Islam - Lc 10,25-37
Paolo Boschini
Anche oggi, noi che ci riteniamo esperti nella conoscenza
della via di Dio ci alziamo in piedi e abbiamo il coraggio di mettere alla prova
Gesù: "Maestro, vogliamo discutere con te, perché non siamo sicuri che il
tuo insegnamento sia ortodosso". Ma mentre siamo faccia a faccia con Lui,
non possiamo non lasciar trapelare la grande preoccupazione che turba il nostro
cuore: che ne è della mia vita dopo la morte? Io, i miei cari, tutti gli uomini
della terra: verso dove siamo diretti? Vorremmo una risposta dogmatica, chiara e
forte, come ci insegnava il catechismo vecchia maniera. Gesù, invece, si mette
a dialogare con noi, incomincia a farci lui delle domande: in lui abita lo
Spirito di Dio e, come fece Dio con Adamo che lo aveva sfidato, ci cerca e ci
chiede: "dove sei? perché mi eviti?". Sono due domande cariche di
passione, perché la prima interroga la nostra memoria; vuole spingerci alle
radici della nostra fede: che cosa ti è stato insegnato? E la seconda ci
ributta nel presente: e tu, che cosa stai vivendo?
Il dottore della Legge risponde solo alla prima. Ma nel fare
questo collage di citazioni di testi che conosceva a memoria (presi dal
Deuteronomio e dal Levitico), la situazione gli scappa di mano: si trova suo
malgrado a dover smascherare il suo compromesso, ad ammettere la sua ipocrisia:
si autodenuncia, dicendo quello che egli non vive. E nello stesso tempo proclama
quello che gli altri, gli infedeli alla Legge e perciò i lontani dal vero Dio,
vivono davvero anche se fuori dagli schemi rigidi e selettivi della sua
ortodossia.
La risposta di Gesù – "fa’ questo e avrai la vita
in pienezza per l’eternità" – non è solo un invito a rimuovere
l’ipocrisia, ma suona come una chiamata alla comunione di vita con tutti
coloro che amano Dio con tutto il cuore e fanno lo stesso con gli uomini.
A questo punto, scatta la contro-domanda giustificatoria, perché
ciò che Gesù gli chiede – e ci chiede – è davvero troppo: mettere in
comunione di vita, condividere le speranze con coloro che sono fuori dalla
nostra sfera religiosa e culturale. Anche noi, i dottori della legge del 2000
stiamo pensando: "Non esageriamo! Loro, quelli là, i musulmani sono uomini
sì, ma non come noi, non sono il nostro prossimo".
Allora Gesù comincia a raccontare una parabola di Gesù, perché
vuole che ci immedesimiamo in una situazione che già viviamo, vuole che
rientriamo in noi stessi, vuole che scaviamo in profondità fino alla sorgente
della nostra vita di uomini e donne. "Un uomo scendeva da Gerusalemme a
Gerico e incappò nei briganti che lo spogliarono, lo percossero e poi se ne
andarono, lasciandolo mezzo morto". Mi sembra una bellissima descrizione
dell’Islam di oggi. Gesù racconta il cammino dei nostri fratelli (fratelli!
è vero e lo possiamo gridare, perché siamo figli dello stesso padre, Abramo)
musulmani, che stanno scendendo da Gerusalemme, la città in cui il Profeta fu
elevato presso Dio, a Gerico, la città dell’idolatria, dove il nome di Dio è
disobbedito e dimenticato. Già l’attraversamento del deserto è problematico:
la fame e la sete, il sole cocente, il pericolo di perdere la strada e di
smarrirsi. Quanta fatiche nel lungo cammino dell’Islam! Come se non bastasse,
oggi l’Islam è aggredito, depredato, abbandonato a se stesso in fin di vita.
Chi sono questi briganti? Gli americani? Le forze occulte del capitalismo
occidentale? Il terrorismo internazionale? Il fanatismo religioso? Gesù, lo
sappiamo, si è sempre sottratto ad una trascrizione politica del suo vangelo.
