Padre Davide Maria Turoldo  

 

David Maria Turoldo nacque a Coderno di Sedegliano il 22 novembre 1916, nono figlio di Giovanbattista e Anna Di Lenarda. Fu battezzato con il nome di Giuseppe. Dopo gli anni dell’infanzia iniziò la sua prima formazione nella piccola casa di formazione dell'Ordine dei Servi nel Triveneto. Nel convento di Santa Maria del Cengio, a Isola Vicentina, il 2 agosto 1935 emise la sua prima professione religiosa assumendo il nome di fra David Maria, nome con cui verrà chiamato nel seguito della sua vita. Completati gli studi umanistici e teologici, ricevette il presbiterato nell'agosto 1940, raggiungendo il convento di Santa Maria dei Servi in San Carlo a Milano, dove iniziò la sua continua ed appassionata testimonianza.

Fra David M. Turoldo iniziò ad essere conosciuto in Italia tra il 1948 e il 1952 grazie a dei piccoli libri di liriche "Io non ho mani", "La terra non sarà distrutta", "Udii una voce"; nel 1952 ancora venne incluso nella "Antologia della poesia religiosa italiana contemporanea" edita da Vallecchi.

Questo primo itinerario poetico si accompagna ad una intensa attività culturale di confronto e di dialogo che ha il suo centro propulsore in un'istituzione chiamata la " Corsia dei Servi".

Le opere di Turoldo vogliono incontrare l'uomo concreto, il suo quotidiano, la sua storia; egli desidera superare le dicotomie, che lo stesso pensiero cristiano sembrava avallare, tra individuo ed assoluto, modo dell'uomo e mondo di Dio. L'incarnazione, a cui fa riferimento Turoldo è proprio una sintesi e, in forza di essa, deve essere possibile il superamento di ogni divisione e la riconduzione a rinnovata armonia di ogni dualismo.

Il suo pensiero facilitò l’accoglienza del  Concilio Vaticano II°. Esso, con papa Giovanni XXIII°, si rivolse all'uomo prima ancora che al cristiano, al mondo nella sua universalità, prima ancora che alle particolari confessionalità.

Turoldo è in sintonia con la stima e la fiducia per il cammino dell'uomo, di ogni uomo nella storia, che il concilio esprime e s'impegna per una "ricomposizione" suggerita dall'orizzonte evangelico, concepito come apertura e rischio, come momento vitale, lontano da immobilismo irretito in formule e concetti.

La sua attività di prosatore obbediva a questo servizio all'uomo e alla fatica storica d'una solidarietà-comunione.

Gli orizzonti più battuti erano la denuncia profetica e il richiamo dell'utopia. Fedele lettore della Bibbia, Turoldo osserva gli eventi a partire dal progetto di Dio sull'uomo e sulla storia e trovava congeniale, anche alla sua forza temperamentale, la denuncia di ogni sopruso, specialmente se strutturale, radicato quindi nel cuore delle istituzioni e nelle perverse articolazioni economiche.

Le attenzioni di  Turoldo vanno quindi oltre i confini nazionali e si allargano al mondo più vasto dove l'oppressione si fa particolarmente spregiativa e violenta della dignità dell'uomo.

L'impegno per "Nomadelfia", "piccola città" con la fraternità come unica legge, all'inizio degli anni '50; la prima esperienza a Fontanella di Sotto il Monte, nella seconda metà degli anni sessanta, che raccoglieva persone anche atee e di religione islamica, avveniva all'insegna di un "ecumenismo" radicale dove le divisioni della storia si potevano trasformare nell'incanto dell'utopia.

La stessa memoria friulana, a cui Turoldo spesso si richiama, obbedisce, forse, all'istanza della profezia e dell'utopia. L'esperienza della povertà è per lui fonte di ricchezza interiore, nutrita di libertà da se stessi, di attenzione all'essenziale, capace di cogliere una priorità di valori e di servirli con impensata energia: è in nome della povertà come libertà che gli uomini rinunciano a "possedere", intuiscono il mistero dell'esistenza, diventano capaci di convivenza fraterna. Turoldo universalizza la dura esperienza di un popolo indicando, nei valori che custodisce, un potenziale "progetto" di convivenza fra i popoli.

La produzione poetica degli anni della sofferenza fisica, "Canti ultimi" (Garzanti 1991) e "Mie notti con Qohelet" (Garzanti 1992), costituiscono un richiamo culturale fra i più apprezzati di tutta la sua vasta produzione. In essi l'uomo si confronta e si scontra con il mistero dell'essere, della vita, della morte con una nudità radicale. Le stesse comuni risposte della fede si oscurano e tutto sembra approdare ad un deserto dove "il già detto" non serve più  in nessun senso e in nessuna direzione. Ma anche qui Turoldo finisce per essere propositivo: "sperare è più difficile che credere".