LA
FESTA DEL CROCIFISSO IN MONREALE
NARRATA DAL PITRÈ
Vogliamo qui proporvi la narrazione che fece lo storico Giuseppe Pitrè agli inizi dello scorso secolo della festa del SS. Crocifisso nel suo libro "Feste Patronali nella Sicilia Occidentali"; un racconto che mostra come già da secoli Monreale era legata in maniera intensa e passionale al Simulacro venerato nella chiesa della Collegiata, e quale affetto provasse l'intera cittadinanza nei confronti del Crocifisso dispensatore di infinite "grazie"
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n caro ed egregio giovane mi avea più volte sollecitato a recarmi a
Monreale per rivedere questa festa che per me dovea avere qualche attrattiva
speciale. Mi diceva che da quando io l’avevo vista per la prima volta
fanciullo, poco o niente dovea essersi modificato nelle cerimonie e nelle
pratiche e perciò la tradizione essersi conservata intatta. Mi raccontava del
Crocifisso, pel quale è in quella città una singolar devozione, e me ne
apprestava i più minuti particolari.
-Questi crocifisso, mi diceva, ha un’avventurosa leggenda.
Una volta, nei tempi antichi, alcuni cristiani delle vicinanze di Palermo, e propriamente di Monreale, di Boccadifalco e di Altarello di Baida s’imbarcarono per andare in Barberia. Erano provvisti di molto danaro e si proponevano di tornare con grandi e preziose mercanzie. Cammin facendo s’incontrarono in una nave turca, il cui equipaggio si baloccava con un Crocifisso capitatogli non si sa donde e come. Scandalizzati a quella profanazione vollero riscattare il Crocifisso, e spesero tutte le somme che possedevano; e tornarono a Palermo; ma nel tornare sorse tra loro la questione a chi il Crocifisso dovesse appartenere, e in qual sito lo si dovesse portare, a Monreale, o a Boccadifalco o ad Altarello. Però la questione fu subito risoluta di comune accordo: adagiando la statua sopra un carro tirato da buoi, a’ quali si lascerebbe libertà di andare alla ventura senza guida e pungiglioni. I buoi, abbandonati a se stessi, andarono dritto a Monreale, fermandosi nel punto che è ora la Collegiata, ove il Crocifisso venne senz’altro accolto e conservato.
Dicono che esso sia il vero ritratto di Gesù Cristo, e raccontano che una volta, un altro personaggio, venuto d’Alessandria d’Egitto in Monreale e riuscito ad eludere la vigilanza dei custodi della chiesa, appena vedutolo esclamasse sorpreso: E’ desso! E’ desso! – “Chi? Perché?” gli chiese uno che gli stava vicino: ed egli, lo sconosciuto: -“Perché di questo Crocifisso si parla tanto in Alessandria e da tutti si crede che esso sia il solo che somigli davvero a Gesù Cristo”.
Dicono pure che sia di legno sottilissimo, e che introducendovi non so da qual parte del corpo, una fiammella, esso trasparisca.
Pertanto non è precauzione che non si usi per conservarlo, qual è prezioso.
Nei tempi ordinari è coperto da sette veli, cinque de’ quali raffiguranti qualche passione di Gesù. Il 1° è tutto rosso; il 2° , rappresenta il congedo di Gesù da Maria; il 3°, i bacio di Giuda; il 4°, la flagelazzione; il 5°, la coronazione di spine; il 6°, l’ascensione al Calvario; l’ultimo, tutto nero, ha semplicemente il motto: Expiravit.
A nessuno è mai permesso, pena la scomunica (è la tradizione che parla), di rimuovere codesti veli ( lo fece, secondo la leggenda, lo sconosciuto alessandrino), altro che in giorni designati e sotto certe condizioni e riserve.
Indicibile è la devozione che gli professa ogni monrealese e quanti abitano i comuni più o meno vicini a Monreale; né da ora soltanto.
Una tradizione molto pietosa ricorda che l’Arcivescovo Venero, nel 1625, colpito dalla peste, volle trascinarsi fino all’altare maggiore e celebrarvi messa. All’atto della elevazione dell’ostia il venerando prelato sentì scoppiarsi i bubboni dalle ascelle e come per miracolo guarirsi: ciò che egli immediatamente annunciò ai fedeli, i quali ne fecero gran festa. Ciò sarebbe avvenuto il 3 di maggio.
Io non mi fermo a verificare nome e data. Forse la storia infirmerebbe la tradizione; ma la fede non discute, ed il cuore bisognoso di conforti, non può rinunziare a questi dolci ravvicinamenti di uomini e di cose incompatibili se guardati al crogiuolo della critica.
