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Carissimi

Celebriamo insieme la Pasqua di Gesù. E’ il centro dell’anno liturgico, ma è anche la fonte di ogni altra celebrazione.
Coloro che hanno partecipato agli incontri quaresimali con il Cardinale hanno sicuramente ascoltato i continui inviti a celebrare con solennità la VEGLIA PASQUALE nella quale si condensa in sintesi tutta la storia della salvezza.
Vi invito tutti!!! A quella celebrazione nessuno deve mancare perché è la madre di tutte le celebrazioni. Faccio mio e quindi lo propongo anche a voi l’invito che sta in fondo al libretto che accompagnava i gruppi di ascolto dei martedì di quaresima con l’arcivescovo: “Dobbiamo avere il coraggio di proporre a tutti i cristiani della parrocchia di celebrare insieme la veglia pasquale… poi si partirà per le vacanze o per trovare parenti e amici. E’ un gesto coerente che tutti i parrocchiani, in particolare quelli che hanno preso sul serio le proposte quaresimali e le catechesi del martedì, compiranno certamente con gioia.
Faccio seguire una riflessione su alcuni momenti fondamentali del Triduo pasquale, utile introduzione ai vivere in modo più profondo le celebrazioni liturgiche.

Il volto di chi sta in mezzo a noi «come colui che serve»
Tengo sullo sfondo la narrazione di Lc 22,14-34; testo capace di condurci con immediatezza e profondità nel clima di quella cena di vigilia, cena di testamento, intenzionalmente programmata nell'imminenza di un congedo drammatico, quello della passione di Gesù. La celebrazione della Messa in Coena Domini trova in questo clima il suo contesto ispiratore.
Siamo colpiti da una rivelazione folgorante del Maestro («io sto in mezzo a voi...») proprio nel cuore d'una discussione mondana (su «chi è il più grande»). Ed è mondana proprio perché è ben lontana dal riconoscere il volto vero di Gesù; non è infatti quello di chi ha potenza e garantisce perciò i favori ai suoi fedelissimi. Il dibattito tra i dodici evidenzia una distanza grande tra Gesù e i discepoli, nonostante il contesto di straordinaria familiarità. È lontano dal volto vero di Gesù anche Pietro; lo pensa meno esigente, se presume di garantire con sicurezza la propria perseveranza (v. 33). E lo è soprattutto Giuda che ha ormai collocato altrove il proprio cuore; quel volto del Maestro gli diviene del tutto insopportabile.
I tratti del volto di Gesù vanno cercati piuttosto in altre direzioni,
sempre aiutati dal racconto lucano. Sono quelli che sottolineano come il Maestro sia colui che desidera una comunione vera: «ho desiderato ardentemente di mangiare questa Pasqua con voi, prima della mia passione...» (v. 15). È Lui che prega per noi, come ha fatto per Pietro: «ma io ho pregato per te, che non venga meno la tua fede», affidando addirittura a dei discepoli fragili il compito di aiutare i fratelli: «e tu, una volta ravveduto, conferma i tuoi fratelli» (v. 32). Soprattutto ha il volto di chi si mette a servire gli altri pur essendo lui il più grande: «chi è il più grande tra voi diventi come il più piccolo, e chi governa come colui che serve» (v. 26). Di fronte a un volto così rinasca una scelta di discepolato autentico; e si faccia strada sempre più nitidamente la libertà d'una consegna di se stessi umile e insieme tenace, propria di chi ha imparato a non presumere delle proprie forze e a confidare in Dio.

Il tema del volto potremmo vederlo attraversare l'intera liturgia del Giovedì santo. Sta sullo sfondo dell'accanimento ingenuo di Giona che si ribella al pensiero che Dio prenda a cuore gente come gli abitanti di Ninive («non sanno distinguere fra la mano destra e la sinistra»: 4,11) e non è disponibile a pagare di persona un prezzo di disponibilità e di fatica. Ispira il pensiero vibrante e profondo di Paolo: il volto di Dio che Gesù ci ha svelato non coprirà l'incoerenza di chi si trincera nell'osservanza delle tradizioni religiose e non rinnova il cuore e la vita («quando vi radunate insieme, il vostro non è più un mangiare la cena del Signore»: l Cor 11,20). È solo il volto inatteso e straordinario di Gesù che s'incammina nella sconcertante strada della Passione proclamata dal testo evangelico di Matteo a dischiuderci la buona notizia del Vangelo.

