Potere - Mt 22,15-21

P
aolo Boschini


       Anche il testo di oggi racconta un altro episodio della disputa di Gesù con i capi del popolo. Già la tradizione più antica, che precede la redazione scritta dei vangeli, colloca questo dibattito a Gerusalemme, dopo che Gesù vi è entrato trionfalmente come un re ed è stato acclamato dalla folla come il Messia mandato da Dio a liberare il suo popolo. La situazione dev'essere davvero critica, se i farisei (da sempre antiromani) fanno combutta con gli erodiani (il partito dei collaborazionisti filoromani). La domanda sul rapporto tra Dio e il potere politico (Cesare) è chiaramente un pretesto: il vero problema, che è oggetto della disputa, è chi è Gesù e conseguentemente quale è la portata della sua pretesa di essere il Messia promesso. Gesù dimostra ancora una volta di saper dialogare e non si sottrae alla domanda trabocchetto: "e' lecito o no pagare il tributo a Cesare?". La sua risposta crea sorpresa e confusione: gli avversari si sarebbero aspettati tutto, fuorché quelle parole: "Date a Cesare quello che è di Cesare e a Dio quello che è di Dio". Parole che a noi suonano misteriose e sibilline, ma che evidentemente allora dovevano avere un significato ben chiaro a tutti. Lasciamo per un momento da parte l'interpretazione che di questo detto di Gesù è stata data lungo i 20 secoli del cristianesimo e proviamo a ricostruirne il senso originario.
    Che cosa spetta di diritto a Cesare? Il tributo in denaro. Ma non c'è niente di più precario e instabile del denaro, che da un momento all'altro può essere corroso dalla ruggine e rubato dai ladri (Mt 7). Il regno di Cesare è apparentemente molto forte, eppure è come quel gigante di metallo ma con i piedi d'argilla (Dan 2), in cui la letteratura apocalittica del tempo identificava ogni regno umano, con il suo potere e il suo splendore. La risposta di Gesù suona allora: "si può benissimo pagare il tributo a Cesare; tanto il denaro come il potere appartengono a quella sfera del provvisorio che prima o poi scomparirà, per lasciar posto al definitivo". Che cos'è questo definitivo? "E' Dio, l'unico vero sovrano del mondo, l'unico che non si accontenta dei nostri soldi o del nostro consenso esteriore, perché vuole il nostro cuore".
    Anche Cesare, simbolo di tutte le signorie terrene, vorrebbe il nostro cuore. Ma "non si può servire a due padroni; non si può dare contemporaneamente il nostro cuore a Dio e a mammona" (Mt 6). Quindi Gesù dice anche che in realtà occorre fare una scelta e invita i suoi interlocutori a compiere la sua stessa scelta: quella operata sin dall'inizio della sua vita pubblica, in risposta alla terza tentazione, quando il seduttore lo portò su un monte altissimo e gli promise il potere sul mondo, se soltanto lo avesse adorato. Ora Gesù rivolge ai suoi avversari le stesse parole tratte da Dt 6, che allora disse al grande avversario: "Adora il Signore Dio tuo e a lui solo rendi culto" (Mt 4).
    Per secoli, noi abbiamo interpretato questo testo come se si riferisse esclusivamente al rapporto tra la fede e la politica, tra i cristiani e il potere. Ora che la politica sta tramontando surclassata dall'economia e dalla comunicazione, ora che anche il potere, che fin qui si è espresso soprattutto attraverso la politica, sta cambiando radicalmente volto, dobbiamo nuovamente chiederci a che cosa si riferisca questo "date a Dio...". Io credo che sia un invito pressante di Gesù a liberarci da ogni idolatria nei confronti del mondo e delle sue logiche perverse e schiavizzanti; ma si tratta anche di un appello carico di speranxza a guardare lontano, al futuro di Dio, quando lui stesso scenderà a liberare i suoi figli, che gemono sotto il peso della schiavitù e dell'ingiustizia, realizzate e perpetuate dall'uomo con un'intelligenza quasi diabolica. Quello che Dio ha compiuto nei confronti del suo popolo schiavo - prima in Egitto (Es 2) e poi a Babilonia (Is 45) - sta per ripetersi: ma questa volta il braccio di Dio si stenderà a liberare non un popolo sociologicamente determinato (gli ebrei), ma tutti quelli che credono in Gesù e per questo sono diventati suoi figli.
     Mentre oggi rileggiamo questo testo siamo invitati a pensare alla sorte di un'intero emisfero della terra, che vive in condizioni di quasi totale mancanza di dignità umana e di futuro, di giustizia e di pace. In questo caso, il loro Cesare, lo straniero usurpatore, siamo anche noi, che sui tributi economici e sociali pagati dai paesi poveri della terra abbiamo costruito il nostro benessere e il nostro potere. Sì, anche noi siamo tra i potenti. Noi abbiamo - o meglio, presumiamo di avere - un potere incondizionato sulla nostra vita; pensiamo di poterne disporre come ci pare e piace: questo è il nostro Cesare. E come se non bastasse, crediamo di poter condizionare anche la vita degli altri. Come? Non solo con il conflitto, che ha dei costi umani troppo alti e non può essere sopportato a lungo dalla nostra coscienza perbenista. Ma soprattutto con la comunicazione persuasiva, il cui caso più tipico è senz'altro quello della pubblicità televisiva. Gesù oggi ci chiede di lasciarci interrogare dalla sua parola, come un giorno egli fece con il giovane ricco (Mt 19), con Zaccheo (Lc 19) o con Pilato (Gv 18-19): "Tu non avresti alcun potere, se non ti fosse stato dato dall'alto".
    Anche la chiesa sta cadendo dentro alla logica commerciale del trasmettere il proprio messaggio sotto forma di pubblicità (quello che comunemente chiamiamo sponsorizzazione): voi che cosa avete pensato di fronte allo spettacolo della facciata di S. Pietro a Roma restaurata e celebrata in mondovisione con uno spettacolo    che non aveva nulla da invidiare allo sfarzo delle corti pontifice del primo '500 (quelle che scatenarono la rivolta di Lutero)? Non vi è venuto da pensare che questa commistione tra spettacolo e fede abbassava le cose sante di Dio al livello di quelle caduche di Cesare? Non vi siete chiesti quanti poveri avrebbero potuto mangiare, o quante famiglie avrebbero trovato una casa dignitosa con i soldi spesi per quello spettacolo? Non avete sentito la nostalgia per una chiesa più povera, forse un po' più distaccata dalle logiche del mondo e per questo più amica di Dio e della povera gente e quindi più credibile?
    Una chiesa che sa dare a Dio l'adorazione e la gloria, cioè il proprio cuore, non è una chiesa di eremiti fuori dal mondo. Ma è invece una chiesa equilibrata, che vive nel mondo con lo sguardo rivolto lontano, a quell'altro mondo di pace e giustizia, che Dio un giorno farà nascere dalla risurrezione di Cristo. E nello stesso tempo, si fa carico delle fatiche di questa umanità, spesso angariata o ingannata da un potere che di umano spesso ha ben poco: una chiesa che sa stare con i più deboli, ma come Gesù sa anche dialogare con i potenti; non solo per smacherarne ipocrisie e contraddizioni che essa conosce bene, perché purtroppo le appartengono; ma soprattutto per invitare anche questi figli prodighi a ritornare all'Unico, il cui potere non schiaccia ma risolleva, non terrorizza ma consola, non uccide ma dà la vita.


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