Siccità
     

Qualche anno fa mi venne la voglia di scrivere qualche schizzo di vita paesana, ambientato negli anni della mia infanzia, ossia dal '30 al '40 dello scorso secolo. Ho scritto sette otto racconti e poi mi sono sgonfiato, malgrado le sollecitazioni dei miei figli. Mi hanno sollecitato a mandartene uno che si inquadra bene nella pazzesca situazione climatica che ha caratterizzato l'inverno scorso e la primavera presente.

 

Estate. Qui, in valle, l’erba cresce quando Dio manda la pioggia. Quando questa, per volere, o per dimenticanza di Dio, latita anche per poco, il terreno, per metà humus nero e grasso, per metà sassi, assume uno strano colore a mezza via tra il giallo e il marrone. Se poi si alza il vento, nuvole di polvere migrano a caso, dove l’aria vuole. La portata del fiume, l’Astico, diminuisce a vista d’occhio. E’ la generosità dei valligiani a chiamarlo fiume, almeno qui in valle, dove è poco più che un torrentaccio nervoso e incostante. Diventerà fiume in pianura e passerà tra i campi pieni di pannocchie di granoturco che, con la miseria che corre, suggeriscono sogni fatti di polenta e formaggio. Il cielo è limpido giorno e notte per giorni e notti e nelle case, di sera, o nelle stalle cominciano discorsi che, qui in valle, sono noti da secoli sulla carestia ed altri, nuovi, sulle dieci piaghe d’Egitto, discorsi dei quali si è venuti a conoscenza durante le letture bibliche tenute dalla zia Ambrogina in sacrestia al vespero della domenica. Per fortuna le vacche sono in montagna ai freschi, beate loro, che qui si crepa di caldo e di sete.

Primi in assoluto a sospendere la produzione sono i prati dei Mechi, su nella valle, pardon, nella valletta del rio Solo. Prati neanche tanto piccoli, s’intende in relazione alle dimensioni più che modeste della geografia locale. Prati strappati alla montagna per necessità e perché così vuole il destino, con sudore e dinamite. Sassi enormi da distruggere. Un’epopea. Guardatevi la Dina, impolverata come il Giuliano panettiere. Siede per terra e tiene il ferro con tutte due le mani appoggiato al masso e lo gira un poco ad ogni mazzata del Bepi. La mazza arriva dove deve arrivare; i temi della paura e della fiducia non si pongono, e non è timore il tremito delle mani nude sotto la violenza del ferro. Se gli echi della valle si sommassero alle mazzate, questo maledetto fornello da mina nascerebbe nella metà del tempo. Schizzano attorno schegge, scintille, imprecazioni ed equilibranti giaculatorie. Soste rare per una sorsata d’acqua fresca dalla borraccia di zucca. La carica, maneggiata con cautela, (scommetto che è quella che ho fregato l’anno scorso nel tunnel della Bissorte), entra di misura nel fornello. Finalmente. La Dina si alza, si toglie il grembiule e lo sbatte contro il masso impolverato quanto il grembiule, polvere più, polvere meno, chi se ne frega: è l’abitudine. Si lava gli occhi versando l’acqua in una mano, la zucca nell’altra. Quando la mina è pronta, il Bepi tira due urlacci di avvertimento diretti ai poco probabili transitanti, chi vuoi che passi in questa valle di Giosafatte, le mucche no, che quelle, beate loro, sono ai freschi. Miccia corta, cristo, che la miccia costa; Bepi sfrega il “fulminante” su un sasso, si accende la cicca e passa il fuoco alla miccia. Gambe levate, vietato inciampare.

Così per mesi. E quando tutto è spianato, a guardarlo è quasi fosse neve tant’è bianco: marmo e silice. Un prato questo?

