Attesa - Mc 13,33-38
Paolo Boschini Marco è uno scrittore molto raffinato,
capace di creare sintesi del tutto personali attingendo al materiale che i racconti
ricevuti oralmente gli offrono e riformulando con geniale sobrietà l'insegnamento del suo
principale maestro, l'apostolo Paolo. Questa parabola è uno dei casi più significativi
di questa sua fedeltà creatrice al messaggio cristiano e rappresenta anche per noi un
esempio e uno stimolo a fare altrettanto: non per addomesticare il vangelo, ma per
renderlo pienemente comprensibile (anche nella sua portata scandalosa e provocante) agli
uomini di oggi.
La parabola originaria di Gesù era limitata probabilmente all'immagine
del portinaio e del padrone di casa: egli doveva restare lontano per un breve periodo, per
partecipare ad un banchetto, che si sarebbe protratto fino a tarda ora. Anche nella
versione attuale, l'invito alla vigilanza conserva espressioni del linguaggio ebraico
sapienziale, che attraverso l'immagine della porta richiamano all'ascolto di Dio (Prov
8,24: "beato l'uomo che mi ascolta, vegliando ogni giorno alle mie porte, per
custodire attentamente la soglia"; Cant. 5,2: "Io dormo, ma il mio cuore veglia.
Un rumore! il mio diletto che bussa: Aprimi, sorella mia..."). Gesù si rivolgeva
alle guide del popolo, gli scribi e i maestri della legge, che pretendevano di avere le
chiavi del Regno dei cieli (Mt 23,13). E li ammoniva: "Dio vi ha affidato grandi
responsabilità: voi siete le guide spirituali del suo popolo, avete la chiave per
interpretare oggi la sua volontà a partire dalla sua Parola. Attenti! Il giudizio di Dio
è alle porte: non fatevi trovare impreparati, perché vi verrà chiesto conto di come
avete esercitato il vostro servizio di guida, se avete abusato della fiducia che Dio ha
riposto in voi, se avete aiutato i vostri fratelli a varcare la porta del Regno di Dio, o
se viceversa con la vostra superbia o con la vostra incoerenza avete chiuso loro il
passaggio". Era un chiaro invito alla penitenza e alla conversione, sulla falsariga
dell'immagine della veste bianca (Mt 22,11-13): "siete invitati alla festa di Dio;
non indugiate, lavate subito il vostro vestito; la chiamata può arrivare in ogni istante;
mettete oggi l'abito della salvezza, perché chi sarà trovato impreparato, resterà
escluso per sempre dalla benevolenza di Dio". Gesù invitava tutti, ma soprattutto
coloro che avevano conoscenze culturali e teologiche e responsabilità educative e
pastorali, a riconoscere che in lui il Regno di Dio si era fatto presente nella vita del
popolo eletto e di tutta l'umanità; questo fatto sconvolgeva tutte le abitudini, le
regole e i pensieri umani e creava nel cuore degli uomini una crisi senza precedenti, di
fronte alla quale non c'era alternativa: o si riconosceva in Gesù l'inviato di Dio e si
diventava suoi discepoli; oppure, ci si chiudeva da soli la porta della salvezza e ci si
autogiudicava indegni di varcarla.
Marco ha riletto queste parole di Gesù a partire dalla predicazione di
Paolo, che sin nel suo primo scritto invita i cristiani a stare svegli, a non lasciarsi
intorpidire dal peccato, perché il ritorno del Signore è vicino (1Tess 5,2-8; anche Ef
5,8-14). Ma vi introduce elementi attinti da altri contesti della tradizione cristiana.
