Saluto del Parroco
     

La trovò l’angelo del Signore presso una sorgente d’acqua nel deserto, la sorgente sulla strada di Sur e le disse: “Agar, schiava di Sarai, da dove vieni e dove vai?” (Gn. 16,7-8)

E’ il primo dei passi biblici, questo, che ha segnato il pellegrinaggio nella Terra del Santo di quest’estate. Un episodio collocato nella profonda valle di Ein Avdat (vedi foto a fondo pagina) da cui scaturisce una sorgente dove si era rifugiata la schiava di Sara, moglie di Abramo.

Quello che colpisce sono le parole dell’angelo ad Agar: “da dove vieni e dove vai”. Esse racchiudono tutte le domande che l’uomo si pone da sempre, o quasi…

Quasi perché a volte c’è l’impressione che l’umanità di oggi non si chieda più quali sono le sue radici e quale la meta del proprio cammino. Anche se tutto è in tempo reale spesso stiamo camminando alla cieca, a tentoni, senza più un orientamento preciso. Vaghiamo in un deserto senza strade, come recita il salmo 107, 40.

È forse giunto il momento di staccarci dal “tempo reale” per entrare in un “tempo del cuore” che ci consenta di riprendere in mano la nostra vita e la nostra identità spirituale e cristiana. Questo non per fini fondamentalistici o di amor patrio, ma ritrovare noi stessi come succede ad Agar alla sorgente di Ein Avdat. Seguirà le parole dell’angelo che la invita a tornare in quella storia di salvezza che Dio ha iniziato con Abramo e in cui, anche lei pur essendo una schiava, ha un ruolo.

Del resto tutti noi abbiamo un ruolo, un compito e soprattutto una storia che non possono perdersi nel silenzio e nella solitudine del deserto.

Siamo ancora una volta alle porte del Natale che la liturgia cristiana ci chiama a vivere nella contemplazione del mistero di Dio che per amore entra anche fisicamente nella storia dell’umanità. Abbiamo davanti a noi l’occasione e l’opportunità di rispondere a quelle domande fondamentali dell’uomo: “di dove vieni e dove vai”.

Nel mistero dell’incarnazione Dio chiede di ritrovarci davanti a lui per ritrovare noi stessi, per ritrovare il nostro essere cristiani affondando le nostre radici nell’amore di Dio, un amore che è fin dalla creazione del mondo. Noi veniamo dall’amore di Dio e siamo chiamati ad andare verso il suo amore che in Cristo ha la sua completa rivelazione.

Per questo il nostro pensiero si fa cammino, un po’ come quello dei Magi che giunti a Gerusalemme chiedono: “Dov’è il re dei Giudei che è nato?” (Mt. 2,2); oppure come il pellegrino che sale al tempio cantando: “Quale gioia quando mi dissero: andremo alla casa del Signore” (Sal 122,1).

Sì, siamo chiamati a camminare, in una sorta di sequela che da un lato va a ritroso e dall’altro è un camminare dietro a Gesù. Può sembrare un paradosso ma non lo è perché si tratta di un’azione contemporanea.

Da un lato siamo chiamati ad andare indietro non per nostalgia o per rimpianto ma per ripensare al nostro essere cristiani, per rivedere il nostro cammino di credenti. Siamo tutti nati cristiani ma forse ci siamo fermati ai sacramenti dell’iniziazione cristiana e null’altro. Ci siamo tutto sommato accontentati… Probabilmente ci dobbiamo chiedere se siamo davvero dei cristiani e da cosa si vede che lo siamo.

D’altro canto, dicevo, dobbiamo camminare perché abbiamo bisogno di uscire dal deserto. In ebraico la parola deserto (midbar) assomiglia molto al sostantivo parola (dabar). Di fatto la parola deserto significa “assenza di parola”. Ebbene, anche noi dobbiamo uscire da questa assenza per cibarci di quella “Parola” che nel prologo dell’evangelo di Giovanni si fa carne in Gesù Cristo (Gv.1,14). Gesù è una “Parola che cammina” e noi, se vogliamo essere suoi discepoli, con lui. Belle sono le parole scritte al riguardo da Christian Bobin[1]: “Cammina. Sena sosta cammina. Va qui e poi là. Si direbbe che il riposo gli è vietato.