Quindi, anche noi dobbiamo astenerci da queste facili semplificazioni, che
finiscono per parlare dell’uomo invece che parlare di Dio. Gesù ci vuole
richiamare al fatto che anche l’Islam oggi rischia di soccombere. Perché
anche? Perché è un corso un processo culturale molto profondo che sta
snaturando le religioni di tutto il mondo, da est a ovest e da nord a sud. La
grande utopia del Profeta, l’islamizzazione del mondo, ovvero il riportare
tutti i popoli e tutte le persone al puro culto dell’Unico Dio Creatore, non
riesce a reggere il confronto con l’altro processo di mondializzazione in atto
da alcuni secoli, che invece ha radici etico-economiche e che divinizza alcuni
uomini, mentre costringe interi popoli a prostrarsi con la faccia nella polvere
davanti ad un Dio che non è il Creatore di tutto. Si sta infrangendo il sogno
di poter portare anche a Gerico la spiritualità dell’adorazione assoluta e
della pura obbedienza, vissuta così intensamente a Gerusalemme. E mentre
l’aggredito reagisce e si dimena (Dio disse chiaramente al Profeta di non
aggredire mai per primi e di reagire occhio per occhio, dente per dente solo se
si è aggrediti – Corano, sura 2), i colpi dei banditi sono sempre più duri e
spietati: ormai ad essi non interessa più derubarlo, ma solo finirlo, perché
ha osato ribellarsi. Il malcapitato, che poche ore prima aveva gioito nel
prostrarsi davanti a Dio nella moschea di Omar sulla spianata di Gerusalemme,
ora vive un’umiliazione che egli non aveva cercato: gli è stata tolta quella
dignità di uomo libero e pacifico, filantropo e aperto alla cultura,
faticosamente costruita in tanti secoli di fede e di preghiera, di viaggi e di
lotte. L’indifferenza dei passanti, che scendono dalla stessa città santa,
che sicuramente hanno pregato lo stesso Dio, rende ancora più drammatica la sua
sconfitta: sta riverso ai margini della vita, è diventato il simbolo di una
guerra in cui è il nemico è talmente invisibile, che non consente nemmeno di
sfogare l’odio della vendetta.
In questa situazione che sembra definitivamente compromessa, entra
in scena questo mercante samaritano, un infedele davanti a Dio, anche se
fedelissimo agli interessi del suo portafoglio. Ma tutto questo non importa,
perché scompare di fronte al gesto di compassione che quest’uomo sta per fare
nei confronti dello sconosciuto, incontrato per caso ai bordi della strada.
"Passandogli accanto, lo vide e ne ebbe compassione": ha riconosciuto
la diversità, non ne ha avuto paura. Chissà quante volte, i familiari e gli
amici – samaritani come lui - lo avranno invitato a non stare con quelli di
Gerusalemme, perché "sono di un’altra religione", perché "ti
fregano senza che tu te ne accorga"… e chissà quante volte questi
pregiudizi avevano ottenuto l’effetto di erigere una barriera tra lui e loro.
Adesso, i motivi di tanta inimicizia non contano più: in quello là, mezzo
morto sul ciglio della strada, egli riconosce la propria umanità: anch’egli
è così; quel poveraccio malmenato e derubato dai briganti è la metafora delle
sua esistenza: il samaritano ha sempre pensato di essere felice perché ricco;
adesso capisce che anche la sua vita non vale niente e che tutti i suoi traffici
possono crollare da un momento all’altro. Di colpo si rende conto che al posto
di quello là, ci poteva benissimo essere lui. Che fare? Scappare a gambe levate
come avevano fatto prima di lui gli altri due che scendevano da Gerusalemme? O
fermarsi e identificarsi con quello là, fino al punto di rischiare di subire la
stessa sorte?
E mentre, indeciso, sta valutando queste cose, un altro pensiero lo
assale. In quel poveraccio vede il volto del suo Dio. Sì, il Dio dei senza Dio:
un Dio sfigurato dall’indifferenza degli uomini, un Dio condannato perché
blasfemo, un Dio morto nell’esclusione: buttato fuori dalla città santa, un
Dio sepolto sotto una montagna di pregiudizi perbenisti, un Dio crocifisso!
Vedere in quel poveretto il ritratto della propria umanità non era sufficiente
a farlo decidere. Ma ora che il lui ha visto il volto di Dio, non ci pensa due
volte e decide nel giro di un secondo: una scelta chiara, senza compromessi o
giochetti diplomatici. "Gli si fece vicino, gli fasciò le ferite,
versandovi olio e vino; poi, caricatolo sopra il suo giumento, lo portò a una
locanda e si prese cura di lui".
Nel racconto di Gesù, noi cristiani siamo quell’infedele che si
fa carico della vita della fede islamica, depredata, umiliata, abbandonata in
fin di vita. Ma quell’uomo, che rappresenta così bene l’Islam, ha per noi
una somiglianza inquietante, eppure evidentissima con il nostro Signore: non con
il Cristo risorto e glorificato dal Padre, ma con il Gesù crocifisso,
"scandalo e stoltezza" per gli uomini, ma "sapienza e potenza di
Dio" (1Cor 1,23-24). Solo se riconosciamo questa densità cristologia
nell’Islam crocifisso, possiamo fare nostre le parole del Concilio Vaticano II,
il quale dice chiaro che non è più il tempo dei sospetti vicendevoli e nemmeno
delle crociate: "Se, nel corso dei secoli, non pochi dissensi e inimicizie
sono sorte tra cristiani e musulmani, il sacro Concilio esorta tutti a
dimenticare il passato e a esercitare sinceramente la mutua comprensione, nonché
a difendere e promuovere insieme per tutti gli uomini la giustizia sociale, i
valori morali, la pace e la libertà" (Nostra Aetate, 3).