In primo luogo, il motivo del viaggio. Con esso l'evangelista esprime
anzitutto la sua convinzione che l'attesa del ritorno di Gesù è a tempo indeterminato (a
questo serve il richiamo alla scansione delle quattro ore della notte secondo l'uso
romano): Marco appartiene già a quella generazione - come siamo anche noi - che deve fare
i conti con il ritardo della salvezza finale, con il conseguente persistere del male nel
mondo e con tutti i dubbi e le incertezze di fede che questo fatto porta con sé. Poi, il
viaggio è una metafora della morte (ne abbiamo ancora traccia nell'interpretazione
psicanalitica dei sogni). Infatti, nel seguito di questo vangelo non si dice nulla né
della reazione dei discepoli, né di cosa faccia o dove vada Gesù; ma l'evangelista
attacca subito il racconto della passione e ci presenta di lì a poco i discepoli che,
invitati a vegliare e a pregare nell'ora della prova, vengono trovati addormentati da
Gesù nell'orto dei Getsemani (Mc 14,37-39). Se vuole attendere il giorno del Signore e
della salvezza definitiva ed essere trovata pronta, la comunità dei discepoli dev'essere
anzitutto fervente nella preghiera e nella carità vicendevole: il trionfo finale di Gesù
passa necessariamente attraverso il fallimento di ogni speranza umana e il dono totale di
sé sulla croce; lo stesso vale anche per i suoi discepoli. Essi, cioè noi siamo
avvertiti da Gesù della grande battaglia che ci aspetta per restare fedeli a lui nella
notte della sofferenza e della provvisoria vittoria delle tenebre sulle luce. L'attesa
della vittoria di Dio non deve indebolire il nostro impegno di conversione quotidiana a
Lui, lo slancio missionario e il servizio amorevole ai fratelli, per rincuorare chi
giace disperato e afflitto sotto il peso troppo grande del male e per creare qui e ora
condizioni di vita che preannuncino quel mondo di pace, giustizia e amore che solo Dio
potrà realizzare e donare a tutti nell'ultimo giorno.
A quest'ultimo motivo si riallaccia un'altra variante introdotta da
Marco: l'affidamento di un compito specifico ad ognuno dei servi. Il richiamo alla
parabola dei talenti (Mt 25, 14-30) è chiarissimo. La casa è diventata l'immagine della
comunità cristiana. Ora, il portiere è Pietro, a cui sono date le chiavi del Regno dei
cieli (Mt 16,19); egli è la personificazione di tutti gli apostoli, i testimoni
qualificati della Parola di Dio, che lo Spirito ha costituito guide e modelli di
fede per i fratelli (Eb 13,7; 2Cor 6,1-4). Gli altri servi sono i discepoli a cui lo
stesso Spirito ha dato un dono particolare per l'utilità di tutto il corpo che è la
chiesa (1Cor 12,7; Ef 4,1-6). L'evangelista vuole così descrivere la situazione in cui si
trova la comunità cristiana in questo interminabile frattempo tra la prima e la seconda
venuta del Figlio di Dio. Essa si trova in mezzo a due crisi: la croce, cioè il grande
comandamento dell'amore al Padre e ai fratelli, portato fino alle estreme conseguenze e
vissuto nella più totale gratuità, senza calcolare possibili ripercussioni negative su
di sé e sulla propria tranquillità; la fine del mondo, ovvero la lotta di Dio contro il
male fino alla sua definitiva sconfitta, che comporterà il totale rinnovamento del mondo
e di tutto ciò che Dio vi ha posto con la creazione (Apoc 21,1).
La parabola suona così del tutto nuova, frutto di un adattamento
dell'insegnamento di Gesù alle nuove condizioni di vita dei discepoli. Sin dalle origini,
la predicazione cristiana si dimostra geniale e creativa: non è la fredda ripetizione di
una dottrina marmorea e codificata. "La Parola di Dio è viva ed efficace"! (Eb
4,12). Per questo, Marco si prende l'ulteriore licenza di incastonare questa parabola tra
altre due parole di Gesù sulla vigilanza. Esse danno a tutto il racconto un tono di
esortazione e di ammonimento, perché nessuno prenda sottogamba la seconda venuta del
Messia, dimenticando di vivere questo tempo d'attesa nella speranza e nell'amore (cf. Mt
24, 45-51); ma nello stesso tempo allargano questo messaggio di salvezza a tutta
l'umanità, responsabilizzando i discepoli a diventarne testimoni in tutto il mondo e a
chiamare ogni uomo alla fede in Gesù (Mc 16,15).
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