Paolo Boschini
La parabola dei vignaioli malvagi ha molte stratificazioni e quindi deve essere letta a
vari livelli.
All'origine c'è senz'altro un racconto di Gesù, che riprende
nello stile profetico di Isaia (cap. 5) il tema dell'infedeltà del popolo di Dio. Esso
appartiene con tutta probabilità al gruppo dei detti di Gesù che si rifescono alla sua
polemica contro le autorità religiose giudaiche, accusate di essere venute meno al loro
compito primario di guide e di sentinelle e di aver lasciato così che il popolo loro
affidato si allontanasse dalla genuina fede ebraica, per rifugiarsi in una sorta di
religione sincretistica e idolatrica. Al contrario del racconto di Isaia, qui la vigna è
produttiva, ma ci sono dei vignaioli che vogliono trattenere per sé il raccolto,
dimenticando che non sono né i padroni né i fondatori di quella vigna. Gesù quindi li
ammonisce: se non vogliono scatenare le ire del vero proprietario, devono al più presto
convertire il loro cuore a Dio e ritornare ad esercitare con cuore trasparente il loro
compito di pastori del popolo. Possiamo trovare strette somiglianze con la parabola
giovannea del pastore e del mercenario (Gv 10) e con il gesto profetico di Gesù,
significativamente raccontato da tutti e quattro i vangeli, dell'irruzione nel tempio e
del rovesciamento delle bancarelle degli animali e dei cambiavalute. Letto in questa
chiave, il racconto di oggi ci interroga sulla purezza della nostra fede e provoca
soprattutto noi pastori del popolo di Dio ad una nuova e più convinta conversione a Dio,
senza la quale anche noi siamo inesorabilmente destinati a diventare mercenari e guide
cieche.
Un secondo livello redazionale risale alla
primitiva comunità cristiano-giudaica (di Gerusalemme o forse di Antiochia) e ha il suo
centro soprattutto nella citazione del Sal. 117: "la pietra che i costruttori hanno
scartato è diventata pietra angolare...". Non a caso la stessa citazione, con la
medesima applicazione alla Pasqua di Gesù, si ritrova anche nell'opera lucana e
precisamente nel discorso di Pietro davanti al sinedrio, nella prima grande discussione
dei discepoli di Gesù con le stesse autorità giudaiche che avevano fatto condannare a
morte il loro Maestro (At 4). Matteo poi amplifica questo riferimento al crocifisso con la
menzione che il figlio del padrone fu ucciso fuori della vigna: proprio come Gesù, morto
fuori da Gerusalemme, dal momento che non è possibile che un profeta muoia dentro la
città di Dio. Se il racconto originario era tutto concentrato sulla fedeltà al Dio della
promessa e dell'esodo, a colui che Gesù aveva l'inaudito coraggio di chiamare Padre, ora
invece l'attenzione cade tutta sul Figlio, Gesù stesso, la cui misera fine non è un
fallimento, ma l'inizio di un popolo nuovo e quindi di una nuova storia d'amore tra Dio e
l'umanità.
Qui s'innesta l'evangelista Matteo con la sua
personalissima interpretazione di questo racconto: la vigna con il suo raccolto conteso è
l'immagine della storia di Israele, che con rapide pennellate egli descrive come un
colossale paradosso. Più aumentava l'infedeltà del popolo e delle sue guide, e più Dio
si preoccupava di non far mancare loro la sua parola e, tramite i profeti, l'invito
pressante alla conversione. Più il cuore dell'uomo s'induriva e s'intristiva nel rifiuto,
più quello di Dio s'inteneriva fino alla delicatezza massima di mandare il figlio:
"Almeno di lui avranno rispetto". La storia è per Matteo - come anche per Paolo
e Luca - storia di salvezza e di misericordia, in cui il cuore di Dio pare ostinato al
bene tanto - anzi forse ancora di più - quanto quello degli uomini è deciso
al male. Ma ad un certo momento, la misura è diventata improvvisamente colma. Dio non
può tollerare che alla sua tenerezza estrema si arrivi a rispondere con l'omicidio frutto
di un calcolo cinico: "E' l'erede; uccidiamolo e l'eredità sarà nostra".
Matteo qui dà un giudizio teologico estremamente pesante sul mondo ebraico, da cui pure
egli proviene: uccidendo Gesù, ci si è macchiati con il peccato più grave che
l'umanità possa fare; il peccato di voler diventare come Dio, di prendere il suo posto.
All'origine della morte di Gesù c'è il peccato di Adamo ed Eva, che come un'ombra ha
accompagnato tutta la storia del popolo ebraico (pensiamo ad es. al vitello d'oro e a
tutte le altre idolatrie, che in realtà non sono altro che egolatrie: io al posto di
Dio). Ma Dio ha in serbo un colpo a sorpresa: la definitiva sconfitta del peccato,
affidando la sua vigna ad un popolo capace di "farla fruttificare".
Che dire? A me sembra che questa visione
matteana della chiesa cristiana come popolo senza peccato, capace perciò di far fruttare
il regno di Dio sia un po' troppo ottimista o forse addiruttura trionfalista. A sua
discolpa, bisogna dire che Matteo non conosceva la ri-mondanizzazione che questo nuovo
popolo avrebbe vissuto di lì a poco, trascinandosela poi con sè per tutti i secoli a
venire. Ma soprattutto, credo che qui Matteo non stia parlando della chiesa storica, di
quella di cui anche lui conosce e critica spesso debolezze, divisioni e peccati.
L'evangelista ci sta dicendo che dietro, o meglio, dentro a questa chiesa ancora purtroppo
peccatrice e bisognosa di conversione, c'è un'altra/la stessa chiesa che Dio renderà
pura e senza macchia, "splendida come una sposa adorna per il suo sposo". Come
tante volte Agostino ci ha insegnato, noi apparteniamo ad entrambe: se condividiamo il
peccato dell'umanità è per la misericordia di Dio, perché possiamo gustare appieno la
gioia del perdono che Dio stesso riserva a ritorna a lui con tutto il cuore e accetta di
fondare la sua vita sulla pietra scartata Gesù, ora divenuta la pietra angolare, il
Signore risorto.