Tra due anni si finisce, proclama il Bepi. Manca ancora la terra, quella buona, quella scura che, per fortuna, è presente in abbondanza, si fa per dire, sullo stramazzo di una cascatella in secca da millenni, dieci metri più in alto su uno strapiombo di roccia. Il Bepi dritto sullo strapiombo assomiglia a San Giuseppe che levita tra terra e cielo. Butta in basso a ritmo cronometrico palate di terra e la gioia per il lavoro che è avviato a conclusione, cosa sono mai due anni, lo fa cantare: “oh boscaiolo/ il sole sta per tramontar/ lascia il lavoro/ torna al tuo casolar/. Con l’ascia in spalle/ così cantando torni tu/ discendi a valle/ verso il tuo amor laggiù”.  La terra scende lentissima, come il tempo quassù; galleggia sull’aria quasi fosse priva di peso, si distribuisce su una superficie amplissima e si posa infine dove conviene. Ultima fatica, rete di rogge per l’irrigazione. Fatica inutile, che il rio Solo non conosce mezze misure: spavaldo per mezza giornata, misero per mesi e le rogge saranno ottime per risolvere poco probabili problemi di alloggio delle vipere. Scaviamo le rogge senza protestare che, tanto, il Bepi non transige.

Tornando al problema della siccità che si è perso momentaneamente nei meandri del racconto, conviene lasciare al suo destino la valletta del rio Solo che ormai si è ridotto ad una sorgente miserella dove ci si dissetano i rari passanti dopo aver eliminato con un rametto quelle creature acquatiche lunghe e sottili che qui vengono chiamate “bevarlini”. Guardiamo con una stretta nel cuore l’erba, della quale sopravvivono a stento le radici che perfino le capre disdegnano, andando a cercarsi il cibo tra i cardi spinosi nel sottobosco tra le balze rocciose. Le capre in questa stagione sono le uniche fornitrici di latte; le pecore, in valle, sono praticamente sconosciute e le mucche, meglio chiamarle vacche che qui così sono chiamate e senza nessun dispregio, quelle si godono, beate loro, il fresco degli altipiani, dove l’erba non manca neppure quando il cielo è avaro di pioggia (se la storia delle vacche in villeggiatura l’avevamo già detta, ci si perdoni, è un peccato veniale che commettiamo quasi con piacere). Ed eccolo spiegato il vero problema della siccità che, sacramen, si presenta testardo proprio nella stagione nella quale è necessario accumulare il fieno per l'inverno. Se l’erba crescesse in autunno, per esempio, il problema della siccità scomparirebbe, ma a pensarci bene nascerebbe in compenso quello di far essiccare l’erba, certo è che bisognerebbe saperci fare come quel personaggio della Bibbia, come diavolo si chiama che l’Ambrogina ce lo ha spiegato domenica al vespero, ma si, quello che fermò il sole per poter finire il suo lavoro. T’immagini, fermare il sole sopra Boscoscuro fino all’ora del terzetto, una pacchia per le vigne della riva, che a fine settembre restano senza riscaldamento tra le due e le tre del pomeriggio. Se rinascessimo vigne, noi uomini intendo, ma questo è un pensiero che è meglio non far sapere a Don Arcangelo, evitare a tutti i costi la val d’Astico; scegliere la pianura o l’altipiano dove, scusate se la narrazione insiste, a quest’ora le vacche riposano ruminando e quando ruminano, pensano. Che pensino sono sicuro, anche se credo siano pensieri gravi perché non sorridono mai. Mai visto una vacca sorridere.

La zia si è arrampicata sul Mendarle a verificare le condizioni di un altro prato strappato con i denti alla montagna, un prato del quale tutti ricordano la meraviglia quando Giustino portò a casa un sasso che, spaccato da un colpo di mazza, si era suddiviso in due scaglie e su una compariva in rilievo, perfettamente delineato il numero 42, nel quale il suo fatalismo, e forse non solo il suo, lesse l’anno della morte. La sua fidanzata invece, e forse sta qui una delle differenze tra uomini e donne, previde invece l’anno della fortuna. Né uno né l’altra ebbero ragione, ma bisognò aspettare per saperlo.