Vedremo più in là come la data giovi a spiegare la gentile usanza dei fiori della macchina.
LA
FESTA, LA DISCESA DEL CROCIFISSO I
l dì 3 Maggio del 1898 dunque, nelle prime ore del
pomeriggio , io mi recai a Monreale. Non si parla di tamburini , che
avevano sonato a perdibraccia, non dell’illuminazione alla veneziana, che era
pittoresca, né tampoco del Vespro della sera precedente, e del panegirico della
mattina, che era stato un vero capolavoro. I vecchi non ricordavano discorso più
dotto da oltre vent’anni, e le donnicciuole, che avevano sempre guardato un
po’ il predicatore, un po’ le persone più sapute della chiesa, n’erano
uscite ripetendo: “ Chi beddu diri! Chi gran panagiricu!
Ma non ne sapevano ridir nulla. Si attendeva la parte migliore
del festino, la processione, per la quale a migliaia i palermitani, più che nei
due giorni precedenti, vi si recavano su tramways, su carrozze, su
carretta, su sciarabbà ed anche, come suol dirsi volgarmente, a cavallo ai
calzoni. Nell’attesa, i caffettieri si davano un gran da fare attorno ai pozzi
preparando sorbetti e granite;
i dolciari a mettere in mostra i loro biscotti a forma di § con ghirigori
bianchi di zucchero, tanto ricercati a Palermo; gli stigghilara, ad
arrostire i loro manicaretti, ai quali più che la loro voce, fa grande reclame
il denso nugolo di fumo che si solleva dai loro fornelli; i pagliacci a ripetere
i loro dinoccolamenti uniformi, i loro motti stereotipati, le loro eterne
scon-ciature, i caramelai ad intascare i soldarelli dei fanciulli che
tentano di vincerne qualcuno a la badduzza, specie di dado; alla strummulicchia
trottolino con sei numeri su sei faccette; al firrialoru, roulette
primitiva. La Piazza della Cattedrale, di quella Cattedrale che, secondo
antico adagio, nessun forestiere che vada a Palermo può esimersi dall’andar a
visitare se non vuol guadagnarsi la patente di asino (Cu va ‘n Palermu e
‘un va a Murriali, Si parti dottu, si nni torna armali), era tutta
piena di gente, tra la quale
passavano silenziosi i devoti. Sono le 4 pomeridiane, e molti
si avviano alla chiesa della Collegiata. E’ questa in sito elevato, con scale
esterne difese da balaustre e con un piazzaletto innanzi, pur esso baluastrato
dalla parte di mezzogiorno. Dietro alla porta principale della chiesa stanno
inginocchiati, offrendo il viaggio compito, quindici, venti di quei devoti;
altrettanti, compiuta l’offerta si stanno calzando a pochi passi da quella. La piazzetta man mano si
popola, si riempie, e già si comincia a bussare sommessamente per rispetto al
sacro luogo. La piazzetta è già stivata e del ritardo alla desiderata apertura
si è impazienti; si sa però ed un brulichio confuso lo prova , che dentro si
lavora a tirare i sette veli, a scendere di su l’altare maggiore il
Crocifisso, a piantarlo sul zoccolo. Ad un tratto la porta stride
sui cardini e la fola insofferente d’indugio corre verso il Crocifisso. I più
agili saltano sul zoccolo, s’arrampicano sulla croce e commossi di una pietà
che devo rinunciare a descrivere l’abbracciono, l’avvinghiano, le imprimono
baci focosi. I sottostanti fan ressa per salire anche loro, ma non trovano
spazio da mettervi un piede, da farvi penetrare una mano; mentre i fortunati
primi si agitano ancora più, baciando, ribaciando fortemente, avidamente, le
gambe, le ginocchia del Cristo, piangenti di tenerezza. Un fremito investe ogni
persona: gli occhi si fan rossi, e gemiti sommessi e
singhiozzi in frenabili rompono il religioso raccoglimento di questo
primo istante. I devoti succedono ai devoti nei teneri amplessi, negli ardenti
baci; pezzuole bianche, scarlatte, turchine volano dal basso all’alto,
dall’alto al basso, dalla folla che le getta a’ più vicini al Cristo, i
quali raccolgono e palpano con esse delicatamente le membra adorate, e da questi
alla folla, che in punta di piedi, con le mani in aria, le coglie al volo, se le
stringe al petto, se ne accarezza mollemente il viso e con gli altri chiede
ripetutamente : Grazia Patruzzu amurusu! Il sacerdote custode della
Collegiata, di sul zoccolo anche lui, frammisto ai devoti, ordina che si smetta,
che è già ora di condurre fuori la croce; ma nessuno gli bada; prega, si
raccomanda: invano! Finalmente, aiutato dai confrati della Congregazione del
Crocifisso, riesce ad ottenere che il ceppo venga sgombrato. Un cenno: ed i
confrati hanno ammannito le aste provvisorie; un altro: ed il ceppo è già
levato da terra e portato di peso fuori la chiesa con la croce tentennante ed il
sacerdote che cerca tenerla ferma. La discesa per lo scalone alla sottoposta
macchina è disagiata: e Crocifisso
e sacerdote attirano gli sguardi trepidanti della folla accalcata alla ringhiera
della piattaforma e dello scalone, negli angusti vicoli, negli angoli più
riposti, alle finestre e persino ai tetti delle case. La trepidanza cede alla
pietà non così tosto il ceppo è posato, ed il sacerdote non più in pericolo:
e più presto che si può ogni cosa si allestisce per la tanto attesa
processione. E frattanto in proporzioni
maggiori che dianzi ecco rinnovarsi la scena dei baci e delle pezzuole.
