Un po' di storia
     

Tu mi tassi? Ed io non ti pago…

Presentando su queste colonne alcune pagine tratte da quel grande libro della storia del nostro paese costituito dall’archivio parrocchiale, abbiamo più volte accennato alla plurisecolare lotta tra alcune famiglie di Scàlzeri, alle quali subentrò poi il Comune, e Luserna, per il possesso di una cospicua fetta del pendio del monte. Sappiamo che la contesa fu aspra, anche sanguinosa, ed il verdetto definitivo fu a nostro favore.

          Vogliamo ora accennare ai contrasti che vi furono tra i lusernati e la chiesa-madre di Brancafóra.

          I primi abitanti stabili di Luserna provenivano da Lavarone e dovevano pagare alla nostra chiesa un affitto che concorreva al sostentamento dei religiosi. È logico che col tempo essi avrebbero voluto rendersi autonomi cercando di non pagare più questi balzelli.

          Una lettera del 28 agosto1848 (Arch. Parrocchiale Teca 8) ci dà testimonianza di questa loro volontà e dell’incredulità provocata nel povero parroco di Brancafóra, messo di fronte alle loro pretese.

 

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Imp. Reg.o Giudizio di Levico

 

Questa Canonica in forza d’Investitura tiene il diritto di percepire la decima di tutti i prodotti che crescono nella campagna di Luserna, non meno di un livello di troni 9 annui del Tirolo, e della  prestazione di un annuo capretto, diritto che fu sempre riconosciuto senza alcuna opposizione, tranne che il livello e la prestazione del capretto nei due ultimi anni 1846, 1847.

 

La Rappresentanza Comunale di Luserna presentandosi in questa Canonica il dì 20 agosto si dichiarò vocalmente in faccia allo scrivente di non pagare, né decima o livello né prestazione in  avvenire a questa Canonica, non riconoscendo sufficienti e obbliganti i diritti vantati dalla  Canonica di Brancafora, e quindi essere risoluta a non riconoscere tali diritti se prima non  sieno definiti con legale sentenza.

 

Lo scrivente in sulle prime riteneva tutto a scherzo, o almeno a delirio quanto esternava in sua Canonica la suddetta Rappresentanza; ma ritenuto che si diceva sul serio, e con persuasione  non sa poi se dritta o storta, si fa dovere di (…)igliare a cotesta Rapp. Reg Carica la presente istanza interressandola a voler quanto prima invitare in Codesto Rapp. Reg. Ufficio la ridetta Rappresentanza Comunale a dichiararsi su questi punti che irragionevolmente vuol contrastare, e a diffidarla intanto alla corresponsione della decima giusto il costume praticato, e alla  rifusione dei due livelli, e della prestazione dei due capretti.

 

Trattandosi che l’affare è di somma entità richiede però la più possibile evasione, di cui non  dubitando lo scrivente si protesta con tutta la stima.

 

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          Seguono il breve elenco delle dieci famiglie di Luserna che pagarono il dovuto, quello delle ben 56 famiglie che invece non vollero pagare, e quello delle sei donne nubili e vedove giustamente esentate dalla tassa con le parole “Queste non pagano il curato di Luserna - manco pagheranno il sacristano di Brancafora”.

          A prima vista il fatto sembra avere una spiegazione univoca: i lusernati, un po’ avari ed un po’ evasori fiscali,  senza apparente motivo non volevano più versare la decima al nostro Arciprete, il quale ne aveva tutto il diritto e sarebbe stato in grado di comprovarlo.

          Oggi siamo portati a ragionare in maniera riduttiva e semplicistica, oserei dire quasi “calcistica”: di qua i nostri, i buoni, di là gli altri, i cattivi che dobbiamo sconfiggere. Come in una partita di calcio vediamo solo le mancanze della parte avversa, senza essere obiettivi.

          Così, leggendo la lettera sopra esposta, quanti avranno pensato: “Che birbanti questi lusernati a non voler riconoscere i diritti del nostro povero parroco…”, tuttavia la realtà a volte è più complessa di quanto non sembri a prima vista.

          Quando nel 1780 Luserna, staccandosi da Lavarone, divenne Comune autonomo, si vide assegnata una piccola quota di territorio assolutamente non proporzionata al numero di abitanti. Lavarone oltretutto si riservò la porzione più produttiva, rosicchiando anche la ricca zona di “Milegróve”, cosicché i lusernati non avevano quasi di che sopravvivere. Non dimentichiamo la cronica carenza d’acqua che limitava il numero dei bovini che essi potevano allevare, e la perdita della causa con Pedemonte, con il conseguente divieto di pascolare le pecore sul “Pra vècio”, di raccogliere erba sull’ ”Aron” e sulla “Forzèla”, e di tagliare piante lungo tutta la fascia di confine, dal “Rotòrto” alla “Val gròssa”.

          Per chi stentava a sbarcare il lunario certo dovevano pesare anche quei capretti e le altre spettanze “di somma entità”. Per contro il parroco di Brancafóra era certamente un privilegiato: godeva infatti di molte rendite e, qualora ne avesse avuto il desiderio, avrebbe sempre potuto coltivare direttamente una parte del  Maso”.

          Forse più del mancato introito al nostro Arciprete bruciava la sfida che sempre più insistentemente gli veniva lanciata da Luserna, anche ad opera del curato che mal sopportava i legami con il suo diretto superiore. Gli attriti duravano già da un paio di secoli e sarebbero durati almeno fino al 1904, quando Luserna divenne una curazia autonoma.

          Gli anni che precedettero la Grande Guerra videro l’organizzazione tedesca Volksbund  e quella italiana Lega Nazionale impegnate in un duro scontro per la supremazia della rispettiva etnia nel Trentino sud-orientale, e neppure il clero rimase del tutto impermeabile al conseguente clima di aspra contrapposizione che coinvolgeva emotivamente gran parte della popolazione. Ne fa fede anche una lettera del 12 febbraio 1885 (Arch. Parrocchiale Teca 7) nella quale si narra che l’Arciprete Don Giuseppe Svaldi convocò il novello curato di Luserna per comunicargli l’obbligo a partecipare alle funzioni religiose nella chiesa-madre, secondo i  termini previsti da una tradizione antica: i tre ultimi giorni della Settimana Santa, al Corpus Domini, all’ Assunta, alla Madonna del Rosario, a Pasqua ed a Pentecoste. Il curato di Luserna non ne volle sapere e si giustificò semplicemente dicendo: “… perché noi tedeschi siamo indipendenti”.

          Con questa lapidaria frase egli aveva spostato i termini del contendere dall’ambito strettamente ecclesiastico a quello socio-politico, e fu una mossa vincente.

          Oggi tuttavia non possiamo giudicare  troppo severamente quei passati eventi, ed il desiderio di affrancarsi da Brancafóra non può che essere visto con approvazione. Questa fu infatti la strada seguita anche da altre comunità valligiane con le quali siamo rimasti in fraterni rapporti: Ponteposta, Lastebasse e Casòtto. Pur dovendo censurare il comportamento a volte palesemente illegittimo di alcuni lusernati,  non possiamo nascondere un senso di simpatia per quei montanari tanto poveri e poco avvezzi alla diplomazia, quanto orgogliosi e risoluti a preservare la propria (che dovremmo sentire un po’ anche nostra) identità culturale.

Alberto Baldessari

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