Fiducia - Mt 14,22-33

P
aolo Boschini


   In questo testo, che Matteo ha ereditato da una delle tradizioni più antiche del racconto evangelico, troviamo le parole chiave del primo vangelo, che funzionano come rimandi ai fondamenti della fede cristologica matteana (un po' come i "links" in internet). Vi segnalo solo le più importanti: barca (discepoli, parabole, nuovo popolo di Dio); monte (beatitudini, nuova alleanza, preghiera); mare/notte (esodo, pasqua, passione); Pietro (fede, rinnegamento, chiesa); figlio di Dio (Padre, pagani, salvezza/regno di Dio). Quindi, ci troviamo davanti ad un testo molto complesso, che si apre una serie pressochè infinita di finestre su tutto il vangelo di Matteo. S'impone perciò una scelta. Prendiamo allora la parola "barca", che del resto mi sembra il leit-motiv di questo testo, anche se devo subito dire che l'evangelista ha costruito il racconto in modo che l'accento cada sull'ultima frase: "Tu sei veramente il figlio di Dio", che non a caso è identica alle parole sulla bocca del centurione pagano ai piedi della croce di Gesù.
    Certamente alcuni dei discepoli erano pescatori e quindi conoscevano bene sia la tecnica della navigazione, che le insidie del piccolo ma burrascoso lago di Tiberiade. Matteo vuole mettere in luce due aspetti. 1) Non si tratta di una tempesta di dimensioni colossali, è nella norma. Fuori di metafora: il testo non si riferisce alle grandi e speriamo rare crisi della nostra vita personale o collettiva, ma a tutte quelle situazioni di difficoltà e disagio di cui è intessuta la nostra quotidianità. La vita di una comunità cristiana non corre mai sul velluto, ma è faticosa, anche perché non può svestirsi di quella componente di paura e di peccato, che appartiene al più profondo del nostro cuore. 2) Basta una situazione meteo sfavorevole, per rendere la barca ingovernabile, sì che la perizia dei pescatori non serve a riportarla a riva. La chiesa è spesso un guscio di noce, sballottato dalle onde, senza una rotta precisa; noi cristiani siamo spesso in una condizione di impotenza di fronte a situazioni che ci sovrastano. Il problema è che basta un po' di vento contrario per mettere noi e la nostra chiesa in questa situazione senza uscita.
    Nel frattempo Gesù, che come abbiamo già detto è il vero protagonista dell'episodio, è "sul monte, da solo, a pregare". Gesù è nella stessa situazione di Mosè salito sul Sinai per stare a colloquio con Dio, mentre a valle Israele si costruiva un vitello d'oro e lo eleggeva come proprio salvatore. La menzione del sopraggiungere delle tenebre dice non solo che la situazione di peccato si protae, senza che Dio manifesti l'intenzione di intervenire; ma anche che per Gesù tutta la sua vita sta in questo rapporto faccia a faccia con il Padre. Noi che spesso viviamo il rapporto con Dio all'insegna del conflitto o del sospetto, facciamo molta fatica a capire come si possa stare tanto tempo in preghiera senza stancarsi, e facciamo ancora più fatica ad acettare che questo tempo si protragga, quando è chiaro che c'è bisogno di muoversi, di fare qualcosa per aiutare i discepoli.Già, ma che cosa? Può un uomo da solo soccorrere i propri amici, sfidando il mare in burrasca?
    Gesù compie un gesto del tutto inaspettato, anche perché chiaramente esso non appartiene alla gamma delle possibilità umane: va incontro ai suoi, camminando sulle acque. Subito, ci viene da gridare al miracolo e conseguentemente pensiamo che si tratti di un gesto assolutamente straordinario e irripetibile, di cui solo pochissimi possono essere i beneficiari. Ma non è così. In sottofondo sembra di sentire la voce dell'evangelista che sussurra alla sua comunità: "vi ricordate quante volte anche noi ci siamo trovati in grande difficoltà? quante volte la crisi ci ha assalito e sembrava impossibile potercela fare? eppure, ogni volta abbiamo sperimentato la vicinanza del Signore, la forza del suo amore che salva, la liberazione dall'angoscia e dal pericolo". Questo lo possiamo, anzi con riconoscenza lo dobbiamo dire anche noi. Certo, sulle prime ci è stato difficile riconoscere Gesù, lo abbiamo considerato anche noi un fantasma, un'allucinazione dovuta alla paura. E così lo abbiamo messo alla prova, chiedendo un segno ("se sei tu, comanda che..."), che altro non è che un segno della nostra fede intaccata dal dubbio.
    La reazione di Gesù è anch'essa sorprendente: non sgrida Pietro, non rinfaccia ai discepoli la loro pochezza (lo farà dopo, a bocce ferme, ma ciò avra tutt'altro significato), ma lo chiama, proprio come aveva fatto sullo stesso mare qualche tempo prima. Grazie alla presenza premurosa di Gesù, ogni situazione di crisi si trasforma in esperienza di chiamata, che rinnova e radicalizza quella che abbiamo già ricevuto e grazie alla quale siamo qui anche oggi. E Pietro, proprio come noi, per un certo tratto riesce effettivamente a fidarsi della parola di Gesù e sovrasta la propria crisi, ma poi di nuovo prende il sopravvento il dubbio e la stanchezza: quante volte ci è capitato di sentire forte la presenza del Signore che ci rialza dalle nostre crisi, di iniziare spediti il cammino della fede e poi di perderci per la strada, soverchiati dall'abitudine o da nuove paure! Ma Gesù afferra Pietro e lo fa risorgere (il gesto di stendere la mano e di afferrare per risollevare è lo stesso compiuto con la figlia di Giairo). Sì, anche se non ce ne accorgiamo, noi siamo dei risorti e siamo così grazie al Risorto, colui che è per questo il figlio di Dio. La "sgridata" di Gesù e la professione di fede dei discepoli, con le quali si chiude il nostro testo, sono un chiaro riferimento all'esperienza della conversione, a cui approda ogni esperienza di crisi vissuta dai discepoli.


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