmente ad assolutizzare la propria cultura di appartenenza (del presente, appunto) e, di conseguenza, a pronunciare giudizi quantomeno parziali e inaffidabili.


Aspetti comuni e differenze


Cognizione di causa significa anche accostamento al fenomeno Islàm per conoscerne i valori e i contenuti più squisitamente religiosi. Il Concilio Vaticano II, a suo tempo, ne ha preso atto con tutto rispetto e ne ha fornito un elenco interessante (Dichiarazione NOSTRA AETATE, 3). Soprattutto per chi ragiona dalla prospettiva dell´appartenenza cristiana, si tratterà di prendere coscienza degli aspetti comuni anzitutto ("prima ciò che unisce" soleva dire Papa Giovanni), e poi - senza reticenze o irenismi - delle differenze, che non sono né poche né irrilevanti. Perché "il dialogo non è ricerca di un´unità impossibile, ma confronto, aiuto reciproco ad essere credenti, ciascuno nella propria religione. Dialogo è aiuto a purificarci dagli elementi spuri, che non c´entrano con la religione. Dialogo è cammino verso l´Assoluto che ci trascende tutti" (G.Dal Ferro). Un dialogo che, in ogni caso (ed è quello che insegnano le Chiese abituate a convivere con maggioranze islamiche) dovrà svolgersi nella vita, condivisa e vissuta fianco a fianco, più che sul fronte delle rispettive teologie.
Anche la pretesa di ogni religione ad essere l´unica e definitiva via di salvezza, richiede strumenti per essere capita in modo nuovo, senza venire perciò stesso tradita: se sul piano della logica puramente razionale è semplicemente assurdo e insostenibile che possano esistere molteplici "uniche vie giuste", sull´orizzonte del Trascendente una tale visuale trova tutta la sua legittimazione. Perché l´Assoluto (sia che lo si chiami Dio, oppure Allàh) è tutt´altro che una località turistica da raggiungere o un obiettivo da conquistare: è il Trascendente che tutti attrae senza diventare monopolio di nessuno. La certezza, da parte di ogni credente, di essere su "l´unica strada giusta", va coniugata con la disponibilità a che l´altro, la cui Fede è diversa, possa dire la stessa cosa: ecco il modo umano - povero, forse, ma sincero - di rendere ragione e testimonianza dell´inesauribile trascendenza dell´Assoluto.
Strumento adeguato per un positivo confronto potrà essere anche un utilizzo più politico e più globale del criterio di reciprocità: è decisamente poco serio, oltre che sterile, motivare i dinieghi a rivendicazioni dei musulmani che sono tra noi con la scusa che "quando si potranno costruire le chiese in Arabia saudita…allora permetteremo l´erezione di moschee nei nostri Paesi occidentali". È ad altri livelli, piuttosto, che occorre urgere per l´attuazione del criterio di reciprocità: tocca ai responsabili della Politica, spetta all´Unione europea quantomeno, farsi responsabili e promotori di diritti umani delle minoranze nei Paesi islamici, dando a una tale sensibilità piena cittadinanza in quel fascio di rapporti internazionali che, altrimenti, si ridurrebbero a contenuti esclusivamente… mercantili.


