Paolo Boschini
Anche il testo di oggi racconta un altro episodio della disputa di Gesù con i capi del
popolo. Già la tradizione più antica, che precede la redazione scritta dei vangeli,
colloca questo dibattito a Gerusalemme, dopo che Gesù vi è entrato trionfalmente come un
re ed è stato acclamato dalla folla come il Messia mandato da Dio a liberare il suo
popolo. La situazione dev'essere davvero critica, se i farisei (da sempre antiromani)
fanno combutta con gli erodiani (il partito dei collaborazionisti filoromani). La domanda
sul rapporto tra Dio e il potere politico (Cesare) è chiaramente un pretesto: il vero
problema, che è oggetto della disputa, è chi è Gesù e conseguentemente quale è la
portata della sua pretesa di essere il Messia promesso. Gesù dimostra ancora una volta di
saper dialogare e non si sottrae alla domanda trabocchetto: "e' lecito o no pagare il
tributo a Cesare?". La sua risposta crea sorpresa e confusione: gli avversari si
sarebbero aspettati tutto, fuorché quelle parole: "Date a Cesare quello che è di
Cesare e a Dio quello che è di Dio". Parole che a noi suonano misteriose e
sibilline, ma che evidentemente allora dovevano avere un significato ben chiaro a tutti.
Lasciamo per un momento da parte l'interpretazione che di questo detto di Gesù è stata
data lungo i 20 secoli del cristianesimo e proviamo a ricostruirne il senso originario.
Che cosa spetta di diritto a Cesare? Il tributo in denaro. Ma non c'è
niente di più precario e instabile del denaro, che da un momento all'altro può essere
corroso dalla ruggine e rubato dai ladri (Mt 7). Il regno di Cesare è apparentemente
molto forte, eppure è come quel gigante di metallo ma con i piedi d'argilla (Dan 2), in
cui la letteratura apocalittica del tempo identificava ogni regno umano, con il suo potere
e il suo splendore. La risposta di Gesù suona allora: "si può benissimo pagare il
tributo a Cesare; tanto il denaro come il potere appartengono a quella sfera del
provvisorio che prima o poi scomparirà, per lasciar posto al definitivo". Che cos'è
questo definitivo? "E' Dio, l'unico vero sovrano del mondo, l'unico che non si
accontenta dei nostri soldi o del nostro consenso esteriore, perché vuole il nostro
cuore".
Anche Cesare, simbolo di tutte le signorie terrene, vorrebbe il nostro
cuore. Ma "non si può servire a due padroni; non si può dare contemporaneamente il
nostro cuore a Dio e a mammona" (Mt 6). Quindi Gesù dice anche che in realtà
occorre fare una scelta e invita i suoi interlocutori a compiere la sua stessa scelta:
quella operata sin dall'inizio della sua vita pubblica, in risposta alla terza tentazione,
quando il seduttore lo portò su un monte altissimo e gli promise il potere sul mondo, se
soltanto lo avesse adorato. Ora Gesù rivolge ai suoi avversari le stesse parole tratte da
Dt 6, che allora disse al grande avversario: "Adora il Signore Dio tuo e a lui solo
rendi culto" (Mt 4).
Per secoli, noi abbiamo interpretato questo testo come se si riferisse
esclusivamente al rapporto tra la fede e la politica, tra i cristiani e il potere. Ora che
la politica sta tramontando surclassata dall'economia e dalla comunicazione, ora che anche
il potere, che fin qui si è espresso soprattutto attraverso la politica, sta cambiando
radicalmente volto, dobbiamo nuovamente chiederci a che cosa si riferisca questo
"date a Dio...". Io credo che sia un invito pressante di Gesù a liberarci da
ogni idolatria nei confronti del mondo e delle sue logiche perverse e schiavizzanti; ma si
tratta anche di un appello carico di speranxza a guardare lontano, al futuro di Dio,
quando lui stesso scenderà a liberare i suoi figli, che gemono sotto il peso della
schiavitù e dell'ingiustizia, realizzate e perpetuate dall'uomo con un'intelligenza quasi
diabolica. Quello che Dio ha compiuto nei confronti del suo popolo schiavo - prima in
Egitto (Es 2) e poi a Babilonia (Is 45) - sta per ripetersi: ma questa volta il braccio di
Dio si stenderà a liberare non un popolo sociologicamente determinato (gli ebrei), ma
tutti quelli che credono in Gesù e per questo sono diventati suoi figli.
Mentre oggi rileggiamo questo testo siamo invitati a pensare alla
sorte di un'intero emisfero della terra, che vive in condizioni di quasi totale mancanza
di dignità umana e di futuro, di giustizia e di pace. In questo caso, il loro Cesare, lo
straniero usurpatore, siamo anche noi, che sui tributi economici e sociali pagati dai
paesi poveri della terra abbiamo costruito il nostro benessere e il nostro potere. Sì,
anche noi siamo tra i potenti. Noi abbiamo - o meglio, presumiamo di avere - un potere
incondizionato sulla nostra vita; pensiamo di poterne disporre come ci pare e piace:
questo è il nostro Cesare. E come se non bastasse, crediamo di poter condizionare anche
la vita degli altri. Come? Non solo con il conflitto, che ha dei costi umani troppo alti e
non può essere sopportato a lungo dalla nostra coscienza perbenista. Ma soprattutto con
la comunicazione persuasiva, il cui caso più tipico è senz'altro quello della
pubblicità televisiva. Gesù oggi ci chiede di lasciarci interrogare dalla sua parola,
come un giorno egli fece con il giovane ricco (Mt 19), con Zaccheo (Lc 19) o con Pilato
(Gv 18-19): "Tu non avresti alcun potere, se non ti fosse stato dato dall'alto".
Anche la chiesa sta cadendo dentro alla logica commerciale del
trasmettere il proprio messaggio sotto forma di pubblicità (quello che comunemente
chiamiamo sponsorizzazione): voi che cosa avete pensato di fronte allo spettacolo della
facciata di S. Pietro a Roma restaurata e celebrata in mondovisione con uno spettacolo
che non aveva nulla da invidiare allo sfarzo delle corti pontifice del primo
'500 (quelle che scatenarono la rivolta di Lutero)? Non vi è venuto da pensare che questa
commistione tra spettacolo e fede abbassava le cose sante di Dio al livello di quelle
caduche di Cesare? Non vi siete chiesti quanti poveri avrebbero potuto mangiare, o quante
famiglie avrebbero trovato una casa dignitosa con i soldi spesi per quello spettacolo? Non
avete sentito la nostalgia per una chiesa più povera, forse un po' più distaccata dalle
logiche del mondo e per questo più amica di Dio e della povera gente e quindi più
credibile?
Una chiesa che sa dare a Dio l'adorazione e la gloria, cioè il proprio
cuore, non è una chiesa di eremiti fuori dal mondo. Ma è invece una chiesa equilibrata,
che vive nel mondo con lo sguardo rivolto lontano, a quell'altro mondo di pace e
giustizia, che Dio un giorno farà nascere dalla risurrezione di Cristo. E nello stesso
tempo, si fa carico delle fatiche di questa umanità, spesso angariata o ingannata da un
potere che di umano spesso ha ben poco: una chiesa che sa stare con i più deboli, ma come
Gesù sa anche dialogare con i potenti; non solo per smacherarne ipocrisie e
contraddizioni che essa conosce bene, perché purtroppo le appartengono; ma soprattutto
per invitare anche questi figli prodighi a ritornare all'Unico, il cui potere non
schiaccia ma risolleva, non terrorizza ma consola, non uccide ma dà la vita.