Siccità, valle stretta, vita dura, malattie endemiche, pellagra silicosi o peggio e chissà quant’altro. Siamo poi così sicuri che il mondo sia organizzato bene come ci si dice. Questo però è meglio non dirlo a Don Arcangelo. Se il fieno manca, le donne si rimettono alla volontà di Dio; gli uomini, quelli che ci sono perché la maggioranza lavora all’estero in miniera e, di tornare, se ne parla a novembre, imprecano e non vedono l’ora che venga la sera perché si beve, si bestemmia e si dimentica in compagnia.

Una speranza segreta, anche se fragile, sopravvive in fondo al cuore: questa speranza sono i prati dei Carotti. I Carotti, è bene precisarlo, non sono i proprietari dei prati: si tratta del nome espresso al plurale di tre case che li sovrastano, frazione di una frazione del paese. Statisticamente parlando, la loro resa (si parla dei prati naturalmente, non dei Carotti) risulta estremamente variabile; di brutali tradimenti, tuttavia, non se ne ricordavano neppure i più anziani. Il guaio è che, negli anni di magra come questo, Don Arcangelo, per mettere d’accordo  la gente su una corretta suddivisione della poca acqua a disposizione, doveva far ricorso ai concetti cristiani di una difficile solidarietà. Discorsi difficili, appunto.

Pace nei cuori dunque e mettiamo subito in funzione la rete delle rogge che, oltre che distribuire l’acqua, delimita anche i confini delle proprietà dei prati. Canalizziamo e parcellizziamo il flusso con le “vampadore”  (così si chiamano le saracinesche in legno, accurata realizzazione della falegnameria del Menego Solandro). Qualche discussione è utile quanto basta per disciplinare i tempi di utilizzo dell’irrigazione nelle varie proprietà. Non scandalizziamoci  se, a volte, alla concordia necessita il contributo delle consuete, cattolicissime bestemmie, regolarmente controbilanciate, come già si è detto, dalle giaculatorie delle comari nerovestite presenti. Gli uomini consultano gravemente enormi Roskoff a dieci rubini, appesi alla cintura con proporzionate catene di metallo e decidono il numero di bicchieri di vino che dovrà saldare l’accordo già consacrato. L’acqua, anche se magra, scorre e luccica tra l’erba arsa che sembra rinvigorire a vista d’occhio. Si starebbe tutta la vita a vederla scorrere. Rodolfo si stacca la gamba di legno e si gode la vista in silenzio su un tronco. Con gli occhi fissi alle trasparenze della roggia, rimesta a lungo con la mano sprofondata nella tasca dei calzoni. Tutti i presenti sanno cosa sta facendo, ma, per chi non lo sapesse, sarebbe una bella sorpresa vedere la mano che esce dalla tasca con la sigaretta bell’e fatta. Una leccata alla cartina per incollarla, un filo di tabacco rimasto fra le labbra da sputare con garbo e poi la magia del fiammifero di legno “il fulminante” che, sfregato con energia sul fondo dei calzoni di fustagno brilla nell’aria limpida e si spegne nella nuvola della prima boccata. Il virtuosismo di Carlo è il sogno degli adolescenti che tormentano invano nelle tasche cartine e trinciato forte e…, sognano di diventare uomini.

Guardiamola dunque quest’acqua che scorre, perché fin che scorre la vita continua.

Il peggio viene quando la portata del fiume si riduce fino a rendere impossibile l’alimentazione delle rogge, oppure quando il flusso si riversa in misteriose vene sotterranee, e ricompare beffardamente più a valle per la gioia di altri assetati. Spasimano trote isolate, prigioniere di anguste pozze d’acqua e la loro carne saporita e profumata è ben magra consolazione, bilanciata com’è da questo endemico flagello.

Carlo allenta le tensioni raccontando che, un tempo, tutte le cinghie che reggevano i calzoni degli abitanti della valle erano provviste ad abundantiam di buchi e che il rendimento variabile dei prati dei Carotti era desumibile dalla posizione del buco utilizzato. Si dice che il Luigi pirografasse meticolosamente all’interno della cinghia e nella dovuta corrispondenza l’anno Domini corrispondente ai buchi utilizzati.

