Terzeto
     

Corri Renzino che ti fregano il campanello! La sollecitazione fa effetto e Renzino se ne va alla disperata per tutta la lunghezza del paese, dalla chiesetta di San Rocco fino alla Val del Molìn e ritorno, inseguito ma non raggiunto da una masnada chiassosa di coetanei. La scampanellata imperiosa scompone le quiete attività della sera, entra nelle case, nelle stalle, nei cortili, negli orti dove qualcuno ancora si attarda a curare fagioli rampicanti o folti cespi d’insalata. Quella di Renzino gambasvelta sembra avere tutto l’aspetto di una bravata, frutto veniale dell’esuberanza giovanile, invece no . Al tempo di cui si parla, la scampanellata annunziava l’inizio imminente del terzéto. Una ricorrenza giornaliera che cominciava al crepuscolo, in quel momento vagamente misterioso della giornata nel quale il giorno cede pigramente le consegne alle prime ombre della sera. Era una cerimonia religiosa ripetitiva, perfettamente ritualizzata, che si svolgeva, almeno nel ricordo di chi narra, quando il tempo mite rendeva spontaneo concludere la giornata nel segno della preghiera. Non è difficile fingerci partecipi della cerimonia; seguiamo dunque con discrezione la celebrante, Gigia dell’Angela, mentre esce dalla sua casa. Minuta, eternamente nerovestita, affonda entrambe le mani nelle capaci tasche della gonna, stringendo il rosario nella destra e la chiave della chiesetta di San Rocco nella sinistra. Cammina a testa china, facendo attenzione alle asperità della strada sassosa e risponde con misura ai saluti delle comari che, sedute sui gradini di sasso davanti alle case, sferruzzano velocemente punti diritti e rovesci, facendo penzolare dai lunghi aghi calzini e maglie per il prossimo inverno. Qualche volta, ma raramente, si ferma a scambiare due parole con la Carmela Pìzzola che, ditale al dito medio, rammenda ripetutamente e ostinatamente i calcagni delle grosse calze da montagna, dopo avervi inserito in funzione di contrasto all’ago che va e viene, un grosso uovo di legno. Al passaggio della Gigia si quietano le burrascose partite a  bandiera giocate dai bòci che la seguono litigando sottovoce nel breve percorso fino alla chiesa. A porta aperta, il più svelto si accaparra il campanello e, tra le proteste e le ingiurie dei compagni, parte di gran carriera come già s’è detto scuotendo la suoneria per tutta la lunghezza del paese. La Gigia, nel frattempo, accende due candele e, provvista di un secchiello di rame, attinge acqua alla fontana che dista pochi passi ed è sistemata proprio dove comincia la strada in discesa che, attraversato il minuscolo ponte che valica il Rio Solo, congiunge al paese le tre case dei Caròtti. I fiori che profumano davanti alla statua di San Rocco sono sempre freschi e la preparazione della celebrazione del terzéto è proprio il momento giusto per cambiare l’acqua dei vasi. Non lasciamo soli i gruppetti delle comari che, abbandonati i lavori a maglia sui gradini delle scale, si appressano al luogo dell’appuntamento chiacchierando del più e del meno. Non lasciamo soli neppure i giovani e le ragazze che, nel breve percorso, si disputano il privilegio di tòr su , che significa proporre al momento giusto la giusta intonazione dei canti che sottolineano i momenti importanti della celebrazione, e nessuno pensi che si tratti di cosa facile perché a intonare troppo alto rischi di strillare rendendo ridicole le voci maschili, così come l’intonazione troppo bassa rende ridicole le voci femminili. Il Mario, che ricopre con pieno merito il ruolo di capo-coro, si è comprato un diapason e non sbaglia mai; in un paese che ha il culto del canto, religioso o popolare che sia, chi sbaglia viene deriso per una settimana. Seguiamo con discrezione anche alcuni compari, gente rude di età matura con la faccia e le mani screpolate dal sole,  dal vento e dal lavoro; stanziali che lasciano il desco del calzolaio, la pialla e la sega o la zappa per il riposo e la preghiera. Il terzéto è, per le comari, una preparazione dello spirito al piacere della cena in famiglia, al silenzio e al riposo della notte; per i compari, un rito che legittima con la sua sacralità la conclusione del lavoro liberando da sensi di cattiva coscienza chi lascia fino all’indomani pialla, zappa e trincetto; per i giovani, infine, un’occasione aperta all’incognito della sera che, per fortuna, è ancora lunga e nasconde opportunamente i propri misteri.

