ANNO C – 28 DOMENICA ORDINARIA Lc,17, 11-19

Dio è il Bene o un distributore di beni?

Liturgia penitenziale

Signore, tu ci riempi di doni meravigliosi, ma il più delle volte non ti ringraziamo. Signore pietà

Cristo Gesù, noi abbiamo ricevuto tutto da te, ma crediamo di averne tutti i diritti.: Cristo pietà

Signore, tu ci hai donato te stesso e noi facciamo fatica a condividere con altri la ricchezza dei tuoi beni:Signore pietà



Anche un bambino ci direbbe che il vangelo di oggi ci insegna a ringraziare.

E’ lo stesso Gesù a dirlo:”Non sono stati guariti tutti e dieci? E gli altri nove dove sono?” ma Gesù poi continua: “Non si è trovato chi tornasse a rendere gloria a Dio?”. Cioè, forse anche gli altri avranno detto grazie, ma solo uno ha capito che era Gesù il vero Bene.

Per Gesù, i miracoli non sono la cosa più importante. Quanti ne ha fatti e quanta gente non gli ha creduto e neanche detto grazie.

I 10 lebbrosi sono stati tutti guariti ma uno solo ha avuto la fede che lo ha salvato:”Alzati, la tua fede ti ha salvato!”.

Quante volte capita anche a noi: riceviamo un bene ma ci dimentichiamo di lodare e ringraziare Dio. Anche i 9 erano a loro modo credenti, altrimenti non avrebbero chiesto di guarirli, ma a loro non interessava Dio come Padre e unico Bene, ma solo come distributore di beni e di guarigioni, il che è molto diverso. Non si sono posti neanche il problema chi fosse Gesù; a loro interessava solo la guarigione del corpo e quindi hanno sciupato il grande dono della fede che solo uno ha ricevuto.

Troppi cristiani “credono” in Dio guaritore, tappabuchi. Quando non hanno problemi da risolvere, non si ricordano affatto di Lui. Solo quando si ha bisogno si ricorre alla preghiera, alla candela, alla chiesa, al prete. Questo è la poca fede di tanta gente.


Invece il Samaritano che viene a lodare Dio è il modello del cristiano come lo desidera Gesù che è venuto sulla terra a donarci se stesso come sommo Bene e non è contento fin che non lo cerchiamo e desideriamo come tale. E’ quanto abbiamo già detto domenica scorsa parlando della fede.

Proviamo a domandarci:”Cerco veramente Gesù Cristo come il mio Unico bene, l’amico, il Padre oppure come un distributore di favori, un guaritore e un tappabuchi?”

Come è diverso questa fede da quella che ci chiede Gesù:”Amerai Dio con tutto il cuore, l’anima, le forze, la vita” E siamo tutti invitati ad arrivare a questo livello di cristianesimo.

Perché? Potreste chiedermi. Ma perché Dio è il nostro Unico Bene, il nostro vero Padre, cui un giorno dovremo rendere conto tutti di come siamo vissuti. Altrimenti con che coraggio possiamo chiamare Dio solo se ci concede i beni che di volta in volta gli chiediamo, come un self-service?

Gesù è il vero e l’unico bene che il Padre ci vuole donare ed è venuto sulla terra per questo e non siamo cristiani fin che non capiamo questo!

2 lettura: S. Paolo ce lo spiega dicendo:”Se moriamo con lui, vivremo con Lui, se perseveriamo con Lui regneremo, se manchiamo di fede, Egli però rimane fedele”. Che vuol dire:

Sai che Dio è più radicato e presente in te di quanto tu non lo sia a te stesso? Sai che ti ama e vuole il tuo bene molto più di quanto tu puoi amare te stesso e cercare tutto il bene che vuoi?

Sai che il bene che Dio vuol darti non è solo quello materiale che dura poco, ma quello che non finirà ma e che nessuno ti potrà rubare, la sua amicizia, il suo amore, la tua salvezza eterna?”

Il nostro Dio non ci dimentica mai; tu puoi voltargli le spalle mille volte al giorno, ma egli andrà sempre ad aspettarti un’altra volta sulla tua strada di ogni giorno.

Per questo Dio è Dio: è questo il Dio che amiamo.


Inoltre non basta capire chi è Gesù, ma occorre scuotersi dal proprio peccato e camminare verso Gesù, se siamo lontani da Lui, per chiedere sempre aiuto e salvezza.

