Peccato - Mt 21,33-43

P
aolo Boschini


     La parabola dei vignaioli malvagi ha molte stratificazioni e quindi deve essere letta a vari livelli.    
     All'origine c'è senz'altro un racconto di Gesù, che riprende nello stile profetico di Isaia (cap. 5) il tema dell'infedeltà del popolo di Dio. Esso appartiene con tutta probabilità al gruppo dei detti di Gesù che si rifescono alla sua polemica contro le autorità religiose giudaiche, accusate di essere venute meno al loro compito primario di guide e di sentinelle e di aver lasciato così che il popolo loro affidato si allontanasse dalla genuina fede ebraica, per rifugiarsi in una sorta di religione sincretistica e idolatrica. Al contrario del racconto di Isaia, qui la vigna è produttiva, ma ci sono dei vignaioli che vogliono trattenere per sé il raccolto, dimenticando che non sono né i padroni né i fondatori di quella vigna. Gesù quindi li ammonisce: se non vogliono scatenare le ire del vero proprietario, devono al più presto convertire il loro cuore a Dio e ritornare ad esercitare con cuore trasparente il loro compito di pastori del popolo. Possiamo trovare strette somiglianze con la parabola giovannea del pastore e del mercenario (Gv 10) e con il gesto profetico di Gesù, significativamente raccontato da tutti e quattro i vangeli, dell'irruzione nel tempio e del rovesciamento delle bancarelle degli animali e dei cambiavalute. Letto in questa chiave, il racconto di oggi ci interroga sulla purezza della nostra fede e provoca soprattutto noi pastori del popolo di Dio ad una nuova e più convinta conversione a Dio, senza la quale anche noi siamo inesorabilmente destinati a diventare mercenari e guide cieche.
        Un secondo livello redazionale risale alla primitiva comunità cristiano-giudaica (di Gerusalemme o forse di Antiochia) e ha il suo centro soprattutto nella citazione del Sal. 117: "la pietra che i costruttori hanno scartato è diventata pietra angolare...". Non a caso la stessa citazione, con la medesima applicazione alla Pasqua di Gesù, si ritrova anche nell'opera lucana e precisamente nel discorso di Pietro davanti al sinedrio, nella prima grande discussione dei discepoli di Gesù con le stesse autorità giudaiche che avevano fatto condannare a morte il loro Maestro (At 4). Matteo poi amplifica questo riferimento al crocifisso con la menzione che il figlio del padrone fu ucciso fuori della vigna: proprio come Gesù, morto fuori da Gerusalemme, dal momento che non è possibile che un profeta muoia dentro la città di Dio. Se il racconto originario era tutto concentrato sulla fedeltà al Dio della promessa e dell'esodo, a colui che Gesù aveva l'inaudito coraggio di chiamare Padre, ora invece l'attenzione cade tutta sul Figlio, Gesù stesso, la cui misera fine non è un fallimento, ma l'inizio di un popolo nuovo e quindi di una nuova storia d'amore tra Dio e l'umanità.
        Qui s'innesta l'evangelista Matteo con la sua personalissima interpretazione di questo racconto: la vigna con il suo raccolto conteso è l'immagine della storia di Israele, che con rapide pennellate egli descrive come un colossale paradosso. Più aumentava l'infedeltà del popolo e delle sue guide, e più Dio si preoccupava di non far mancare loro la sua parola e, tramite i profeti, l'invito pressante alla conversione. Più il cuore dell'uomo s'induriva e s'intristiva nel rifiuto, più quello di Dio s'inteneriva fino alla delicatezza massima di mandare il figlio: "Almeno di lui avranno rispetto". La storia è per Matteo - come anche per Paolo e Luca - storia di salvezza e di misericordia, in cui il cuore di Dio pare ostinato al bene tanto  - anzi forse ancora di più  - quanto quello degli uomini è deciso al male. Ma ad un certo momento, la misura è diventata improvvisamente colma. Dio non può tollerare che alla sua tenerezza estrema si arrivi a rispondere con l'omicidio frutto di un calcolo cinico: "E' l'erede; uccidiamolo e l'eredità sarà nostra". Matteo qui dà un giudizio teologico estremamente pesante sul mondo ebraico, da cui pure egli proviene: uccidendo Gesù, ci si è macchiati con il peccato più grave che l'umanità possa fare; il peccato di voler diventare come Dio, di prendere il suo posto. All'origine della morte di Gesù c'è il peccato di Adamo ed Eva, che come un'ombra ha accompagnato tutta la storia del popolo ebraico (pensiamo ad es. al vitello d'oro e a tutte le altre idolatrie, che in realtà non sono altro che egolatrie: io al posto di Dio). Ma Dio ha in serbo un colpo a sorpresa: la definitiva sconfitta del peccato, affidando la sua vigna ad un popolo capace di "farla fruttificare".
        Che dire? A me sembra che questa visione matteana della chiesa cristiana come popolo senza peccato, capace perciò di far fruttare il regno di Dio sia un po' troppo ottimista o forse addiruttura  trionfalista. A sua discolpa, bisogna dire che Matteo non conosceva la ri-mondanizzazione che questo nuovo popolo avrebbe vissuto di lì a poco, trascinandosela poi con sè per tutti i secoli a venire. Ma soprattutto, credo che qui Matteo non stia parlando della chiesa storica, di quella di cui anche lui conosce e critica spesso debolezze, divisioni e peccati. L'evangelista ci sta dicendo che dietro, o meglio, dentro a questa chiesa ancora purtroppo peccatrice e bisognosa di conversione, c'è un'altra/la stessa chiesa che Dio renderà pura e senza macchia, "splendida come una sposa adorna per il suo sposo". Come tante volte Agostino ci ha insegnato, noi apparteniamo ad entrambe: se condividiamo il peccato dell'umanità è per la misericordia di Dio, perché possiamo gustare appieno la gioia del perdono che Dio stesso riserva a ritorna a lui con tutto il cuore e accetta di fondare la sua vita sulla pietra scartata Gesù, ora divenuta la  pietra angolare, il Signore risorto.


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