Ponzando, aggrappandosi l’uno all’altro, a decine, a centinaia i devoti
s’incalzano sulla barella. Fino al tronco, guardato da terra, il Crocifisso
scompare frammezzo ad uomini, donne, a fanciulli, a bambini giunti lassù non si
sa come, sorrèttivi non si sa da chi; e gambe e braccia si confondono, si
annodano, si avviticchiano in istrane e scomposte attitudini. Le ferite del
sacro costato vengono palpeggiate di continuo da dita delicate e da ruvide mani,
da fazzoletti nuovi fiammanti e da pannilini sciupati. Il getto pare un giuoco
ed è scatto de devozione sincera. Scoppi di pianto accompagnano questo
succedersi disordinato di amplessi e si carezze: e un tremito nervoso serpeggia
anche nei più forti di spirito soggiogati da quella fede che scuote ogni
dubbio. Il mio giovane Mentore non mi
lascia un istante; e vedendomi intento ad osservare i portatori mi appresta su
di essi particolarità curiose. “I portatori – egli mi dice
–sono ottanta, metà di Monreale, della classe di carcarara (fornaciari)
e di quella de’ carrettieri; metà di Boccadifalco e di Altarello di Badia,
sobborghi di Palermo. Tra’ quaranta Monrealese vengono eletti a vita sei caporali;
i primi due anziani sono detti primarî; gli altri quattro, secondari”.
Tutti si riconoscono al
distintivo delle calze, nelle quali ai portatori comuni non è permesso di
presentarsi; e sì gli uni e sì gli altri vanno in mutande per nascondere le
parti inferiori del tronco: foggia codesta del tutto simile a quelli di certe
statue del Crocifisso, la quale io credo imitata per devozione ed ossequio. “Sotto la bara – prosegue
– si dispongono nella seguente maniera: ai monrealese spettano le aste
anteriori: ai carrettieri la destra, ai fornaciari la sinistra. Ai
Boccadifalcoti tocca l’asta posteriore di destra; agli Alterellesi la
sinistra. I due caporali primari, uno avanti, l’altro dietro, guardando il
Crocifisso, poggiano le mani sull’estremità delle aste e danno la direzione
alla macchina. I caporali secondari toccano l’asta soltanto con la mano
destra. “tutti 80, dal primo
all’ultimo, sono confrati a vita, ed il privilegio è ereditario. Al
primogenito subentra il secondo in caso di morte o di difetto fisico. In
mancanza di figli maschi il diritto passa ai fratelli ed ai figli dei fratelli:
ed in mancanza di questi, ai maschi della parte femminina”. Come si vede in ordine
a diritto di succesione, e devoti del Crocifisso di Monreale possono dare
dei punti alla Consulta araldica di Roma ed alla Commissione araldica di
Sicilia. IL VIAGGIO E
LA PROCESSIONE C hi ha
veduto le processioni ordinarie, anche più solenni dell’Isola, assiste in
questa ad una particolarità commovente.