Gli uomini sorridono, ma la Silvia riaccende le tensioni dichiarando che, buchi o non buchi, sono i figli, i bambini quelli che preoccupano. Le differenze di valutazione tra uomini e donne, si ritorna sull’argomento, stanno nel fatto che le donne sublimano l’erba in latte, gli uomini in formaggio; le donne magnificano l’acqua, gli uomini il vino. Ancora: le donne sublimano  l’ansia e la necessità in preghiera, gli uomini in imprecazioni o peggio. Il vino, con la siccità, non fa cantare: fa ammutolire. Le giaculatorie, il destino, la povertà, la malattia, sembrano una beffa e, dietro al silenzio torvo degli uomini, si nasconde, inespressa, la convinzione che questa maledetta siccità e tutto il resto altro non siano che l’espressione della volontà di Dio che punisce i miei, i peccati di tutti. E quali peccati, che non ho tempo di commetterli. Signore, ho le mani piene di calli e il mio mondo va dal Cornetto a Montepiano, e, in alto, appena un brandello di cielo. Mondo minuscolo, minuscoli peccati, troppo grandi punizioni. Mi faccio un quartino di rosso, l’ultimo. Qualcuno, in silenzio, guarda, anzi, fissa senza pensare un punto indistinto, chissà quale; forse pensa ai fagioli stitici coltivati presso le radici delle vigne. Qualcuno gioca svogliato a carte. Altri chiacchierano sottovoce nel cortile dell’osteria osservando il cielo irrimediabilmente stellato. Uno qualunque sputa con sgarbo la cicca verso il cielo.

Cielo limpido. Cielo bastardo. Basta. Bevuto troppo. Vado a casa e sprofondo nel paglione.

Confrontato con le meditazioni cupe e fatalistiche degli uomini, l’assalto delle donne all’Altissimo è sistematico e preciso. Fino all’ora del terzetto si lavora sodo e qui, in valle, l’intercambiabilità tra le due benedettine attività ora et labora le autorità locali non l’hanno ancora spiegata; peccato che si potrebbe pretendere dal cielo qualcosa in più. Il terzetto  si celebra nella minuscola chiesetta di San Rocco. Il popolo è chiamato a raccolta per invocare la pioggia. Al richiamo, oltre che gli umani, rispondono anche battaglioni di pulci che, assetate anche loro, mordono gambe e braccia devote, talché alle litanie note, altre se ne aggiungono, talune riferibili, altre censurabili, altre ancora irriferibili. –Virgo potens, fai piovere a catinelle e annega le pulci-

 Dal terzetto in poi, con l’intervallo magro della magra cena, la preghiera è martellante: rosari singoli e collettivi, litanie, giaculatorie, devozioni, fioretti –Signore se mandi qualche nuvola come dico io sull’alto Veneto, salto la cena- Si prega in latino, in veneto, in veneto latinizzato, qualche anziano in tedesco e le preghiere piano piano si diluiscono nel sonno e nella stanchezza. Dormite bambini che domattina alle sei Don Arcangelo celebra le rogazioni e chissà…

Dimentichiamo. E’ tempo di riposare, visto che le fatiche non ci mancano e che è notte. L’orologio del campanile della Posta ci dà la buonanotte e le ultime preghiere dileguano nei sogni.

Le mucche, la Parma e la Moretta, sono ai freschi e riposano sotto i pini. Beate loro, ma questo ci pare di averlo già detto.

Finestre e balconi sono aperti e fissati con la “stazza” di legno che impedisce che il vento la faccia da padrone. Bisogna che mi ricordi di ungere le cerniere dei balconi con la cotica di maiale. Notte fresca. L’Astico è un fruscio regolare come un respiro.

Powered by Don Giacomo Viali e Sandro Ciechi