Missione - Mc 6,7-13

Paolo Boschini


     Stiamo vivendo in queste settimane l'esperienza dell'incontro e della comunione tra chiese sorelle: sono con noi qui a Modena alcuni cristiani delle chiese brasiliane di Sao Paulo e di Goiàs. Da più di 30 anni sacerdoti, laici e religiosi modenesi sono in quella terra a condividere con la gente, specialmente con i più poveri il cammino della fede e la speranza per la giustizia. Ed ecco che oggi, puntualmente, la Parola di Dio ci illumina su quello che stiamo vivendo e dicendo in questi giorni.
    "Gesù chiamò i dodici e cominciò a mandarli" (v. 7): la missione riguarda tutta la chiesa, non è un compito affidato a pochi specialisti, a teste di cuoio particolarmente addestrate e temerarie. Dodici è il simbolo del popolo di Dio: tutti nel battesimo abbiamo ricevuto la chiamata ad andare e annunciare; e non possiamo decidere noi quando questa vocazione diventa operativa: la chiamata e l'invio sono inziativa di Gesù e rispondono ad un progetto d'amore che abbraccia tutti. Prima di mandarli, Gesù chiama a sé i discepoli tutti insieme, perché alla base della testimonianza c'è la comunione nell'ascolto della sua Parola e nella preghiera. Soprattutto Luca ha sviluppato questo tema, facendone uno dei motivi fondamentali degli Atti degli Apostoli (ad es, Pentecoste: At 2; l'invio di Paolo e Barnaba: At 13). Al di fuori di una relazione personale con Dio, ma vissuta insieme ai fratelli, non si può sperimentare né comunicare il suo amore, che ha tanti destinatari. 
    Anzitutto, è amore verso i discepoli stessi, che vengono mandati "a due a due": mai da soli; mai in branco. La testimonianza non è eroismo per liberi battitori, nè propaganda per riempire le chiese e le piazze. L'annuncio del vangelo è invece la diretta continuazione dell'opera di Gesù. Ha il suo stesso stile di povertà estrema: una povertà che serve a lasciar parlare Dio e a favorire l'incontro e la condivisione con la gente. Se si va a piedi, senza soldi e senza una "base d'appoggio", capita senz'altro di fermarsi, di bussare a tante porte, di sperimentare la gioia dell'accoglienza. Solo chi è povero, sa che cos'è la Provvidenza di Dio: si sente amato, accompagnato, difeso dal Padre. Solo chi è povero, sa ringraziare Dio, perché riconosce che quello che vive, è totalmente un suo dono. E' di queste esperienze che si nutre la fede dei discepoli e la loro disponibilità a continuare il cammino della testimonianza.
    Nello stesso tempo, è amore per tutti gli uomini. L'azione missionaria dei discepoli ha anche le stesse conseguenze di quella di Gesù. Mette le persone davanti ad una scelta: accogliere Dio o rifiutarlo. Ai discepoli non è risparmiata l'amarezza del rifiuto, la frustrazione dell'aver faticato tanto per nulla. Non sono da più del loro maestro. Ma anche nella delusione del fallimento, essi sono chiamati ad avere ancora fede in Colui che li ha mandati, proprio come la figura profetica del Servo di Dio di cui Gesù è la piena realizzazione (Is 49,4). E poi la missione dei discepoli ha gli stessi contenuti di quella di Gesù: mentre essi annunciano con le parole e con i gesti la prossimità del Regno di Dio, Dio stesso entra nella vita degli uomini e dona salvezza ai malati e libertà ai posseduti dal male. Sì perché i discepoli sono inviati a tutti, ma sono mandati in modo particolare ai poveri della terra: a coloro che Dio ama, ma gli uomini no.
   Noi siamo davvero discepoli e testimoni in questo modo? O una vita comoda e lussuosa ci sta distogliendo da questa chiamata alla libertà dai beni per annunciare il Regno di Dio?
    Facciamo sempre più fatica a vivere controcorrente: il profeta Amos, che continua a profetare a Batel per pura fedeltà a Dio, nonostante il divieto del sacerdote Amasia e del re Geroboamo, sembra lontano da noi anni luce (Am 7,12-14). Presi dalla frenesia di una vita dove l'avere diventa sempre più importante, non abbiamo più tempo di fermarci con i poveri e di condividere con loro. Così si sta spegnendo anche la nostra capacità di comunicare con ogni persona che incontriamo. Spesso ce la prendiamo con i giovani che stanno ore e ore incollati al telefonino e non parlano con chi hanno di fianco: i primi che hanno smesso di dialogare siamo noi adulti. Non ci crediamo più. Le tante, troppe cose che ci sono diventate indispensabili ci hanno tolto l'unica cosa veramente necessaria: la relazione con le altre persone, il riconoscerci fratelli. Questa è la nostra schiavitù, da cui solo la parola del vangelo ci può liberare. Ma perché ilvangelo risuoni, ci vuole chi lo annunci con fedeltà e coraggio (Rom 10,14-15). Chi sono oggi i nostri maestri? Grazie a chi riscopriremo anche noi di essere profeti del regno di Dio?
    L'incontro di questi giorni con le chiese sorelle del Brasile ci sta mettendo di fronte alle nostre incoerenze e alle nostre paure. Le nostre ricchezze di mezzi, di tradizione, di cultura, ecc. scompaiono di fronte alla speranza di questi cristiani che non hanno paura di compromettersi per il vangelo e per il loro popolo. E allora è un dono grande quello di poter imparare da loro e da tutte le altre chiese giovani, che stanno prendendo sul serio la chiamata di Gesù ad evangelizzare. Basterà? O dovremo lottare a denti stretti contro noi stessi, per buttare fuori dal nostro cuore e dalla nostra organizzazione di vita tutto ciò che ci impedisce di vivere cristianamente?
    Sappiamo con certezza che sarà una lotta molto dura e che ne usciremo con le ossa rotte. Ma la Parola di oggi (penso anche all'inno di Paolo agli Efesini) ci invita alla speranza: insieme all'amore di Dio per i poveri, la missione dei discepoli è il segno inequivocabile che il Regno di Dio è già cominciato: Dio sta combattendo e vincendo contro il male che abita nel nostro cuore e che di qui si diffonde alla nostra vita quotidiana e alla nostra società. E questo siamo chiamati a crederlo con ancora maggiore certezza.


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