Quello che si sa di lui lo si deve a un libro. Se avessimo un orecchio un po’ più fine, potremmo fare a meno di quel libro e ricevere notizie di lui ascoltando il canto dei granelli di sabbia, sollevati dai suoi piedi nudi. Nulla si riprende dal suo passaggio e il suo passaggio non conosce fine”.

Il nostro cammino dev’essere sinonimo di crescere, non tanto nelle cose ma nell’essere. Sempre più la cronaca è segnata da fatti delittuosi a cui si cerca di dare delle risposte sociali dando la responsabilità a questo o a quel comportamento. Facciamo un passo più in là e chiediamoci se certi fatti non sono anche il frutto del nostro allontanamento dall’Evangelo, da quella Parola che salva. Un allontanamento che ci porta all’assenza di parola per cui alla fine usiamo come forma di comunicazione la violenza o... gli avvocati. Un’assenza di parola che ci impedisce di costruire relazioni forti e salde o di comprendere le vere necessità o i bisogni dei nostri ragazzi a cui, forse, troppe volte le diamo sempre vinte pur di accontentarli o di non farli sentire “diversi” dagli altri che possiedono questo o quello. I fenomeni di “bullismo” di cui si è tanto parlato ultimamente non possono essere frutto di una mancanza di radici e di valori che trovano in Dio un fondamento non solo etico ma anche esistenziale? Abbiamo tante cose, ma cosa abbiamo dentro?

Natale è il “tempo del cuore” di cui scrivevo prima. Un tempo da vivere non nel buonismo a basso costo ma come spazio in cui il Signore parla alla nostra vita con la sua incarnazione in mezzo a noi. È il “tempo del cuore” perché abbiamo la possibilità di fare esperienza della sua misericordia attraverso i segni sacramentali dell’Eucaristia e della Penitenza, perché possiamo porre gesti di riconciliazione e di perdono con le persone.

Per ogni cosa c’è il suo momento, il suo tempo per ogni faccenda sotto il cielo”, scrive Qoelet all’inizio del capitolo 3 del suo libro.  Ora per ogni credente in Cristo è il tempo di ricominciare il cammino. Un percorso che in questi grandi giorni di festa ci porta a contemplare Gesù nella sua umanità, ma che ci impegna poi a stare in sua compagnia nelle strade della vita memori delle parole di Pietro che risponde a un interrogativo posto da Gesù: “Signore, da chi andremo? Tu hai  parole di vita eterna” (Gv. 6,68).

Se davvero vogliamo sapere dove andare per dare un senso vero alla nostra esistenza dobbiamo imparare a mettere Gesù davanti alla nostra vita come ci ricorda il salmo 119,105 “Lampada per i miei passi è la tua parola,  luce sul mio cammino.” Questo andare comporterà certo delle fatiche ma ci consentirà anche di dare delle risposte a tanti perché che assillano la vita del nostri giorni.

Possa essere per tutti un Natale che ci porta un unico grande regalo, quello della speranza e della gioia. Speranza e gioia  che ci rinvigoriscono nel cammino che abbiamo davanti, che ci auguriamo ancora lungo e radicato nel Signore.

A tutti, soprattutto a chi ci legge da lontano e a chi sta vivendo un momento di particolare difficoltà, l’augurio di poter passare questi giorni di festa con un autentico spirito cristiano, nella consapevolezza che ancora una volta di realizza quel grande segno di amore della presenza di Dio in mezzo a noi. Auguri anche per un sereno e proficuo 2007 ma soprattutto, lo rammento ancora una volta, Buon Natale di “cuore”.

 

Don Giacomo


 

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