La fede non è un traguardo, una garanzia per star sempre bene, tranquilli e lontani dal male e neanche un soprammobile da lasciare lì, ma è un dono da coltivare continuamente nella vita, da far crescere con la preghiera, i sacramenti, è un dono da vivere tutti i giorni, non solo alla domenica a Messa, quando si va, nel bene e nel male, nella gioia nel dolore.

Inoltre la fede non ci libera dai guai della vita, ci sostiene, ci incoraggia anche quando tutti si disperano. Tanti santi, anche gente in mezzo a noi ne sono l’esempio!

Il lamento di Gesù ci ricorda che la riconoscenza, la lode a Dio è la miglior preghiera, perché è la più disinteressata, più gradita a Dio. Impariamo a ringraziare Dio per tutti i doni ricevuti, tutti i giorni;:l’esistenza, la vita, la salute, la famiglia il suo Amore, il perdono che Lui ci dà con abbondanza; specialmente alla sera prima di addormentarci.

Ricordiamo che i suoi doni, il tempo, salute, benessere, l’amore, il corpo, non devono diventare un ostacolo e un mezzo di male, come talvolta avviene, usandoli come vogliamo noi..

Facciamo allora attenzione quando diciamo nel Padre nostro:”Liberaci dal male”, specialmente quando il male è morale, spirituale e ce lo procuriamo noi stessi con il peccato.

Dio ci perdona ma solo perché ci correggiamo a nostra volta. Un po’ per volta la fede allora diventa così grande che riusciamo a considerare un bene ciò che per noi non lo sarebbe affatto.

E’ stato un bene la Passione di Gesù? Dal punto di vista umano è stato uno strazio, una grande ingiustizia, eppure da quella sofferenza siamo stai salvati perché era il segno di un grande amore.

Così la nostra sofferenza, può diventare un grande bene per noi e per gli altri se l’accettiamo con fede e Amore alla volontà di Dio. Pensiamo alla sofferenza di tanti che appunto con essa e per essa sono diventati santi.

Essere fedeli a Dio sempre, anche quando costa, quando si sanguina, quando è difficile.

Essere veri discepoli di Gesù: questo è il vero Bene che dobbiamo chiedere ogni giorno.

Cerchiamo che il Signore possa dire anche di noi:”La tua fede ti ha salvato!”.


PREGHIAMO

O Dio sono vivo, grazie a te.

O Dio, posso vedere, correre, toccare, piacere, sentire e provare, grazie a te.

O Dio posso gustare un cibo, un bicchiere di buon vino e una fetta di dolce, grazie a te.

O Dio, posso amare ed essere amato, donare attenzione, ascoltare il pianto, il sorriso, stringere mani amiche, accarezzare, condividere con gli amici, grazie a te.

O Dio, posso donare, sperare in un futuro ancora bello, mi è possibile guardare lontano anche alle cose impossibili, provare grandi gioie, grazie a te.

O Dio posso sbagliare, peccare cadere e ricadere, temere il male, essere da te perdonato e perdonare a mia volta, e ricominciare da capo, mille volte, grazie a te.

O Dio, tutto è dono tuo.

O Dio sono piccolo e tanto piccolo, ma mi sento grande perché tu sei mio Padre e mi vuoi tanto bene. Grazie, Signore!



Omelia del giorno 14 Ottobre 2007

 

XXVIII Domenica del Temo Ordinario (Anno C)

 

Gesù e i lebbrosi

 

 

Quanti insegnamenti possiamo trovare nell’episodio dell’incontro casuale di Gesù con i dieci lebbrosi, narrato nel Vangelo di oggi!

Sappiamo che fino a poco tempo fa i lebbrosi, per la loro malattia ripugnante, che si credeva, e ancora si crede, potesse essere trasmessa, venivano segregati in modo da non poter avere nessun contatto con i sani.

Dei veri ‘condannati’ all’emarginazione e solitudine, insopportabile per qualsiasi creatura umana che sente una vera sete di solidarietà e compagnia…tanto più quando ci troviamo in gravi difficoltà, di qualunque specie, ma soprattutto nella malattia!

Conosciamo tutti la grande passione dell’apostolo del nostro tempo, R. Follereau, che non si stancava di visitare i lebbrosari di tutto il mondo, facendo appello alla solidarietà di tutti, a cominciare dalle ‘grandi potenze’, che non pongono freni alla produzione delle armi, portatrici solo di morte, ma voltano le spalle a quanto invece è bene e può donare la vita, come guarire i lebbrosi.

