Guarigione - Mc 1,40-45

Paolo Boschini


    Nella mentalità ebraica antica, la lebbra era considerata come la madre di tutte le malattie, tanto che essa era considerata una sorta di castigo divino e per questo - non solo per la sua presunta contagiosità - il lebbroso veniva automaticamente escluso dalla comunità religiosa e sociale: non poteva più pregare Dio nella sinagoga (per gli ebrei la preghiera personale era semplicemente una derivazione della preghiera comunitaria); non poteva incontrare familiari e amici; né gli era consentito alcun lavoro. Il lebbroso è praticamente un condannato a morte, che trascorre gli ultimi anni della sua vita nella più desolante segregazione (Lev 13,45-46). Per questo, la guarigione dalla lebbra era considerata un atto che solo Dio può compiere, una vera e propria risurrezione (Num 12,13). Non per nulla, tra i segni distintivi che accompagnano l'apparizione del Messia, vengono sovente menzionati la guarigione dei lebbrosi e la risurrezione dei morti.
    Allargando un attimo la sguardo, possiamo allora capire come, a proposito della malattia, la mentalità biblica sia diversa dalla nostra. Per noi, infatti, dalla malattia si può guarire, nel senso che si deve fare di tutto e anche di più per cercare la guarigione. Per l'uomo biblico invece, la malattia è una condizione che è toccata in sorte, per un disegno misterioso della volontà divina che a nessuno è lecito né investigare, né scoprire. Mentre noi lottiamo accanitamente e con ogni mezzo contro la malattia e ci diamo per vinti solo quando giungiamo all'ultimo respiro, l'uomo della Bibbia accetta rasseganto la sua situazione e prega, confidando che solo Dio lo può liberare dalla sua sofferenza e dalla disperazione di vedersi morire poco a poco. Per noi la casa più importante è la salute, per l'uomo biblico la cosa più importante è la salvezza.
    Quando il lebbroso quindi si rivolge a Gesù dicendo "se vuoi puoi, guarirmi" (v. 40), egli non sta parlando a un medico, che conosce la terapia giusta per la sua malattia; ma all'uomo di Dio, al Messia, a colui che ha ricevuto direttamente da Dio il potere di liberare l'umanità da ogni schiavitù. Questa distinzione ci deve far riflettere: molte volte anche noi ci rivolgiamo al Signore per chiedere la guarigione e ci sembra di non essere ascoltati quasi mai, perché la malattia persiste o addirittura peggiora. Noi cadiamo nell'equivoco, perché chiediamo la salute fisica, mentre Gesù si commuove non per la malattia, ma per la condizione di esclusione e di angoscia in cui il lebbroso si trova a causa della sua malattia. Noi pensiamo al corpo, Gesù si prende a cuore la persona intera.
    Per entrare nello stato d'animo del lebbroso e per farlo nostro, lasciamoci guidare dalle parole di un poeta del nostro tempo, Salvatore Quadimodo:

Nasco al tuo lume naufrago,
sera d'acque limpide.
Di serene foglie
arde l'aria consolata.
Sradicato dai vivi,
cuore provvisorio,
sono limite vano.
Il tuo dono tremendo
di parole, Signore,
sconto assiduamente.
Destami dai morti:
ognuno ha preso la sua terra
e la sua donna.
Tu m'hai guardato dentro
nell'oscurità delle viscere:
nessuno ha la mia disperazione
nel suo cuore.
Sono un uomo solo,
un solo inferno.

    Ora che forse abbiamo capito un po' di più anche il "naufragio" di chi soffre, guardiamo a Gesù. Il suo atteggiamento è sorprendente, perché la guarigione del lebbroso avviene grazie ad un'infrazione della legge mosaica, che proibiva categoricamente a chiunque di toccare un malato di lebbra, pena l'esclusione dalla comunità religiosa; ma è ancora più sorprendente, se si traduce il participio passato del v. 41 (gonupetòn) non con "commosso", ma con "sdegnato": la collera con cui Gesù risponde alla trasgressione della legge, viene superata da una trasgressione più grande, che solo a Dio è lecito di compiere, cioé con un gesto d'amore: "Stese la mano, lo toccò e disse: Lo voglio, sii guarito" (v. 41). Davanti alla malattia, Gesù assume un atteggiamento straordinario: si fa trovare pronto e condivide la sofferenza fino all'ultimo; Dio fa la stessa cosa nel libro di Giobbe, quando si fa trovare da Giobbe in fondo all'abisso della sofferenza e della disperazione (Gb 38,1-42,6).
    Anche la guarigione del lebbroso ha degli aspetti sorprendenti: il "subito" con cui essa avviene non lascia dubbi sul fatto che essa venga da Dio (una nota statistica: solo nel cap. 1 del suo vangelo, Marco usa l'avverbio "euthùs"-subito 10 volte; esso è sempre e solo abbinato alla persona di Gesù, e in tutte le situazioni   sottolinea il carattere di eccezionalità in cui ci si trova: l'uomo sta davanti alla presenza potente e benevola di Dio). Poi, nonostante la proibizione di Gesù, una volta guarito egli si mette a divulgare "la parola" della sua guarigione (la traduzione italiana del v. 45, che riporta "il fatto" è errata). La salute che egli ha ricevuto non è un avvenimento come gli altri, che possa essere accertato e dimostrato: l'azione di Dio sfugge sempre alla presa del vedere umano. Essa può essere comunicata solo come annuncio, cioè come racconto della trasformazione che la Parola di Dio ha prodotto nel suo cuore. Lo stesso avviene della risurrezione di Gesù: il fatto in sé non può essere accertato come avvenuto, perché non si tratta di un evento come gli altri: si può solo raccontare l'incontro con il Risorto, che è accessibile solo a chi nella fede si lascia mettere in discussione dalla Parola e dalla persona di Gesù. La guarigione del lebbroso è quindi la sua risurrezione: la sua vita ricomincia da Gesù e con Gesù.
    Marco però non ha ancora finito di stupire i suoi ascoltatori: alla fine del racconto, Gesù si ferma fuori dalle città; sembra che qualcosa gli impedisca di entrare, come se ora proprio lui che ha il potere di guarire dalla lebbra fosse diventato lebbroso: questo è il potere di Gesù, la forza della condivisione, per cui egli diventa tutt'uno con gli ammalati e i poveri che incontra sul suo cammino. Questo è in ultima analisi l'evento della guarigione: Gesù fa sua la condizione degli ultimi, perché loro ricevano in dono la vita del figlio di Dio. "Egli da ricco che era, si fece povero, perché noi dventassimo ricchi con la sua povertà" (2Cor 8,9). "Pur essendo di natura divina, non considerò un tesoro geloso la sua uguaglianza con Dio, ma annientò se stesso e assumendo la condizione di servo (...); umiliò se stesso facendosi obbediente fino alla morte di croce..." (Fil 2,6-9). Questa conclusione è anche la spiegazione del segreto a cui Gesù sottopone il lebbroso dopo la sua guarigione (v. 44): finché il Figlio dell'Uomo non è salito sulla croce a nessuno è dato di annunciare la sua identità e il significato della sua presenza in mezzo a noi. Solo chi ha condiviso fino in fondo la croce di Gesù, come il centurione pagano o le pie donne, può essere testimone autorizzato della salvezza. Così anche noi, se non condividiamo la sofferenza dei nostri malati e dei nostri poveri, se non ci fermiamo in silenzio sotto la loro croce, non possiamo essere testimoni di Gesù e della vita e della speranza che lui porta nel cuore di chi lo cerca invocandolo: "se vuoi, puoi guarirmi".


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