Giustizia - Mt 1,18-25

Paolo Boschini


    "Giusto" è l'unico aggettivo che Matteo usa per designare la personalità di Giuseppe: l'evangelista non ci vuole dire che Giuseppe è uno che ha innato il senso della giustizia. Nella Bibbia la giustizia, anche quando si riferisce a Dio, è sempre un concetto relativo: indica un modo di essere della libertà in rapporto ad altri. Giuseppe è giusto perché non usa la sua libertà in modo istintivo e arbitrario, come se Maria fosse un oggetto di sua proprietà, di cui disporre a piacimento. E' giusto, perché segue una regola. Quale? Quella della legge religiosa sancita da Dio e da Mosé sul Sinai: rispetto ad essa, però Giuseppe è in-giusto, perché non fa ciò che è prescritto alla lettera, non rompe pubblicamente il patto di fidanzamento; così facendo, non rinuncia solo ad un suo diritto, ma viene meno ad un suo dovere e crea un pericoloso precedente. Il ripudio pubblico serve a mettere in guardia altri sul tipo di donna che si ha di fronte.  Se tutti facessero come lui... 
    Giuseppe segue invece la regola del suo cuore: è un uomo innamorato e non si vuole vendicare; o forse, è semplicemente un uomo e vede nell'umanità ferita di questa donna la dignità che egli sente dentro di sé. Con lei applica una legge più universale di quella scritta sulle pietre del Sinai: fai agli altri quello che vuoi che gli altri facciano a te. E' la legge scritta nel cuore di tutti gli uomini. Applica? Vorrebbe, si scervella, tentenna... ma di fatto non ci riesce! Essere giusti rispetto alla legge del cuore è bellissimo, ma impossibile. La giustizia di Giuseppe sta per rovesciarsi nel suo contrario: non riuscirà a risolvere il problema... Maria finirà da sola in mezzo a una strada, partorirà nel deserto sotto una palma (come dice il Corano che sia effettivamente avvenuto). Quante volte il nostro "buon cuore" produce più ingiustizie del più rigido legalismo!
    Per Matteo, la giustizia non è un valore assoluto: crea più problemi di quelli che aiuta a risolvere. Non può essere invocata come la panacea di tutti i mali, perché essa è una strada ideale ma di fatto ben poco percorribile. Nelle parole dell'angelo, si annuncia un assoluto molto più grande: "Non temere". E' la proclamazione del dono divino della pace. Dio è fedele, anche quando gli uomini sono ingiusti nei suoi confronti e non ascoltano nemmeno la legge che Egli ha messo nel loro cuore. Nell'ingiustizia (apparente) di Maria e in quella (suo malgrado) di Giuseppe si annuncia la realizzazione della grande promessa: "giustizia e pace si baceranno" (Sal 85,11). Viene il Messia, il "Principe della pace" (Is 9,5): il suo dono regnerà "fino agli estremi confini della terra" (Mi 5,3-4).
    Noi diciamo: "non c'è pace, senza giustizia"; non c'è dono di Dio senza impegno degli uomini. Salvo poi impelagarci in una serie infinita di compromessi morali e di cavilli giuridici per giustificare la nostra incapacità prossoché assoluta di costruire sia l'una che l'altra.
    Matteo dice invece: "non c'è giustizia, senza pace"; non c'è impegno degli uomini, senza apertura all'iniziativa prioritaria di Dio  e senza accoglienza del suo dono. La pace non è un valore, ma una persona: l'Emmanuele annunciata dai profeti. La giustizia è la risposta degli uomini, che riformano la loro vita individuale e i loro ordinamenti per fare spazio al Dio della pace che viene come un pellegrino a "mettere la sua tenda in mezzo a noi" (Gv 1,14). La giustizia nasce dalla fedeltà: siamo giusti perché siamo amati (Rom 5,19). Non viceversa. La riforma del mondo (e della chiesa) inizia dalla conversione del cuore alla parola del Vangelo e dal riconoscimento che voce di Dio parla a tutti, in molti modi. Per questo, la pace che nasce dal dono della Parola di Dio come luce per ogni uomo è un bene universale, che appartiene al patrimonio di tutte le religioni: quando invochiamo "Cristo nostra pace", riconosciamo che questo dono è fatto a tutti, "ai giusti e agli ingiusti", e che esso supera infinitamente la nostra capacità di creare un mondo più giusto.


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