Saluto del Parroco
     

In una radiosa e limpida giornata di sole si è concluso il nostro pellegrinaggio nella “Terra del Santo”. Lontano si vedevano i palazzi di Tel Aviv mentre visitavamo l’ultimo dei siti previsti dal nostro cammino: Emmaus.

Di questo luogo non resta un granché se non le mura perimetrali di una grande basilica, dei mosaici segnati dalle intemperie, un battistero. Già dai primi secoli questo villaggio veniva ricordato per il bellissimo racconto dell’evangelista Luca 24,13-35) sull’apparizione del risorto a Cleopa e al suo compagno di viaggio. Un brano che vi invito a rileggere in queste feste pasquali.

Il nostro pellegrinaggio non poteva concludersi che lì, dove il Risorto si è fatto compagno di strada di quei due discepoli che, sconsolati, stavano fuggendo da Gerusalemme dopo gli eventi tragici della Passione.

Già, Cleopa e il suo compagno che non ha nome perché potrebbe avere il nostro nome, se la danno a gambe. Gesù è morto e anche se aveva annunciato la sua risurrezione non è ancora successo nulla. Tutto sembra perduto: i sogni di una vita facile, del successo, della restaurazione dell’antico Israele sono stati inchiodati sulla croce.

Quante volte anche noi abbiamo la tentazione di fuggire davanti agli insuccessi più o meno apparenti della vita e, soprattutto, della fede. Ci sembra che tutto ci crolli addosso e svanisce ogni speranza, ogni certezza.

Noi speravamo che fosse lui a liberare Israele” (v. 21). L’errore dei due di Emmaus, se così lo possiamo definire, è quello di aver basato la loro conoscenza di Gesù e le loro speranze in un ambito strettamente umano, non sono riusciti a riconoscere il lui quel Messia annunciato dai profeti, quel Figlio di Dio che andava bel al di là degli schemi del mondo. Anche quando il Risorto si mette a camminare con loro, ci ricorda Luca, “i loro occhi erano incapaci di riconoscerlo” (v.16).

Succede anche a noi. Siamo talmente presi dalle nostre cose, dal mondo e dai suoi eventi che non siamo capaci di riconoscere il Signore. Anzi, qualche volta finiamo col dare la colpa a Dio di quello che succede in giro per il pianeta, come magari abbiamo fatto con lo “tsunami”: è un castigo di Dio. Non ho mai sentito nessuno dire o chiedersi, nei fiumi di parole di quei giorni, se l’uomo non ha qualche responsabilità visto il modo in cui sta trattando il pianeta o ripensando agli esperimenti atomici di cui l’oceano Pacifico è stato teatro per decenni.

Nonostante la nostra “durezza di cuore” nel cammino da Gerusalemme ad Emmaus si ripete, se ancora ce ne fosse bisogno, il miracolo dell’amore paterno e misericordioso di Dio.

Le parole di Gesù “sciocchi e tardi di cuore nel credere alle parole dei profeti” (25) non risuonano come il giudizio di un Dio irato ma come il rimbrotto paterno di chi sospira tra sé: “non avete capito niente”. Si rimbocca le maniche e comincia di nuovo a spiegarsi.

Gesù, camminando con Cleopa e il suo socio fa proprio questo: ricomincia una catechesi essenziale e fondamentale. “E cominciando da Mosè e da tutti i profeti spiegò loro in tutte le Scritture ciò che si riferiva a lui” (27).

Il Cristo fa ai due viandanti un dono che fa anche a noi ogni giorno: quello della Parola di Dio, quel Verbo che ci permette di entrare in quella intimità con il Padre e con la sua volontà; quelle Scritture Sacre che diventano sostegno essenziale nel cammino della vita. È sintomatico come questo dialogo Luca lo collochi proprio lungo il cammino, a ricordarci che il cristiano è colui che segue il Signore nella vita di tutti i giorni. Se noi stiamo fermi è impossibile che entriamo in comunione con qualcuno, perché il gesto del dare è un gesto che comporta movimento, qualunque sia la cosa che io do, soprattutto se do me stesso.

