Carcere - Mt 11,2-11
Paolo Boschini
Visto da fuori, il carcere è un'indispensabile misura
protettiva per la sicurezza di tutte le persone perbene. Ma visto da dentro, da
chi ci vive, il carcere è di più che una limitazione della libertà individuale: è
umiliazione, cancellazione della dignità personale, eliminazione della sfera privata.
Esso non è nient'altro che privazione. Ogni sogno è infranto,
stritolato nella morsa di un tempo che non passa mai. E' la casa di una violenza
invisibile come l'indifferenza e ossessiva come la solitudine. Il carcere è la
peggiore delle morti: vivere per il futuro è attendere un riscatto che si sa in
partenza che non arriverà; vivere per il presente è consegnarsi alla
disperazione dell'essere trattati come un oggetto; vivere per il passato è distruggersi di malinconia, per tutto
quello che si sarebbe voluto, ma non si è riusciti a fare.
Giovanni, il grande profeta di Dio, è in galera e vive la
sua condizione di detenuto con gli stessi stati d'animo dei carcerati di allora
e di oggi. Lui aveva scelto la povertà per essere un annunciatore credibile del la venuta del
Messia. Ma adesso la povertà si è abbattuta su
di lui: ha invaso la sua vita ben oltre i suoi progetti. Come un fiume in piena,
travolge tutto quello che incontra. L'uomo delle certezze assolute è diventato
un incredulo diffidente, un cieco che brancola sotto il sole delle luminose promesse di Dio.
Il profeta irriducibile, quello che stava dalla parte di Dio a qualunque costo,
si è arreso; e quando Erode Antipa gli farà tagliare la testa, il carcere lo
aveva già ucciso.
Mentre tutti, anche i suoi fedelissimi, lo trattano da uomo
già morto, Gesù lo considera e lo ama come una persona viva. Anzitutto, gli
restituisce la sua dignità di uomo e di profeta, scegliendolo come suo
interlocutore privilegiato per rivelare al mondo la presenza del Regno di Dio,
che riscatta gli umiliati e dona speranza ai poveri: neanche con i propri
discepoli, Gesù parla così chiaramente di Dio e della salvezza!
Poi, riaccende dentro di lui la speranza, perché gli dice
che proprio lui è il cieco che non crede più in Dio; lui è lo zoppo che ha
smesso di camminare; lui è il lebbroso, escluso per sempre dalla compagnia
degli altri uomini; lui è il povero su cui si abbatte la sciagura di un mondo
competitivo. Per lui, il Vangelo è parola efficace di salvezza, perché gli
apre il cuore sulla verità più sconcertante: "Nella mia difesa in
tribunale, nessuno mi ha assistito, tutti mi hanno abbandonato. Il Signore però
mi è stato vicino e mi ha dato forza perché per mio mezzo si compisse la
proclamazione del messaggio e potessero sentirlo tutti. Il Signore mi libererà
da ogni male e mi salverà per il suo regno eterno" (2Tim 4,16-18).
Infine, lo riabilita agli occhi degli uomini, sempre pronti a
esaltare i vincenti e a stroncare gli sconfitti. Non è un discorso di
circostanza, come facciamo noi, quando riabilitiamo tardivamente un morto: tanto
non dà più fastidio e si può fare bella figura con poca spesa. Gesù riscatta
un uomo vivo, si compromette per lui fino in fondo. Chi si schiera così per un
carcerato, prima o poi finirà in catene; chi si espone per un candidato al
martirio, farà la stessa fine. Gesù lo sa. Ma non si tira indietro, perché
anch'egli è profeta, anzi molto più che profeta; e nel suo intimo vuole una
cosa sola: stare dalla parte di Dio suo Padre. Dio è con Giovanni proprio
perché e nel momento in cui la sua missione è fallita e farà lo stesso con il
proprio Figlio crocifisso.
Il vero amore è sempre e solo amore degli sconfitti.
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