Passi avanti dai musulmani


È fin troppo facile pretendere cambiamenti dagli altri, ma è fuori dubbio che un passo avanti lo debbano e lo possano fare anche i nostri interlocutori. Quello sforzo di "liberazione mentale" di cui si diceva, probabilmente spetta anche ai musulmani oltre che a noi.
Una liberazione come presa di coscienza, anzitutto, sul fatto che se è vero che Allàh ha creato l´Islàm, sono gli uomini ad aver prodotto l´Islamismo. In altri termini: la disponibilità a riconoscere nella propria cultura la presenza d´incrostazioni e di prassi comportamentali che sono opera degli uomini, più che espressione della rivelazione originaria del Corano; disponibilità ad accettare che, se dagli uomini sono state aggiunte, dagli uomini possano essere rivedute e corrette.
La "liberazione mentale" riguarda anche un certo modo d´intendere i rapporti tra la dimensione religiosa e la sfera pubblica: la storia stessa dell´Islàm attesta che tale rapporto non necessariamente dev´essere di coincidenza, o di prevaricazione della prima sulla seconda (come pretendono i fondamentalisti), e che le epoche più feconde (sia per la convivenza, come per la produzione culturale) sono quelle nelle quali tale rapporto è gestito con maggiore equilibrio. Se certe interpretazioni "moderniste" della shar´ia, in ambito islamico sono percepite troppo sovente come eresie, in ambito europeo è ora di domandarsi - e proprio da parte dei musulmani - se non vadano prese in seria considerazione.
Vi sono, da parte occidentale, pregiudiziali difficili da superare; in parte perché si tratta di stereotipi dai quali è faticoso prescindere, in parte perché le riprove che offre il mondo islamico continua ad accreditarle. Si pensi al ruolo della donna, ad esempio, o a certo "diritto familiare" che a noi appare lesivo della sua dignità.
Prassi come quella del ripudio unilaterale, dell´impedimento matrimoniale tra donna musulmana e marito non musulmano, o della stessa poligamia, appaiono totalmente inconciliabili con i valori etici dai quali scaturisce il nostro "diritto di famiglia".
Sappiamo peraltro che anche nei Paesi islamici si levano voci critiche a tale riguardo (dall´ambito femminile, ma non solo), e non crediamo affatto che coloro che le fanno risuonare siano meno credenti di altri.
Quanto al fatto che tali prassi siano legittimate come concessioni dalla stessa rivelazione coranica, probabilmente non è un buon motivo per giustificare la loro intangibilità: le rivelazioni autentiche, infatti, non hanno lo scopo di avallare l´esistente, quanto quello di provocare a cambiare in meglio. È un settore nel quale, da parte dei musulmani che sono tra noi, gradiremmo sentire prese di posizione più esplicite e vedere atteggiamenti davvero più autocritici e innovativi.
Esattamente come nel campo del cambiamento o del passaggio da una Fede ad un´altra, «non ci sentiamo defraudati quando, con tutta tranquillità e fierezza, un cittadino italiano proclama la sua conversione all´Islàm, ma siamo defraudati, persino a casa nostra, perché la stessa tranquillità è negata ai musulmani che cambiano religione» (T.Negri). Mal sopportiamo che paesi quali l´Arabia Saudita, il Pakistan, l´Iran, il Sudan, continuino ad applicare la pena di morte in tali casi, e che gli altri Paesi islamici condannino quantomeno alla carcerazione…
Non ci basta sentir dire che "da noi non sarà così": nel caso di Nura, donna maghrebina convertita al cristianesimo, che chiede rassicurazioni in tal senso (vedi Corriere della Sera, 3 settembre 2003), nessun imam italiano è intervenuto a prendere posizione, a quanto pare.
Sappiamo che il Corano afferma: "Non c´è costrizione nella religione. La retta via si distingue dall´errore" (2,256); e ancora: "Se Allah avesse voluto, avrebbe fatto di voi una sola comunità. Vi ha voluto però provare con quel che vi ha dato. Gareggiate in opere buone" (5,48). Vorremmo che i musulmani che sono tra noi si liberassero da certe interpretazioni restrittive della loro rivelazione, e preferissero evocare questi riferimenti, parziali sì, ma importanti.
Gradiremmo, infine, assistere a più decise ed esplicite prese di posizione, frequenti quanto le loro rivendicazioni, su quei casi di misconoscimento dei diritti umani che vedono come destinatari-vittime le minoranze cristiane di non pochi Paesi islamici. Siamo a conoscenza di persecuzioni e di vessazioni nei loro confronti, perpetrate (senz´altro da fondamentalisti, ma anche da poteri statali) in Sudan, nell´alto Egitto, in Pakistan, in Indonesia, in Arabia Saudita. È una realtà che, da parte dei musulmani che sono tra noi, attende di essere riconosciuta e condannata. «Saperlo fare, affermando la propria lealtà alla legalità degli Stati in cui si vive, è il primo passo per mostrare la volontà di un dialogo e di una convivenza tra culture diverse»   