Dall’avvertimento del campanello all’inizio del rito trascorre almeno un quarto d’ora e, per colmare l’attesa, il narratore ha provato senza successo a chiedersi quale sia mai l’origine del nome curioso di quest’assemblea. E’ un vero peccato che fallisca l’idea che si tratti di una celebrazione imparentata con le ore canoniche di medievale memoria che scandivano le giornate dei monaci e hanno nomi tanto affascinanti quanto misteriosi: hora tertia, sexta, nona, vèspera, compièta. Hora tertia sarebbe stata generatrice perfetta del termine terzéto, non fosse per il fatto che riguardava il periodo che va dall’alba a mezza mattina e, per contro, compièta, che si celebrava dopo il tramonto non assomiglia per nulla a terzéto, pur svolgendosi alla stessa ora[1]. Meglio per il narratore abbandonare oziose ricerche etimologiche perché, nel frattempo il gruppo si è radunato, parte nell’angusta cappella, e parte appena fuori dalla porta, forse per godersi il fresco sotto le spesse foglie dell’ippocastano che, per conto suo, si gode il fresco dell’acqua che trabocca dalla vasca della fontana.

La minuscola campanella di San Rocco balbetta pochi rintocchi ammonitori nei confronti degli eventuali rarissimi ritardatari. Quando la campana zittisce, subentra un breve silenzio ed il raccoglimento che precede la preghiera viene per così dire sacralizzato dalle voci della natura: la brezza che non manca mai a quest’ora della sera, la voce impertinente di una capretta, il getto perpetuo della fontana e, più lontano, l’eterna canzone dell’Astico.

La Gigia sgrana tra il pollice e l’indice le prime perline di vetro scuro del rosario: sono cinquanta Ave, interpolati alla scadenza di ogni decina, da Gloria e Pater, e dalla denuncia dei sacri misteri recitati con voce commossa e con qualche brivido di incertezza dalla sola Gigia che funge da celebrante. Incertezza perché è proprio un mistero trovare la chiave per ricordarsi se oggi che, non vorrei sbagliare, dovrebbe essere mercoledì, si tratti di misteri gloriosi, gaudiosi o dolorosi; no, dolorosi non dovrebbe essere perché sono sicura che si recitano di venerdì. Per fortuna arriva di soppiatto il suggerimento della Maria del Frànzele a salvare la situazione. Signoredio perdonatemi, pensa la Gigia, ma se si sbaglia regolarmente Don Arcangelo, potrò ben sbagliare io che sono vecchia.  Ave Maria gratia plena… chi è che tossisce in fondo alla panca … Ave Maria gratia plena… è la Rosina, riconosco la voce; miele con latte caldo, è quello che ci vuole… Ave Maria gratia plena…è l’umidità della sera quella che fa male… Ave Maria gratia plena…domani sveglia di buon’ora: si va per farlèto… Ave..; ohilà, sosta tra i grani del rosario …Gloria al PadreGloria…Nel secondo mistero glor..no..gaudioso si contempla…Pater noster…

Ave e Gloria si mescolano ai monologhi interiori senza perdere nulla della loro sacralità. Le parole, anche quelle incomprensibili, assopiscono i significati nel mare di un tempo che si sincronizza con quello della valle e assomiglia per quanto possibile all’eternità. Magie della preghiera.

Adesso le litanie. Nessuno ha carte o foglietti in mano: a forza di ripetere, ripetere per anni, per secoli, le cose si imparano per forza a memoria come dice il maestro Gigi. Kyrie eleison… chissà cosa vuol dire, no questo è un pensiero che solo a un malizioso come al narratore può venire in mente: che importanza ha un significato quando si celebra un mistero; Christe eleison… il dubbio non abita tra il popolo del terzéto, ripetiamolo dunque assieme, ripetiamo all’unisono: Christe audi nos … il mistero delle parole è sacro e il sacro è mistero, verità assoluta quod sempre, quod ubique, quod ab omnibus creditum est. Prosegue senza sosta il fascinoso ritmo delle reiterazioni: una nebbia nella quale si annega il senso del tempo che diventa l’eternità dell’acqua che scorre sul greto dell’Astico. L’abbiamo già scritto, ma è bello ripeterlo.