Diverse le
proporzioni, svariate le forme dei ceri, benché unico il tipo. I più son privi
di ornamenti e del peso di uno, due chilogrammi; ma ve n’è di quindici e
anche da venti, che a fatica possono essere sorretti dai devoti, pur quando essi
ne raccomandino la base da un’ampia e solida tovaglia legata alla vita ad
armacollo; e questi offrono i più smaglianti ornamenti di carte inargentate o
indorate, con intagli a foggia di stelle, fiori, uccellini, rotelle, delle più
vaghe forme. Singolare è
la vista di sì lunga tratta di gente e di tante sì grosse fiammelle, le quali
guardate dalla discesa del teatro sembrano una fiumana di fuoco che lenta si
muove e lenta procede. Nel più
fitto della folla devota l’orecchio non riposa un istante alle ardenti
preghiere e ai piagnistei pietosi
Santissimu Crocifissu. Esclamano a coro una ventina di
donne. Li vostri grazii su’ spissu: E venti altre con maggior forza:
Vi salutu, o sagra testa, Ch’è di
spini ‘ncurunata; Oj ca è
la vostra festa
Vaju gridannu pi la strata!… E che cosa
gridano queste donne? – Non le sentite? – Grazia, patruzzu amurusu!
Datimi la grazia di l’arma lu pirdunu di li piccati. Né si stancano di
ripetere per ben cinquanta volte, intramezzandola con gloriapatri, la nota
cantilena: Decimilia
voti Sia ludatu
‘u Crucifissu. E ludamulu
sempre spissu Lu
santissimu Crucifissu E lo
guardano, lo guardano fino a perderci gli occhi, il Crocifisso. La sacra testa è troppo piegata
in giù, il perché il soverchio peso de’ peccati degli uomini le grava sopra
potentemente e ne accresce la profonda, la immane tristezza. Altra volta non fu
così. Il divin capo fu visto meno accasciato, men abbandonato sul petto, meno
oppresso dalle colpe de’ peccatori, i quali ne trassero ragioni a bene sperare
per l’invocato perdono. Questo si
indovina dal sacro volto, dai devoti, che sperano e pregano. E torno ai
confrati.
“LU
STRÀSCICU”. I FIORI DEL CROCIFISSO S e
essi hanno il privilegio di portare la macchina, hanno anche, cercato da loro,
il penoso ufficio di strisciar la lingua sul pavimento della chiesa al ritorno
del Crocifisso. Ho visto questa scena (lu stràscicu) e non la
dimenticherò mai più per quanto essa sia addolcita dalla civiltà di un grande
centro come Monreale e dalla vicinanza di Palermo. La gente si tira indietro
incuriosita e sgomenta lasciando uno spazio libero che basti al libero movimento
di questi penitenti: spazio che divide in due gli astanti. E che si viene
disegnando e formando dalla porta
fino all’altare maggiore mano mano che essi si avanzano. A scatti, a sbalzi,
essi si buttan carponi per terra con mosse lunghe e rapide strisciando la lingua
sul nudo pavimento. Questo è ora in marmo, e la lingua non vi si sciupa troppo;
ma una volta era in mattoni, e povere lingue a passarvi sopra! Amici pietosi poi
han cura di spolverare il terreno, rendendo così meno faticosa la pratica e men
disdicevole lo effetto su’ penitenti e sugli spettatori. Questi
son sempre numerosissimi, ma quelli scemano ogni anno di numero, e, o perché
non si credono grandi peccatori, o perché paesi d’oggi e come i loro antenati
si confessavano, o perché l’ambiente morale e religioso in cui vivono non è
più quello d’una volta, o perché la Chiesa non è disposta a favorire
codeste scenate, non sono così profondamente commossi come a certuni potrebbe
parere e da cert’altri presumersi. Ogni cosa
a tempo e luogo: e se altrove l’anacronismo si presta a costumanze di
questa natura, giova supporre che il luogo ne dia la ragione, il luogo lontano
da centri di civiltà, mentre qui a Monreaale, né tempo né luogo rendono
agevole il perpetuarsi di costumi con lo apparato e la intensità del passato
riluttanti al buon senso ed alla pubblica educazione. Un’ultima
particolarità: la distribuzione dei fiori dalla macchina. Come
qualunque altra cosa che sia stata a contatto o vicina al Crocifisso anche i
fiori si ritengono benedetti e miracolosi; però si dividono traì presenti al
rientrare del simulacro e sono oggetto di gara a chi possa averne di più. In
caso di gravi malattie presi in pillola essi guariscono lo infermo. Questo
in ordine generale; ma nella festa innanzi descritta bisogna cercare altro fatto
che spieghi il culto de’ fiori del Crocifisso. E’
fama che quando l’Arcivescovo Venero si dichiaro guarito dalla peste,
sull’altare nel quale egli celebrava ed ai piedi del Crocifisso fossero sparsi
in larga copia fiori d’ogni genere, e specialmente rose. Non dimentichiamo che
erano i primi di Maggio. In quell’istante i fiori benedetti da Cristo furono
dal Veniero fatti distribuire tra’ fedeli presenti, come preservativi della
pestilenza. I fiori operarono, nelle singole case ov’erano portati, il
miracolo che l’Arcivescovo avea ottenuto dal Crocifisso: la pestilenza cessò. Come
non serbare una grande venerazione pei fiori del Crocifisso? Ed
ecco perché nella festa, altare e macchina ne son pieni; ed a processione
finita, essi vengono presi a ruba. E
non è tutto. La
tovaglia onde è coperto al basso ventre il simulacro è mirabilissima in certe
ferite e in quelle particolarmente d’arme da
fuoco e da taglio. Solo
all’Arcivescovo è fatta facoltà di concederne il prestito temporaneo a quei
fedeli che ne abbiano pressante bisogno. Quella tovaglia si porta in gran
devozione da uno o più sacerdoti alla casa del sofferente, il quale ne vien
coperto o semplicemente tocco.