  
Alma, Lila e il loro velo


Certo, non è né corto né facile il passo che dovranno compiere (anche perché le esemplificazioni sin qui fatte sono tutt´altro che complete). Attenzione però: non è da vedere in tutto ciò una mera strategia, o un pedaggio da pagare, ai fini di un´integrazione nella società occidentale. La posta in gioco ha un valore molto più elevato, ci pare, perché si tratta anzitutto di un´inedita opportunità, sia per l´Occidente sia per l´Islam: quella di "inventare" una laicità, nuova per l´Islam e, per l´Occidente, più matura e più equilibrata di quella sperimentata finora. Se l´Occidente infatti ha rischiato, e rischia tuttora, una laicità fin troppo "emancipata" da riferimenti religiosi (salvo poi a dover fare i conti con un patrimonio etico che è discutibile risultato di sondaggi d´opinione), l´Islam ha sperimentato l´estremo opposto: un´interferenza indebita della componente religiosa, che avvilisce l´uomo, perché lo esime dalla responsabilità di pensare e di confrontarsi con i suoi simili. Ebbene, è ora di "inventare" una laicità più equilibrata: per il futuro di tutti.
Alma e Lila sono due ragazze musulmane la cui iniziativa, alcuni mesi or sono, ha messo a rumore la Francia. Studentesse in un liceo di Parigi, un giorno si presentano a scuola indossando il velo. Polemiche e prese di posizione a non finire. I genitori, pur non condividendo la scelta delle figlie, le difendono. La nonna commenta: «Nel vuoto di valori che caratterizza la società, Alma e Lila si sono rifugiate nella religione più visibile».
Ecco la posta in gioco che richiede coraggiosi passi avanti da parte di ogni interlocutore, cristiano o musulmano che sia: il vuoto di valori, cui le religioni devono potersi contrapporre con proposte non marginali ma essenziali. Se non vogliono finire esse stesse fagocitate, proprio da quel vuoto.
 

                                                 don Piero Rattin - Trento

LETTERA A RADIO MARIA DI UNA DONNA SPOSATA CON UN MUSULMANO

 

Caro P. Livio,

..... Sono cristiana sposata in chiesa con un musulmano che milita nei “fratelli musulmani”. Tra di noi c’è affetto, anche se lui ha cercato troppe volte e con insistenza di farmi aderire all’islam, perché non vuole che finisca all’inferno. Discussioni a non finire sulla religione. Impossibile il dialogo! Troppa sofferenza nella mia vita per la diversità di fede e cultura.

Più approfondisco lo studio e la conoscenza dell’islam, più si fa roccia la mia fede in Gesù, Figlio di Dio e cresce il mio immenso grazie a Dio per il dono del battesimo! Mio marito ha imposto al figlio l’islam. Lo minaccia che se non segue la sua religione, non è suo figlio. Ma lui non pratica. Finge, e vive il dramma dei genitori con due fedi diverse. E intanto né studia, né lavora. È dipendente da internet e dai videogiochi. Un vero tormento quotidiano per me.

Da quando è nato prego con gemiti, lacrime, suppliche, pellegrinaggi, per la salvezza eterna delle nostre anime: di noi tre. Mi rifugio nella tenerezza e nella misericordia infinita del Padre nostro, e cerco di andare avanti come un piccolo niente nelle sue mani. E a volte mi scopro a gridare con il cuore: «Oh Dio, mio Papà, anche se mi uccidesse il dolore, io credo al tuo amore per noi tre, e so che ci salverai! Ma quando? Ecco, questo non si sa. Ma Lui già opera!

Prego, soffro, grido, amo! Poi mi rifugio sotto il manto della Regina della Pace. Sto aggrappata a Lei, Madre e Regina di casa mia. Persona viva, amica, mia luce, mia speranza, mio paradiso! Lei è la tutta bella! Lei è la mia stella!

Gli anni avanzano. Tengo gli occhi puntati al cielo. Bramo il volto di Dio, la Trinità Santissima , la vita eterna! Ma ciò non toglie le difficoltà del presente.

È un tempo difficile in cui mi chiedo perché ho sposato un musulmano. Lo amavo e non ho pensato ad altro. Si, più conosco l’islam, più vorrei gridare al mondo intero che il cristianesimo è l'unica religione vera. Poi mi trovo impotente in casa mia a farlo capire. Sembra un fallimento la mia vita! Ma chissà, forse Dio, quando lo vorrà Lui, farà germogliare qualcosa di bello: acqua zampillante di grazia nel cuore di mio figlio e mio marito, che amo e voglio felici per l’eternità. ...

Una sua ascoltatrice…

PER CONCLUDERE 

Sono vivamente sconsigliate le unioni matrimoniali di cristiani con musulmani. Infatti le difficoltà a cui si va incontro sono veramente  notevoli.