Santa Dei genitrix…, mater admirabilis…, risuona corale il bel latino della Chiesa che custodisce la grandiosa intonazione di ciò che appartiene alle cose divine e, nell’infinita, ipnotica sequela delle invocazioni, ciascuna delle quali merita il corale ora pro nobis , poco importa, come s’è detto, che siano comprese le parole che, anzi, sarebbe proprio la loro comprensione a demitizzarle spostandone la valenza verso il sapore insipido di ciò che è consueto.

Non sembri sacrilego a questo punto che il narratore ricordi un paio di episodi autentici che servono tra l’altro a ricordarci come sacro e consueto vivano commisti nella nostra natura. Aldo, che ha conseguito ottimi risultati frequentando le scuole medie di Thiene, incaricato della recitazione in occasione di una rarissima assenza per influenza della Gigia, ha interpolato una sera per burla tra le litanie, inserti fantasiosi che simulavano nomi di santi, e così sant’omonimo, sant’anonimo, san sinonimo, san pseudonimo hanno meritato incondizionatamente un convinto ora pro nobis.

Ancora più ardito l’episodio di cui è stato protagonista Toni Gùdi che, perdute tra il fiume delle litanie le orme del sacro, sembra concentrarsi sacrilegamente sui polpacci muscolosi della bella Ida inginocchiata proprio davanti a lui. Non sembra tuttavia esserci malizia nel suo sguardo, anche se la sua testa appare eccessivamente china nell’atteggiamento della preghiera. Se la natura avesse predisposto gli occhi sulla nuca, anziché sulla fronte il suo sguardo sarebbe rivolto al cielo o quantomeno al soffitto della cappella e nessuno potrebbe imputargli eventuali pensieri suggeriti dal demone meridiano della lussuria, sospetto a prima vista assolutamente legittimo. Che ti fa invece quel libertino: allunga la mano e le sue dita sembrano pizzicare la pelle dell’Ida che lancia in silenzio un manrovescio sul braccio dell’indiscreto. Sia ben chiaro che, nella devozione generale, solo il narratore ha potuto tenere sotto osservazione la manovra descritta, manovra che avrà più tardi una soddisfacente spiegazione.

E’ con uno spontaneo sospiro di soddisfazione che parte la sequela dei roboanti genitivi plurali con i quali le litanie latine ritmano nel frattempo la loro fase conclusiva: salus infirmorum,… la Rosina non tossisce più che sia merito di San Rocco? refugium peccatorum,… litania probabilmente a consolazione e conforto del Toni Gùdi peccatore…, regina pacis. E’ quasi finita. Mancano giusto tre Agnus Dei…Il tempo per un ultimo sospiro. Dall’ultima panca la vocina di Alice intona – sembra alla giusta altezza – l’inno di chiusura.

Bella tu sei qual sole,

bianca più della luna

e le stelle le più belle,

non son belle al par di Te,

non son belle….

Il popolo del terzéto sfolla intingendo le dita nel bacile dell’acqua santa; se ne va, stavolta più compatto, disperdendosi progressivamente lungo le case del paese. La Gigia spegne le candele e chiude a chiave San Rocco nel silenzio della cappella. Se ne torna a casa ultima e sola, le mani sprofondate nelle tasche della gonna: a sinistra le chiavi, a destra il rosario. I bambini si giocano a nascondino quanto resta della luce del giorno e il narratore insinua provocatoriamente che anche i giovani facciano, più o meno, la stessa cosa. La Ida fa la sostenuta mentre il Toni Gùdi le fa cenno di fermarsi. Sono in piedi entrambi davanti alla vasca della fontana. Toni sfrega ostinatamente tra loro pollice e indice della mano destra e poi immerge per un po’ la mano nell’acqua gelida; guarda la Ida sfoderando un sorriso di sfida e poi lascia cadere una grossa pulce tramortita sul palmo della sinistra. Ida capisce il perché del pizzicotto e lo assolve con un sorriso: non c’è paragone tra il pizzicotto di un uomo, per giunta niente male come il Toni, e quello di una pulce. La morale è salva. Il cielo promette per domani una bella giornata.


 

[1] Qui viene in aiuto l’autorevole voce di Don Giacomo che chiarisce come il termine “terzéto” nasca dal fatto che si recita un terzo del Rosario che, nella sua interezza, è composto dalla recita di 150 Ave Maria.

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