Oggi l’Islam si trova in una situazione di inferiorità, non
perché appartiene alla barbarie della storia umana, ma perché il suo apparato
dottrinale e la sua plurisecolare esperienza spirituale non riesce a reggere il
confronto con la civiltà moderna e la sua cultura della libertà ad ogni costo
e del primato assoluto della coscienza individuale sulla legge universale. Il
samaritano si ferma e si prende cura dello sconosciuto malcapitato perché ha
compassione di lui: non amiamo l’Islam, perché i musulmani ci stanno
simpatici e nemmeno perché il Corano contiene un’esperienza di fede più
affascinante della nostra. Oggi Gesù ci chiama a prendercene cura, perché se
esso tramonta e si trasforma da religione universale in cultura nazionale o in
fanatismo politico, il mondo religioso non sarà più lo stesso e gli uomini
faranno sempre più fatica ad "adorare l'unico Dio, vivente e sussistente,
misericordioso e onnipotente, creatore del cielo e della terra, che ha parlato
agli uomini" (Nostra Aetate, 3). Ma anche noi cristiani, se oggi non
com-patiamo con la fede islamica, non siamo più noi stessi. Ha scritto di
recente H. Tessier, arcivescovo di Algeri: "Il centro dell’esistenza
cristiana è la debolezza spirituale, quella di Gesù che accetta la condizione
di servo, per farsi vicino a coloro dai quali avrebbe potuto stare lontano.
(…) La debolezza è la condizione del dialogo. Lo sperimentiamo dopo la crisi
(la persecuzione da parte dei fondamentalisti islamici, con numerosi atti di
violenza contro i cristiani) facendo l’esperienza di un dialogo più profondo,
non solo per la solidarietà vissuta durante le difficoltà, ma anche per la
debolezza della nostra comunità. Non è possibile il dialogo quando si parte da
una posizione di forza. L’incontro tra il cristiano e il musulmano può
diventare il luogo in cui si comunicano l’un l’altro il dono di Dio. E’ ciò
che noi chiamiamo il sacramento dell’incontro. Lo viviamo in tutte le nostre
relazioni con i nostri fratelli musulmani, quando esse sono occasione di una
condivisione in profondità. Quanto più la nostra comunità è fragile, tanto
più l’incontro è profondo e libero, perché non facciamo più paura
all’altro". La com-passione non nasce da un sentimento generico e
facilmente manipolabile di filantropia: anche nell’islam che soffre, oggi
vediamo Cristo crocifisso, come lo abbiamo visto nella shoà dei campi di
sterminio nazisti e nei gulag delle epurazioni staliniste.
L’amore del samaritano si esprime in gesti concreti: lo risolleva
dalla polvere, cura le sue ferite, lo carica sul giumento, lo accompagna alla
locanda, paga per lui di tasca propria. Ognuna di queste azioni ha una
fortissima densità cristologia: l’abbassarci al livello dell’Islam ci dà
la possibilità di assomigliare sempre più al Cristo, che «da ricco che era si
è fatto povero per voi, perché voi diventaste ricchi per mezzo della sua
povertà» (1Cor 8,9). In questo sacramento dell’incontro, Cristo
risorto di cui noi siamo segno perché abbiamo ricevuto il suo Spirito nel
battesimo è tutt’uno con il Gesù crocifisso. Ma non si tratta di una identità
dentro la storia degli uomini: il Risorto, assiso alla destra di Dio, sta fuori
di essa. Per questo la com-passione dei cristiani verso i musulmani non elimina
le differenze, anzi le evidenzia ancora di più: il samaritano è vivo,
intraprendente, è un’esplosione d’amore, mentre il malcapitato è esanime,
passivo, incapace di amare, chiede solo di essere amato. Eppure nessuno dei due
può dire di essere il salvatore dell’altro, perché nell’empatia che si
instaura tra loro entrambi ricevono un dono decisivo di salvezza. E’
"l’Unico Dio, Padre di tutti, che è al di sopra di tutti, agisce per
mezzo di tutti ed è presente in tutti" (Ef 4,6) il grande, nascosto
protagonista di tutta la scena. Da Lui, noi cristiani riceviamo la croce e
incominciamo a portarla rinnegando noi stessi, totalmente svestiti dei nostri
pregiudizi e svuotati dei nostri dogmi così lontani dalla vita concreta della
fede e della preghiera. Da Lui, attraverso la nostra com-passione i musulmani
ricevono il vangelo nella sua essenza più pura: non come un pacchetto di verità
"prendere o lasciare", di dogmi da accettare per veri senza discutere,
ma come amore concreto, gratuito e disinteressato, che si spende senza
condizioni e senza misura.
E adesso, che si fa? "Va’ e anche tu fa lo stesso".
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