Però non se ne vengano i Palermitani a decantare la loro patrona! Se
Santa Rosalia opera prodigi, dicono i Monrealese, il Crocifisso non resta
indietro a nessuno: Si Santa Rusulia fa miraculi, lu nostru Crucifissu havi
li scagghiuna.
Era il terzo giorno della festa, e si parlava con vantaggio
e con calore delle corse dei primi due giorni. Il palio era vinto da cavalli
paesani. Un bardaloro poi era corso leggiero come una piuma , veloce come il
vento e s’era lasciati addietro di non so quanti passi tutti tutti gli altri.
La banda paesana aveva dato prova di grande abilità con certi pezzi ben studiati e meglio eseguiti, e quando
quella di P. Don Giovanni, una banda istituita e diretta da un sacerdote della
borgata di malaspina in Palermo, fece la sua entrata chiassosa e le sue prove
qua e là per le strade, nessuno ne rimase impressionato, perché a, a buoni
conti, la musica cittadina non resta addietro ad altre anche di una certa
reputazione.
Alcuni giorni prima e dopo il 33
di Maggio i devoti che hanno ottenuto o attendono qualche grazia fanno il
consueto viaggio partendo dalla Collegiata, girando per le vie Veneziano,
Nazionale, fuori il paese, contrada Grotta, ritornando per Pietro Novelli, Porta
Palermo, ecc. e fermandosi dietro la chiesa. Vanno, secondo il voto, in peduli o
scalzi con un grosso cero acceso, con un cartoccio (coppu) per difendersi
dalla sgocciolatura e per impedire che il lume si spenga al vento, e recitando
sommessamente delle orazioni. Sono raccolti in se stessi e nell’opera loro, e
nessuna cosa per via può da essa distrarli. Camminano a uno, a due per volta,
ma il loro passaggio è continuo, interminabile, specialmente nelle ore
mattutine e serotine. Ora tutti questi devoti, forse nessuno eccettuato, nel
giorno e nell’ora della processione tengon dietro al Crocifisso in una maniera
affatto diversa dalle comuni. Sono migliaia di giovinette dai visi malinconici e
come assorte in un pensiero molesto; sono migliaia di spose dolenti. Di madri
dagli occhi bagnati di lacrime; sono giovani dalle energiche impronte del viso e
vecchi dallo andare affaticato e stanco: e possidenti e poveri in canna e
padroni e servi galantuomini e contadini, tutti accorsi per un principio,
quello di rendere omaggio al Signore, tutti mossi da un bisogno, vario in
ciascuno, sia quello della danità del corpo, e l’altro dello scampo da un
pericolo, vuoi d’una grazia, o vuoi d’una fausta novella. Non ombra di
sfoggio negli abiti femminili, chè tutti è d’una compostezza e d’una
semplicitàche ricorda il buon tempo antico. Non uno dè cappellini fiorati che
lo insano spostamento economico ha imposto all’ultimo figurino della moda; non
un calore chiassoso che offenda la santità della cerimonia: il che tanto più
rilevante in donne con tutte povere e in popolane che vogliono specchiarla con
la miglior dama. La maggior parte tra esse, molti tra gli uomini, sono a piedi
ignudi e non guardano se non al cero che portano, non pensano se non al
Crocifisso.
Prima ca
scura sta jurnata,
Vogghiu
essiri cunsulata