«Anche Gesù... patì fuori della porta della città (Eb 13,12)
C'è una sorta di progressione nella contemplazione nel ritmo della liturgia del Venerdì santo; le scansioni del rito pare abbiano al loro interno un invito ad avvicinare il più possibile il volto di Gesù che muore. È la seconda tappa del nostro meditare; mi piace immaginarla segnata dallo stupore con cui Giobbe corona il suo cammino di ricerca: «Io ti conoscevo per sentito dire, ma ora i miei occhi ti vedono» (Gb 42,5). Celebriamo l'incredibile condiscendenza di Dio verso di noi. Facendosi eco delle prime espressioni oranti della Chiesa delle origini, Paolo proclama la fede in Cristo Gesù «il quale, pur essendo di natura divina, non considerò un tesoro geloso la sua uguaglianza con Dio; ma spogliò se stesso, assumendo la condizione di servo e divenendo simile agli uomini; apparso in forma umana, umiliò se stesso facendosi obbediente fino alla morte e alla morte di croce» (Fil 2,6-8). Di questo facciamo memoria, riconoscendo nel volto di Cristo che muore il sigillo definitivo della benevolenza di Dio; il dono inatteso e straordinario che strappa dalle labbra del ladrone pentito l'invocazione che riscatta una vita sbagliata: «Gesù, ricordati di me quando entrerai nel tuo regno» (Lc 23,42). Questo volto perdente e sfigurato genera scandalo, tra i discepoli anzitutto. Gesù lo aveva predetto: «Voi tutti vi scandalizzerete per causa mia in questa notte» (Mt 26,31). Il suo manifestarsi avviene tra fughe e abbandoni («Allora tutti i discepoli, abbandonatolo, fuggirono»: 26,56), nel silenzio colpevole di chi si vergogna e segue lontano (26,58), nel rinnegamento esplicito dettato dalla paura di condividerne la sorte (26,69-74), solo attenuato dal pianto amaro del discepolo fragile e timoroso (26,75). Occorre avere il coraggio di riascoltare la Passione dalla parte del discepolo che ne ha paura e la fugge; del resto, è l'angolo prospettico più vero per noi. Diviene la condizione per comprendere tutta la drammaticità di quel perdere il volto di Gesù man mano che esso assumeva i tratti dello sconfitto e dell'escluso («non conosco quell'uomo», impreca e giura Pietro: 26,74).
Proprio in questa prospettiva però, scorgiamo il profilarsi di un vero e proprio 'miracolo' che ci dischiude a una conoscenza più profonda ancora del volto di Cristo. Questa fragilità il Signore la abita; non la disprezza, la assume. E il discepolo fragile e timoroso prova la gioia di sentirsi ugualmente guardato con amore; sa che il Maestro prega per lui («ma io ho pregato per te, che non venga meno la tua fede»: Lc 22,32), prepara il regno per coloro che perseverano nonostante le prove (cfr. Lc 22,28-29); soprattutto lo onora di una rinnovata chiamata alla sequela, come in quel «seguimi» ridetto a Pietro al termine della triplice confessione di amore (cfr. Gv 21,19).

Stare di fronte al volto di Cristo crocefisso, è la consegna del Venerdì santo. L'Autore della lettera agli Ebrei lo esprime con un'immagine suggestiva: «Usciamo dunque anche noi dall'accampamento e andiamo verso di lui, portando il suo obbrobrio» (13,13). Scegliere di abitare la croce di Cristo; non c'è sentiero differente per il discepolo, per chi si prende cura della fede dei fratelli. È una Parola che segna la vita di chi serve il Vangelo e lo riconcilia definitivamente con la propria inadeguatezza: «Dio ha scelto ciò che nel mondo è stolto per confondere i sapienti, Dio ha scelto ciò che nel mondo è debole per confondere i forti, Dio ha scelto ciò che nel mondo è ignobile e disprezzato e ciò che è nulla per ridurre a nulla le cose che sono, perché nessun uomo possa gloriarsi di fronte a Dio» (lCor 127-29).