Il suo scopo era duplice: ottenere che i malati di lebbra fossero curati come tutti gli altri malati, nel rispetto della loro libertà e dignità di uomini, e ‘guarire i sani’ dalla paura assurda di questa malattia e di coloro che ne sono colpiti.

Nacque così la Giornata dei lebbrosi, celebrata in 50 Paesi, diventata come un “immenso appuntamento d’amore”, che reca agli ammalati, più ancora dei considerevoli aiuti materiali, la gioia e la fierezza di essere trattati da uomini.

Lui, Follereau, vedeva in ogni lebbroso, non solo un fratello, ma Gesù sofferente, e non aveva certamente paura di farsi vicino, come ancora oggi avviene, grazie agli ‘Amici dei lebbrosi, in tanti luoghi dove esiste e si cura la lebbra.

La vera carità non alza mai ‘muri o recinti’, che dividono, ma si fa vicina, con la gioia di colmare l’angoscia che è nel fratello malato.

Nonostante la grande carità di molti verso i lebbrosi, oggi, nel mondo, ci sono ancora 15 milioni di fratelli colpiti dalla lebbra, il più delle volte vittime anche del degrado, della fame e della sete!

Fa male alla coscienza sapere che ‘loro ci sono’, ma si fa ancora troppo poco per ‘farsi vicini’, come Gesù.

Racconta l’evangelista Luca, oggi: “Durante il viaggio verso Gerusalemme, Gesù attraversò la Samaria e la Galilea. Entrando in un villaggio, gli vennero incontro dieci lebbrosi, i quali, fermatisi a distanza, alzarono la loro voce, dicendo: Gesù Maestro, abbi pietà di noi! Appena li vide, Gesù disse: Andate a presentarvi ai sacerdoti. E mentre essi andavano, furono sanati. Uno di loro, vedendosi guarito, tornò indietro lodando Dio a gran voce e si gettò ai piedi di Gesù per ringraziarlo. Era un Samaritano. Ma Gesù osservò: Non sono stati guariti tutti e dieci? E gli altri nove dove sono? Non si è trovato chi tornasse a rendere gloria a Dio, all’infuori di questo straniero? E gli disse: Alzati e va’; la tua fede ti ha salvato” (Lc 17, 11-19).

Se vogliamo allargare il significato di ‘lebbroso’, estendendolo a quanti per mille ragioni sono emarginati tra di noi, scopriamo che sono davvero tanti... allontanati, evitati, quasi condannati alla stessa solitudine, nel momento in cui avrebbero più bisogno di trovare chi si fa loro vicino con amore!

Penso ai tanti malati di AIDS, ai tossicodipendenti, a chi ha sbagliato, ai detenuti...e l’elenco si fa davvero lungo, tanto lungo.

Può essere capitato anche a qualcuno dei miei lettori, incappato in qualche errore, frutto di debolezza, l’essersi sentito ‘isolato’, perdendo amici, conoscenti, restando solo... ‘come un lebbroso da evitare’! E’ come morire.

Ho provato a trascorrere qualche giornata vicino ai malati di AIDS ‘terminali’: vere larve umane che ti guardano con un’immensa sete di attenzione, e basta uno sguardo, una carezza per farli come ‘rinascere’, ma il mondo è avaro di queste carezze.

Pesa su di loro, più che la malattia, l’ emarginazione, che li fa sentire ‘semivivi’.

“Come puoi ancora amare questa vita - mi dicevano - quando senti che ti manca il prezioso aiuto che è la solidarietà, ossia che qualcuno ti si faccia vicino e ti mostri tenerezza? Non solo non si riceve l’amore, in questo straccio di vita che ci rimane, ma ci si sente giudicati!”.

Con amarezza un mio amico, sentendo avvicinarsi la morte, così un giorno mi confidava: “Antonio, non mi rincresce morire. Essere soli, condannati dal proprio male, fa desiderare la morte. Non è la malattia che la fa desiderare, ma l’essere solo...come fossi già morto. Avevo tanti amici. Da quando hanno sputo che ho l’AIDS, attorno a me si è fatto il vuoto, come non esistessi più!

È una sofferenza più grande della malattia! Presto dovrò morire, ma questo non mi addolora, anzi! Ma ti prego alla mia morte non portarmi in Chiesa...non perché non ci credo, anzi! Ma per non vedere attorno alla mia bara quei cosiddetti ‘amici’, che si fanno vivi quando proprio non ce n’è più bisogno!”.

Fanno tanto male queste parole, perché dicono fino a che punto possa venir meno l’affetto, proprio quando è più necessario, come l’aria che si respira. È l’aria del cuore.

