Paolo Boschini
In
questo testo, che Matteo ha ereditato da una delle tradizioni più antiche del racconto
evangelico, troviamo le parole chiave del primo vangelo, che funzionano come rimandi ai
fondamenti della fede cristologica matteana (un po' come i "links" in internet).
Vi segnalo solo le più importanti: barca (discepoli, parabole, nuovo popolo di Dio);
monte (beatitudini, nuova alleanza, preghiera); mare/notte (esodo, pasqua, passione);
Pietro (fede, rinnegamento, chiesa); figlio di Dio (Padre, pagani, salvezza/regno di Dio).
Quindi, ci troviamo davanti ad un testo molto complesso, che si apre una serie pressochè
infinita di finestre su tutto il vangelo di Matteo. S'impone perciò una scelta. Prendiamo
allora la parola "barca", che del resto mi sembra il leit-motiv di questo testo,
anche se devo subito dire che l'evangelista ha costruito il racconto in modo che l'accento
cada sull'ultima frase: "Tu sei veramente il figlio di Dio", che non a caso è
identica alle parole sulla bocca del centurione pagano ai piedi della croce di Gesù.
Certamente alcuni dei discepoli erano pescatori e quindi conoscevano
bene sia la tecnica della navigazione, che le insidie del piccolo ma burrascoso lago di
Tiberiade. Matteo vuole mettere in luce due aspetti. 1) Non si tratta di una tempesta di
dimensioni colossali, è nella norma. Fuori di metafora: il testo non si riferisce alle
grandi e speriamo rare crisi della nostra vita personale o collettiva, ma a tutte quelle
situazioni di difficoltà e disagio di cui è intessuta la nostra quotidianità. La vita
di una comunità cristiana non corre mai sul velluto, ma è faticosa, anche perché non
può svestirsi di quella componente di paura e di peccato, che appartiene al più profondo
del nostro cuore. 2) Basta una situazione meteo sfavorevole, per rendere la barca
ingovernabile, sì che la perizia dei pescatori non serve a riportarla a riva. La chiesa
è spesso un guscio di noce, sballottato dalle onde, senza una rotta precisa; noi
cristiani siamo spesso in una condizione di impotenza di fronte a situazioni che ci
sovrastano. Il problema è che basta un po' di vento contrario per mettere noi e la nostra
chiesa in questa situazione senza uscita.
Nel frattempo Gesù, che come abbiamo già detto è il vero
protagonista dell'episodio, è "sul monte, da solo, a pregare". Gesù è nella
stessa situazione di Mosè salito sul Sinai per stare a colloquio con Dio, mentre a valle
Israele si costruiva un vitello d'oro e lo eleggeva come proprio salvatore. La menzione
del sopraggiungere delle tenebre dice non solo che la situazione di peccato si protae,
senza che Dio manifesti l'intenzione di intervenire; ma anche che per Gesù tutta la sua
vita sta in questo rapporto faccia a faccia con il Padre. Noi che spesso viviamo il
rapporto con Dio all'insegna del conflitto o del sospetto, facciamo molta fatica a capire
come si possa stare tanto tempo in preghiera senza stancarsi, e facciamo ancora più
fatica ad acettare che questo tempo si protragga, quando è chiaro che c'è bisogno di
muoversi, di fare qualcosa per aiutare i discepoli.Già, ma che cosa? Può un uomo da solo
soccorrere i propri amici, sfidando il mare in burrasca?
Gesù compie un gesto del tutto inaspettato, anche perché chiaramente
esso non appartiene alla gamma delle possibilità umane: va incontro ai suoi, camminando
sulle acque. Subito, ci viene da gridare al miracolo e conseguentemente pensiamo che si
tratti di un gesto assolutamente straordinario e irripetibile, di cui solo pochissimi
possono essere i beneficiari. Ma non è così. In sottofondo sembra di sentire la voce
dell'evangelista che sussurra alla sua comunità: "vi ricordate quante volte anche
noi ci siamo trovati in grande difficoltà? quante volte la crisi ci ha assalito e
sembrava impossibile potercela fare? eppure, ogni volta abbiamo sperimentato la vicinanza
del Signore, la forza del suo amore che salva, la liberazione dall'angoscia e dal
pericolo". Questo lo possiamo, anzi con riconoscenza lo dobbiamo dire anche noi.
Certo, sulle prime ci è stato difficile riconoscere Gesù, lo abbiamo considerato anche
noi un fantasma, un'allucinazione dovuta alla paura. E così lo abbiamo messo alla prova,
chiedendo un segno ("se sei tu, comanda che..."), che altro non è che un segno
della nostra fede intaccata dal dubbio.
La reazione di Gesù è anch'essa sorprendente: non sgrida Pietro, non
rinfaccia ai discepoli la loro pochezza (lo farà dopo, a bocce ferme, ma ciò avra
tutt'altro significato), ma lo chiama, proprio come aveva fatto sullo stesso mare qualche
tempo prima. Grazie alla presenza premurosa di Gesù, ogni situazione di crisi si
trasforma in esperienza di chiamata, che rinnova e radicalizza quella che abbiamo già
ricevuto e grazie alla quale siamo qui anche oggi. E Pietro, proprio come noi, per un
certo tratto riesce effettivamente a fidarsi della parola di Gesù e sovrasta la propria
crisi, ma poi di nuovo prende il sopravvento il dubbio e la stanchezza: quante volte ci è
capitato di sentire forte la presenza del Signore che ci rialza dalle nostre crisi, di
iniziare spediti il cammino della fede e poi di perderci per la strada, soverchiati
dall'abitudine o da nuove paure! Ma Gesù afferra Pietro e lo fa risorgere (il gesto di
stendere la mano e di afferrare per risollevare è lo stesso compiuto con la figlia di
Giairo). Sì, anche se non ce ne accorgiamo, noi siamo dei risorti e siamo così grazie al
Risorto, colui che è per questo il figlio di Dio. La "sgridata" di Gesù e la
professione di fede dei discepoli, con le quali si chiude il nostro testo, sono un chiaro
riferimento all'esperienza della conversione, a cui approda ogni esperienza di crisi
vissuta dai discepoli.