Questo dono della Parola dobbiamo custodirlo nel nostro cuore perché diventi “lampada ai nostri passi” (salmo 119,105).  Impariamo, lo dico ancora una volta, a diventare amici della Bibbia abituandoci a leggere ogni sera qualche versetto del Vangelo o riprendendo quello della domenica. Se vogliamo diventare cristiani è fondamentale sapere quello che Dio ci dice attraverso quella Parola, viva e vera, che parla a noi ogni giorno come ha parlato ai discepoli di Emmaus.

Luca, nella sua sapienza letteraria, sviluppa il brano in un crescendo che arriva al suo culmine con il segno finale che caratterizza l’apparizione del Risorto: lo spezzare del pane. È questo un richiamo chiaro e riconoscibile che riporta noi, così come i due discepoli, a un altro segno inconfondibile della presenza e dell’amore di Dio: la memoria dell’ultima cena.

L’effetto di questo riconoscimento è davvero efficace: “E partirono senza indugio e fecero ritorno a Gerusalemme…” (33). È scomparsa la loro paura tanto che, di notte, fanno ritorno a Gerusalemme. Da fuggiaschi diventano missionari che non trattengono nei loro cuori la gioia dell’incontro. Potevano ben dire: “ormai è notte, domattina torneremo in città” e invece sentono la necessità di partire subito, di non perdere tempo. Ora non sono più “tardi di cuore” perché ora il loro è un cuore che arde (32).

È inutile dire che questo “spezzare il pane” si ripete anche per noi ogni qualvolta celebriamo l’Eucaristia nel Giorno del Signore. Ogni domenica si ripete il gesto d’amore di Gesù che si fa pane per noi.

Così come per la Parola, non possiamo fare a meno del “Pane di vita eterna” se vogliamo avere un cuore che arde, che ci trasforma da fuggiaschi a missionari e annunciatori della Parola di Dio nella nostra storia quotidiana.

Purtroppo ho la sensazione che con troppa facilità “saltiamo” questo fondamentale appuntamento per la nostra vita di fede. La domenica è diventato il giorno per tante cose ma non per il Signore e questo va a discapito soprattutto dell’educazione alla fede dei ragazzi. Come possono diventare cristiani, conoscere Gesù Cristo, se noi come adulti non li accompagniamo proprio come fa Gesù nel brano di Luca.

Siamo chiamati ad essere, allo stesso tempo, discepoli che si lasciano guidare da Gesù e maestri che conducono a Gesù quelli che sono più piccoli. Il nostro compito di trasmettere la fede è essenziale ma se non attingiamo alle radici della fede, la Parola e l’Eucaristia, non faremo di certo tanta strada.

Il Papa ha voluto che il 2005 sia un anno particolarmente dedicato proprio all’Eucaristia. Proviamo anche noi a ricostruire questo incontro con Gesù per alimentare in maniera forte quella fede che, altrimenti, rischia l’anoressia.

Le feste pasquali che ci accingiamo a vivere siano davvero occasione per fare esperienza dell’amore di Dio che non smette mai, ricordiamocelo, di farsi presente in mezzo a noi. Esperienza che possiamo fare attraverso i grandi momenti liturgici del Triduo Pasquale e nel sacramento della riconciliazione. Chissà che non siano un trampolino di lancio per ripartire anche noi “senza indugio” lungo la strada che ci porta a diventare cristiani.

A tutti voi, soprattutto a chi ci legge da lontano e a chi sta passando momenti particolarmente difficili, l’augurio di una Pasqua che sia davvero un passaggio, come lo è stato per i due di Emmaus, dal timore alla gioia, dalla morte alla vita, perché Cristo è risorto per noi ed egli è la nostra unica vera speranza.

Buona Pasqua.

 

                                                        Don Giacomo

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