Chi del resto non ha provato questo ‘essere visto come un lebbroso’ da evitare? Basta un errore nella vita - e chi non ne fa? - e subito ci si ritrova soli!

Quante volte, come sacerdote, come vescovo, ho sentito la necessità di gettare le braccia al collo a persone disperate, perché emarginate, cercando di riportare un po’ di serenità, facendo sentire loro che non erano sole!

“Se vogliamo conoscere l’uomo - diceva il grande Paolo VI - dobbiamo conoscere Cristo crocifisso (lasciato solo dal momento della cattura nell’orto, fino alla crocifissione. Solo con pochissime persone che davvero Lo amavano: Maria, la Mamma, Giovanni, il discepolo che amava, e Maria di Magdala). Se siamo avidi di scoprire che cosa è l’uomo, dobbiamo sentire che questa tragica figura del Cristo proietta sopra di noi dei raggi, che ci dimostreranno davvero che cosa è l’umanità, cioè una vita decaduta e sofferente. È una vita ingiuriata, una vita flagellata, una vita crocifissa. Ci sono ancora cento mali nel mondo, e chi va cercando di smussare tutte le sue asprezze, chi va cercando una civiltà soffice e attraente, dalla quale manchino il dolore, la sofferenza, la fatica, è quello stesso uomo che cerca in se stesso i tormenti più gravi; è quello stesso uomo che si arma delle armi più micidiali e più terribili e le rivolge contro se stesso...Ecco l’uomo... C’è un autore moderno che, analizzando il dolore lo definisce ‘grande solitudine’, perché separa, scava abissi, è incomunicabile. L’esperienza della sofferenza, anche se è circondata da cure, è così singola, così personale, da essere incomunicabile, perciò inconsolabile, sotto un certo aspetto. È in quei momenti che si fa vicino, se crediamo e Lo preghiamo, il grande Fratello, Gesù: Colui che ha detto: “Venite a me, voi tutti che siete affaticati e aggravati, ed io vi darò sollievo”.

Gesù è il solo che non emargina, sa addossarsi le sofferenze qualunque siano, anche quelle che noi colpevolmente mettiamo fuori della nostra attenzione.

Sapeste quanta gioia si prova nel dare sollievo a chi vive nella disperazione di sentirsi ‘solo’!

Si racconta che un giorno il grande Follereau, l’amico dei lebbrosi, facendo il giro dei lebbrosari del mondo, alla fine visitò l’ultima comunità. ‘Non ho più nulla da darvi - disse - Mi è rimasta solo la grande passione per ciascuno di voi, la gioia di stare con voi’. 1200 lebbrosi si consultarono e uno si fece avanti e chiese ‘un dono’: stringergli la mano. Rimase sorpreso, Follereau, per quella richiesta, per lui davvero ‘piccola e spontanea’. E così strinse le mani di tutti. Dopo una settimana ricevette una lettera dei lebbrosi che lo ringraziavano così: “Grazie, amico, il profumo della tua affettuosa condivisione è rimasto nelle nostre mani. Per questo, dal nostro incontro, non le abbiamo più lavate, per risentirlo ogni giorno”.

Odorare ‘quel profumo’ era come sentire il profumo della vita. Così è verso quanti di noi sanno farsi solidali con chi la società ‘bene’ emargina...

Follereau, che aveva fatto 66 volte il giro del mondo, tentando di coinvolgere tutti in una battaglia, che poteva e può essere vinta, così scriveva in un messaggio nel 1966:

“Amare non è solo dare al povero qualcosa del nostro superfluo, ma ammetterlo nella nostra vita.

Bisogna riconoscere con coraggio che con degli alberi di Natale non si risolverà la questione sociale, né il problema della fame e della lebbra.

Il povero, il perseguitato, il malato, ha una sete confusa di ritrovarsi, di avere coscienza che è un uomo come gli altri e che ha il diritto di vivere e il dovere di sperare.

Non accontentarsi quindi di lasciargli cadere in mano l’offerta, ma condividere la sua sofferenza, la sua ira, i suoi desideri, ed ammetterlo alla conoscenza dei nostri sentimenti: questo vuol dire amarlo...

Che il buon Dio ci dia delle noie, se queste noie ci conducono sul cammino dei nostri fratelli.

Che ci faccia la grazia di essere angosciati dalla miseria universale, in modo che noi, gente terribilmente felice, possiamo chiedere scusa della nostra felicità (se l’abbiamo), imparando così ad amare”.

 

Antonio Riboldi – Vescovo –


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