Paolo Boschini
Non c'è dubbio. Il comportamento del signore nei confronti dell'ultimo servo
sembra fin troppo spietato, mentre rimane la spiacevole impressione che egli faccia delle
preferenze a favore dei servi a cui ha dato di più. Ma è proprio così?
Matteo ci tiene a sottolineare (a differenza della parabola analoga di
Lc 19,11-27) che i talenti sono dati a ciascuno secondo le proprie capacità: tutti i
servi, in egual misura, sono destinatari di un dono grande (con buona approssimazione, 1
talento equivarrebbe oggi ad una cifra tra i 600 e gli 800 milioni di lire). Il signore si
fida di loro; ma al tempo stesso dimostra di conoscere bene il loro cuore, le loro risorse
interiori: non affida loro tutte le sue immense ricchezze, ma solo una piccola parte. C'è
in questo gesto una bella immagine della pedagogia e della paternità di Dio, che non ci
tratta da servi sconosciuti, ma ci ama come figli: si guarda bene dal caricare sulle
nostre spalle pesi superiori alle nostre forze; non pretende da noi cose impossibili, che
solo Lui può fare, come moltiplicare per cento o per mille (pensate al pane e ai pesci
per 5000 persone; o al granello di senape che diventa una pianta alta 2 metri); ma ci
stimola continuamente, mettendoci nella condizione di tirare fuori il meglio di noi stessi
e di donarlo agli altri, cioè di raddoppiare quello che abbiamo ricevuto.
E allora perché l'ultimo servo non è riuscito a moltiplicare il
capitale che gli era stato affidato? Gesù lo definisce "malvagio e vigliacco",
a differenza degli altri due, che vengono contrassegnati con una coppia di aggettivi, che
nel resto del vangelo Gesù usa solo per Dio Padre: "buono e fedele". Mentre i
primi due hanno colto la fiducia che il signore ha riposto in loro e la ricambiano
assumendo essi stessi un atteggiamento il più possibile simile al suo (la fiducia non si
può ricambiare se non con la fiducia), l'ultimo servo rivela la sua immagine dura di Dio,
che egli vede come un padrone esigente e spietato. Non ha saputo o non ha voluto
riconoscere la fiducia contenuta nel gesto dell'affidamento e così in lui ha fatalmente
prevalso la paura. Ha nascosto il denaro sotto terra, calcolando che la prassi giudiziaria
di allora non riteneva colpevole di incuria e di negligenza l'amministratore, a cui fosse
stato rubato un tesoro nascosto appunto in una buca scavata nel terreno (doveva essere
un'usanza abbastanza diffusa, se Gesù ci costruisce addirittura una parabola - Mt 13,44).
Egli è uno di quei cristiani di cui oggi ci parla anche S. Paolo, che vivono la loro fede
all'insegna dello slogan "pochi problemi e tanta tranquillità". Quando si
presenta davanti al suo signore, lo fa come uno che ha fatto il suo dovere. Per carità!
Sa benissimo che avrebbe potuto fare molto di più, ma almeno non si è fatto derubare; e
in un'economia statica e senza inflazione, mantenere integro il capitale di partenza non
era poi un guaio così grande, come invece è oggi per noi. Quindi, pensa che il signore
sarà comprensivo con lui, che in fondo ha fatto la sua parte, anche se non si può dire
che si sia impegnato allo spasimo.
Qui si sbaglia. Per Matteo, Dio si comporta con gli uomini così come
noi ci comportiamo con lui (ricordate come si conclude il Padre nostro: "rimetti a
noi i nostri debiti come noi li rimettiamo...") : è un padre benevolo con chi ripone
fiducia in lui, ma è un giudice inflessibile con chi non si lascia conquistare dal suo
amore generoso. L'ultimo servo perde il suo talento non perché il signore lo castiga
infierendo sulla sua pigrizia di buono a nulla, ma perché quel talento in realtà egli
non lo ha mai posseduto, visto che ha cercato di sbarazzarsene il più in fretta
possibile, seppellendolo: troppi problemi, troppe preoccupazioni... Poi scopriamo,
attraverso le parole di rimprovero del signore, che questo servo non è solo un
fannullone, ma anche un orgoglioso, che non ha chiesto aiuto a nessuno, neppure a chi per
mestiere sa come far fruttare un capitale. E' il simbolo del cristiano di oggi: tiepido,
ma così guascone, che mai e poi mai si assumerebbe la responsabilità della propria
pigrizia; paralizzato da mille paure, eppure così orgoglioso e individualista da farsi
ammazzare ("gettatelo fuori nelle tenebre"), pur di non chiedere aiuto a
qualcuno in grado di risollevarlo; vigliacco e anche un po' str...uzzo, perché sempre
pronto ad attribuire a Dio e all'eccessiva radicalità del vangelo le proprie
inadempienze, nascondendo spesso e volentieri la testa sotto la sabbia (ricordate sempre
che si tratta di una posizione pericolosa, specie di questi tempi!).
E tutto questo unicamente per la paura di perdere quell'unico talento.
Allora, dev'essere qualcosa di molto importante... Sì certamente. Ma cosa? Gesù fa
apposta a non dare ulteriori spiegazioni su quel benedetto talento: la fede, la vocazione
personale, le proprie qualità interiori, la capacità di riconoscere Dio nelle situazioni
di ogni giorno e di amarlo nei fratelli ... Chi più ne ha, più ne metta. L'importante è
che non identifichiamo il talento con una sola di queste cose: Gesù non lo ha fatto,
proprio perché il talento è tutte queste cose insieme, in quanto dono di Dio affidato
alla nostra responsabilità e al nostro impegno. C'è però un aspetto che forse ci può
illuminare ulteriormente. Il talento va restituito al suo legittimo proprietario. E allora
esso può anche essere identificato con la preghiera, che rende a Dio la gloria che gli
appartiene. Ma si tratta di una preghiera che sale al cielo dopo essere passata attraverso
il mondo delle relazioni umane: è una preghiera moltiplicata, perché si è caricata
delle ansie e dei dolori dell'umanità, di cui condivide fino in fondo il cammino. A noi
che preghiamo così poco, perché crediamo che sia più importante il fare; e che facciamo
ancora meno, perché pensiamo che preoccuparsi troppo per gli altri faccia male alla
salute, Gesù sta dicendo che solo una preghiera che nasce e si alimenta dalla
condivisione con le vicende dei fratelli che incontriamo sul nostro cammino, può far
fiorire le nostre energie e darci la forza di rompere quell'irritante e insopportabile
cappa di pigrizia, che sta regalandoci unicamente l'eutanasia di ogni rapporto sincero di
fiducia e di ogni speranza autentica per il futuro. E poi scusate, quante
volte ci siamo lasciati conquistare dal Signore a svolgere un servizio ai fratelli, di cui
non ci ritenevamo capaci? E ogni volta abbiamo fatto la stessa scoperta: non solo ce la
siamo cavata, ma soprattutto amando quei fratelli che serviamo riceviamo da loro - sarebbe
meglio dire, attraverso di loro - molto di più di quello che diamo. Bello! Vuol dire che
il Signore ci affida i suoi talenti in continuazione. Se Lui si fida...