La parabola con cui Matteo conclude il grande
discorso di Gesù sugli ultimi tempi è senz'altro la pagina più sconvolgente di questa
sezione del suo vangelo: essa contiene due messaggi che invitano gli ascoltatori ad una
convinta decisione di fede per Gesù.
Il primo messaggio è l'identità tra Gesù e il Messia glorioso
(chiamato "Figlio dell'uomo" e "Re"), inviato da Dio sulla terra a
giudicare gli uomini alla fine dei tempi. Il Figlio dell'uomo ammetterà alla gloria di
Dio e alla vita eterna coloro che hanno amato sinceramente i più poveri: proprio come ha
fatto Gesù, che per questo è il primo ad entrare nella nuova dimensione della
risurrezione e della vita eterna. Chi segue lui e vive secondo la sua parola riceve in
regalo la piena comunione con Dio nel suo regno. Questo messaggio era del resto già stato
anticipato nelle beatitudini (Mt 5,1-12), dove il povero, il mite, l'afflitto, ecc. che
riceve in eredità la beatitudine (cioè l'essere tutt'uno con Dio) è Gesù stesso e chi
vive come lui ha vissuto. Con la parabola del giudizio finale, Gesù invita i suoi
ascoltatori alla fede in lui, cioè a considerarlo non semplicemente un profeta o un
maestro di sapienza, ma come il plenipotenziario di Dio, nel quale Dio stesso si
rispecchia come un padre nel proprio figlio prediletto (Mt 3,17 - 12,18 - 17,5). Nel
vangelo dell'amore disinteressato per i poveri è contenuta la grande rivelazione della
figliolanza divina di Gesù; è nel vedere come Gesù ama i poveri che ognuno può
riconoscere il lui la sua origine e la sua vocazione divina. Questo ha molta importanza
anche per noi, perché possiamo essere riconosciuti noi pure come figli di Dio solo
nell'amore concreto e gratuito verso i fratelli più bisognosi.
Il secondo messaggio è ancora più sconcertante: Gesù che si è
proclamato figlio di Dio e identico a Lui, chiama suoi fratelli i poveri. In tutti e
quattro i vangeli, la parola "fratello" ricorre spessissimo, ma Gesù non la usa
quasi mai per indicare il rapporto tra lui e noi: veniamo chiamati "miei
discepoli" oppure "miei amici"; ma "miei fratelli" solo due
volte. Qui, con l'aggiunta di "più piccoli" e quando la madre e i parenti
vanno per riportarlo a casa: "miei fratelli" sono coloro che fanno la volontà
del Padre mio che è nei cieli (Mt 12,49-50). Nel linguaggio ebraico, "fratello"
indica un legame affettivo ancora più forte di quello di sangue, perché la vita di
"mio fratello" è l'unica più importante della mia; posso chiamare "mio
fratello" solo quella persona per la quale sono pronto ad ogni sacrificio, anche alla
morte.
Chiamando i poveri "questi miei fratelli più piccoli", Gesù
si rivela tutt'uno con loro e afferma di essere pronto a morire per la loro salvezza e il
loro riscatto. Dio che è una sola cosa con i miserabili: inaudito! Nell'Antico
Testamento, Jahvé aveva più volte comandato al suo popolo l'amore per l'orfano, la
vedova, lo straniero, motivandolo con l'invito agli israeliti a ricordarsi di quando loro
si erano trovati nella medesima situazione di povertà. Ma qui il motivo dell'amore per i
poveri è molto più radicale: Dio stesso è uno di loro, anzi è tutti loro. San Giovanni
nella sua prima lettera ripete questo annuncio con parole simili: solo se ami il fratello
che vedi, allora ami anche Dio che non vedi (1Gv 3,12). Questo tema non è nuovo nel
vangelo di Matteo. Già nel discorso sulla vita comunitaria, Gesù aveva identificato se
stesso con i piccoli (Mt 18,5) e nel discorso missionario Gesù si era identificato tanto
con i suoi apostoli, mandati nel mondo ad annunciare in povertà il Regno di Dio, quanto
con il Padre che fa conoscere il suo amore solo ai piccoli (Mt 10,40 e 11,25). Se Gesù è
il più piccolo del Regno dei cieli (Mt 11,11), i suoi unici fratelli sono coloro che sono
poveri per nascita e condizione di vita, o coloro che diventano poveri davanti a Dio,
perché si svuotano di se stessi e liberano il loro cuore perché esso venga totalmente
occupato da Dio.
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