Malattia - Mc 1,29-39

Rita Cavallini


    Come tutte le altre volte, dopo aver pescato con i compagni, Pietro e Andrea, rientravano a casa per dividersi il ricavo dei pesci venduti al mercato. Anche quel giorno, sebbene fosse un sabato, arrivarono con Giacomo e Giovanni. Non solo, avevano condotto alla nostra casa anche un certo Gesù, di cui da un po' di tempo non si faceva altro che parlare a Cafarnao e nei villaggi intorno. A me spiaceva per mia figlia e per la nostra famiglia, perché già da qualche giorno anche Simone pareva che avesse perduto il senno a causa di questo "rabbi". In paese, figuratevi, già si bisbigliava. Nel parlare di questo Gesù, mostrava entusiasmo, come quando un bambino scopre qualcosa di nuovo. Noi di casa eravamo confusi, perché Simone è un uomo schietto e con i piedi per terra e non avrebbe facilmente accondisceso alle dicerie di un ennesimo Messia. Ci domandavamo che cosa aveva potuto scardinare le certezze di una vita semplice, come quella di Simone, sempre intrisa di fatica, tanto da non aver né tempo né spazio per contemplare altri orizzonti diversi da quelli consueti e ben conosciuti del nostro lago di Tiberiade.
    Mi dissero poi, che mentre entravano in casa, di me parlarono a Gesù. Anch'io quel giorno lo incontrai e capii nuovamente. Da molti giorni la febbre alta non mi lasciava, mi sentivo imprigionata, avevo bisogno di tutto e di tutti. Proprio io, che mi sentivo indispensabile al procedere della vita tra quella quattro mura. Eppure mi trovavo sfinita, non mi riprendevo più e cominciai a pensare che i miei giorni sarebbero finiti così. In quel silenzio forzato, in quel tormento sconosciuto a chi mi stava intorno, mi tornavano nel cuore le parole, che tante volte avevo ascoltato, del libro di Giobbe: "i miei giorni sono stati più veloci di una spola, sono finiti senza speranza". In quei momenti ho abbracciato "la non pazienza" di Giobbe, il suo non accontentarsi delle risposte convenzionali della religione o degli uomini. Solo Dio mi doveva, solo da lui volevo, la soluzione.
    Quel pomeriggio Gesù si accostò al mio letto, si chinò, mi prese per mano, mi sollevò; quando con dolcezza accompagnò il mio nuovo levarmi, avvertii che subito la febbre mi aveva lasciata, ma soprattutto avvertii che Dio si era chinato su di me. Io non ero più padrona di me stessa e quell'uomo mi aveva sollevata da quella povertà. Ecco perché era venuto, ecco che cosa doveva annunciarmi. Lui era la risposta di ogni uomo, quando arriva a riconoscere che la propria vita è come un soffio che non rivedrà più il bene.
    Venuta la sera, dopo il tramonto, vicino alla nostra casa, ho visto Gesù incontrare gli uomini  di ogni tempo afflitti da ogni dolore e da ogni male. Ho sentito risollevata la dignità di tutta l'umanità, che prostrata, esanime, senza più riguardi né falsi pudori, espone anche quando non lo sa davanti all'Altissimo le ragioni ultime della propria esistenza.
    Piena di ebbrezza per quello che Gesù operava, quella notte non riuscii a dormire e vegliai lodando Dio, meravigliandomi della compassione e dell'attenzione che aveva per ciascuno. Lo vidi uscire di casa prima dell'alba, non lo trattenni, perché intuivo che nell'allontanarsi verso quel luogo deserto s'incamminava verso il "luogo" della sua povertà e prostrazione (era ancora buio), nell'attesa di essere risollevato dal Padre (l'alba stava per sorgere).
    Ora che questi avvenimenti sono già accaduti e avendo ricevuto la gioia di averlo visto risorto, comprendo la commozione, la profonda tenerezza con cui il Padre si è chinato all'abbandono del suo figlio Gesù e lo ha risollevato, rendendolo "speranza" verso cui s'incammina tutto ciò che è umano. Quella sera Gesù mi aveva messo subito nella condizione di servirlo; e io, una volta liberata, d'ora in poi voglio liberare ad ogni costo qualcuno. Vorrei poter dire anche a voi: "tutto quello che faccio, lo faccio per il Vangelo, per diventarne partecipe con voi.


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