Enzo
Bianchi
e
la Comunità di Bose
Enzo Bianchi nacque a Castel Boglione, nel
Monferrato, nel 1943.
Ancora studente presso la facoltà di Economia e
Commercio dell’Università di Torino, sentì il bisogno di vivere in modo
radicale il desiderio e l’attesa delle promesse del regno, così, nel 1963
cominciò a riunire in modo regolare nel suo appartamento di via Piave 8 un
piccolo gruppo di giovani cattolici valdesi e battisti.
Insieme iniziarono a leggere settimanalmente la
Scrittura, a incontrarsi ogni sera per la preghiera delle ore e a condividere,
come gruppo legato alle “domus della Pro Civitate Christiana”, la celebrazione
eucaristica domestica, nella consapevolezza che soltanto facendosi poveri e
piccoli, nell’ascolto e nella condivisione, si sarebbe potuti diventare quel
piccolo gregge destinatario delle promesse del Signore.
Fu in quel contesto che per alcuni membri del gruppo
andò maturando una vocazione comunitaria nel celibato. Enzo decise allora di
scegliere un luogo di incontro fuori Torino, un luogo in disparte, nella
solitudine, che servisse di riferimento per tutti e in cui fosse possibile
iniziare una vita fraterna.
Individuata e affittata una povera casa a Bose, a
Magnano (Vercelli), il gruppo degli amici di via Piave organizzò un campo di
lavoro per restituire dignità alla bellissima chiesa romanica di San Secondo,
situata a poche centinaia di metri dalla cascina di Bose. Fu l’ultima attività
comune del gruppo torinese: quando Enzo decise di stabilirsi in quella povera
casa (Bose era allora una località molto isolata e priva di elettricità, di
fognature e di acquedotto), rimase solo. Era l’8 dicembre 1965, giorno in cui
si chiudeva il Concilio Vaticano II. Qualcuno del gruppo di via Piave
continuerà a fargli visita, e volti nuovi si affacceranno per cercare una vita
in disparte e un luogo di preghiera.
Enzo si trovò a vivere quasi tre anni di profonda
solitudine, anni preziosi, dedicati da un lato alla preghiera e all’accoglienza
di coloro che di quando in quando passavano da Bose per un momento di silenzio
e di ascolto della Parola, dall’altro all’approfondimento della propria
vocazione, sia attraverso visite e periodi di soggiorno in monasteri cattolici
(presso i trappisti di Tamié), ortodossi (al Monte Athos) e riformati (a Taizé,
comunità allora interamente composta di riformati), sia grazie ai colloqui e
all’amicizia con figure di grande le-vatura spirituale, come padre Michele
Pellegrino, arcivescovo di Torino, e l’indimenticabile patriarca di
Costantinopoli Athenagoras.
Al peso della solitudine si aggiunse presto
l’incomprensione del vescovo locale, che il 7 novembre del 1967 proibì
qualsiasi celebrazione liturgica pubblica presso la cascina di Bose, a motivo
soprattutto della frequente presenza di non cattolici tra gli ospiti di Enzo
Bianchi. A questo provvedimento fu obbediente, pur nella grave sofferenza,
nella convinzione che quel germe di vita avrebbe avuto senso solo se fosse
cresciuto nella chiesa. Sarà padre Pellegrino a far rimuovere l’interdetto,
salendo a Magnano il 29 giugno 1968 per un incontro sul tema “Il primato di
Pietro” e celebrando in quell’occasione l’Eucaristia con quanti si trovavano
riuniti a Bose.
Pochi mesi dopo, nell’ottobre 1968, terminava la
lunga vigilia: due giovani cattolici (Domenico Ciardi e Maritè Calloni) e un
pastore riformato svizzero (Daniel Attinger) decidevano di unirsi a fra Enzo
per iniziare una vita comunitaria, assieme a una sorella della comunità
riformata di Grandchamp, richiesta da fra Enzo alla priora della comunità, suor
Minke De Vries.
Suscitato e sostenuto dalla Parola di Dio, il nucleo iniziale cercò subito le proprie
radici nell’alveo della tradizione monastica, trovando così, come compagni, una
grande nube di testimoni che lo avevano preceduto nel medesimo cammino cercando
di tradurre le esigenze del radicalismo evangelico nella storia, in luoghi,
circostanze ed epoche diverse, ma sulle tracce dell’unico Signore e Pastore di
ogni “piccolo gregge”. Da Pacomio, in particolare, si trasse spunto per
impostare la forma da dare alla comunità, plasmata secondo il modello della
santa koinonía, nella quale ciascuno si fa servo dell’altro, “lava i piedi al
fratello”, in obbedienza al mandatum novum ricevuto dal Signore (cf. Gv 13,1-35).
La prima regola adottata furono i “sommari” degli
Atti degli Apostoli (At 2,42-47; 4,32-35), in attesa di poter giungere a
formulare, a partire dalla concreta esperienza di vita della comunità, una
regola propria, sulla cui base ciascun fratello e sorella potesse impegnare
definitivamente la propria vita.
Il 22 aprile del 1973, all’alba di Pasqua, dopo
l’approvazione della Regola di Bose, avvenuta nel capitolo del 4 ottobre 1971,
e la conferma ricevuta dal card. Pellegrino, e dopo un ulteriore tempo di preparazione,
ebbe luogo la professione dei primi sette fratelli, davanti a Dio e ai
rappresentanti delle chiese cristiane dalle quali essi provenivano e alle quali
continueranno ad appartenere. L’impegno definitivo assunto sarà alla vita
comune e al celibato, nella convinzione che l’impegno alla povertà e
all’obbedienza è già insito nelle promesse fatte da chiunque abbia ricevuto il
battesimo, unica e definitiva consacrazione a cola e media grandezza, in
ciascuna delle quali i fratelli e le sorelle presenti assieme agli ospiti
cercano di mantenere un discorso unico e di favorire l’ascolto reciproco.