Nel silenzio del sabato

C'è qualcosa di assordante nel silenzio del Sabato santo; attraversa le ore di desolazione in cui il corpo di Gesù è rimasto inerme nel sepolcro; attraversa i tragici silenzi della storia di ieri e di oggi, come quello davvero agghiacciante di Birkenau, accanto ad Auschwitz, dove il termine della rotaia per i treni dei deportati sembra penetrarti nel corpo e nello spirito come una parola che annienta.
Questo silenzio va però ascoltato, sino in fondo. Il meditare nostro, sullo sfondo dei testi della Scrittura e dei tempi celebrativi previsti o suggeriti dalla liturgia (come nella 'celebrazione per il mattino'), ci aiuta a comprendere che esso non è una sorta di spazio bloccato, di tempo interrotto. Nel cuore del discepolo, chiunque egli sia e in qualunque esperienza viva, possono accadere delle determinazioni che contano, si possono avviare dei passi che poi incidono in modo rilevante. Si può abbandonare Gerusalemme, per esempio, da delusi e sconfortati, consegnandosi ai discorsi tristi della strada (cfr. Lc 24,13, in cammino verso Emmaus). Non ascoltare il silenzio del sabato può indurre alla demotivazione, quasi convincendosi che 'la storia è finita'. La città appare estranea, incolore; luogo da abbandonare, comunque. Contiene solo ricordi, non è più uno spazio d'una esperienza viva. Quel morire del Maestro sembra aver cancellato tutto. E il silenzio del sepolcro fa soltanto paura. Ci si può anche irritare per l'amore che ha condotto Gesù fino alla scelta di perdere la propria vita, ritraendosi delusi e contrariati. Come Giona che non si dà pace nel vedere che Dio ha tempo e cuore persino per gli abitanti di Ninive; o come gli operai della vigna di cui parla la parabola evangelica «invidiosi perché il padrone (che chiama a tutte le ore dando a ciascuno l'identico compenso pattuito) è buono» (cfr. Mt 20,15). E il silenzio del sabato diviene davvero insopportabile; fino a usarne per giustificare la propria defezione. Si può anche cambiare disinvoltamente pagina, perché Lui tace e si nasconde nel silenzio del sabato. E collocare il cuore altrove, scegliendo tra le tante possibilità che la vita propone. Non si cerca più, non ci si rimette in cammino.
Se ci facessimo invece attraversare da questo silenzio di morte che si sprigiona dal sabato di Pasqua? La domanda è soprattutto un augurio; mi piace vederla porgere dai martiri di ieri e di oggi, dai testimoni fedeli, dagli innumerevoli poveri di spirito, dai piccoli e dai semplici che il Signore ci dà di conoscere e di amare. Sono tante le situazioni nel ministero che possono evocare il silenzio del sabato. In esse risuoni ogni volta la parabola pasquale con cui Gesù commenta la propria vita: «In verità, in verità vi dico: se il chicco di grano caduto in terra non muore, rimane solo; se invece muore, produce molto frutto. Chi ama la sua vita la perde...» (Gv 12,24-26). Paradossalmente il silenzio del sabato può trasformarsi allora in una nuova ragione per cercare il volto del Signore, con rinnovato slancio: «O Dio, tu sei il mio Dio, all'aurora ti cerco, di te ha sete l'anima mia, a te anela la mia carne, come terra deserta, arida, senz'acqua» (Sal 63,2).

«Mio Signore e mio Dio» (Gv 20,28): il riconoscimento definitivo
Costituisce un esito l'esclamazione commossa dell'apostolo Tommaso: «Mio Signore e mio Dio!» (Gv 20,28), dopo il dubbio, la paura, l'incredulità («non essere più incredulo, ma credente!» v. 27). Ha il tono dell'approdo definitivo anche l'invocazione accorata dei discepoli di Emmaus: «Resta con noi perché si fa sera» (Lc 24,29). Entrambi i rimandi ci aiutano a riconoscere dove conduce il sentiero dell'esperienza spirituale di chi celebra la Veglia pasquale; condotti dai grandi simboli cristologici che la strutturano (luce, parola, acqua, pane), siamo aiutati a riconoscerlo come il vivente, a proclamarlo Risorto anzi «mio Signore e mio Dio». Avvertiamo il manifestarsi di una Bellezza inattesa e insuperabile nel volto di Gesù risorto. Porta i segni dell'intero tragitto di Gesù di Nazaret; Tommaso è invitato a toccare i segni della sua drammatica passione («metti qua il tuo dito e guarda le mie mani; stendi la tua mano, e mettila nel mio costato» (Gv 20,27); nei riti inconfondibili della cena che fa memoria della vita donata i discepoli lo riconobbero («allora si aprirono loro gli occhi e lo riconobbero»: Lc 24,31). È a motivo di un volto come questo che ci siamo messi in cammino, decidendo di legare a esso la nostra vita.
Vorremmo continuare a rimanere in ricerca di questo volto; ci preme sapere nella vita «dove hanno posto il Signore» (cfr. Gv 20,2), per dirlo ogni volta a noi stessi e agli altri. I riti sembrano farci attraversare i grandi simboli di cui vive la Chiesa per aiutarci a riconoscere in essi i segni della presenza del Risorto. Nella luce, nella parola, nell'acqua, nel pane. Se decidiamo di dare la vita per il Vangelo e di ancorarci definitivamente a Gesù («stringendovi a lui, pietra viva, rigettata dagli uomini, ma scelta e preziosa davanti a Dio»: lPt 2,4), è necessario che il suo volto riveli la capacità di attrarci; quello della Pasqua, intriso di drammaticità e splendore, ci consegna una Bellezza che salva. È anche la grazia che invochiamo per questa Pasqua. E’ il mio più sincero augurio per tutti voi!

                                                                                                
Il Vostro Parroco
don Maurizio
 

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Ultima modifica: sabato 07 aprile 2001