In séguito alla crisi che da alcuni mesi sta flagellando il Vicino Oriente, Nevé Shalom / Wahat al-Salam (l'"oasi di pace" fondata in Israele da padre Bruno Hussar, nella quale ebrei e arabi di cittadinanza israeliana conducono da una trentina d'anni una civile convivenza) è diventata il centro d'elezione per incontri e consultazioni fra le varie organizzazioni impegnate a promuovere la pace. Più d'una volta dall'inizio delle tensioni e degli scontri, rappresentanti di tali organizzazioni si sono dati convegno nel villaggio onde concordare strategie comuni e promuovere manifestazioni pubbliche dotate, grazie agli sforzi congiunti, della visibilità necessaria. NSh/WAS, inoltre, riceve continuamente visite di giornalisti israeliani e stranieri, la cui presenza mette a dura prova la pazienza degli abitanti ma soprattutto degli insegnanti, che trovano arduo svolgere con profitto la loro fatica quotidiana. Nei giornali e nelle televisioni di tutto il mondo sono ora frequenti i servizi giornalistici dedicati a NSh/WAS, cosicché i responsabili del villaggio stanno ricevendo moltissime lettere di solidarietà da sostenitori e amici dei Paesi più diversi. Certo, vivere di questi tempi in una località in cui ebrei e arabi si trovano a collaborare e a coabitare su un piede di eguaglianza non è facile. Fra gli abitanti sono frequenti le esplosioni di ira, di frustrazione, e talvolta i docenti arabi, allorché entrano in classe, non riescono a trattenere le lacrime. Ciò nondimeno una visita a NSh/WAS offre l'opportunità - oggi invero rarissima - di scoprire che la coesistenza fra i due popoli è ancora possibile. "Per parte nostra, dicono gli abitanti, stiamo ben attenti che la bufera che produce devastazioni là fuori non travolga anche noi altri". "Non si pensi - afferma l'ebreo Boaz Kita'in, direttore della scuola elementare - che le grandi correnti che sconvolgono l'intera regione restino fuori dal nostro ambiente senza penetrarvi. Gli appelli che suonano 'Morte agli arabi' o 'Morte agli ebrei' arrivano anche alle nostre orecchie. Le frustrazioni sono terribili, e così andiamo tutti domandandoci quale posto dobbiamo occupare in questi frangenti e quale atteggiamento dobbiamo assumere. Ecco un esempio. Ogni giorno io mi piazzo all'ingresso della scuola per salutare i ragazzi che entrano. Stamane un'allieva araba proveniente da uno dei villaggi qui attorno mi ha interpellato per dirmi che era in collera con una compagna ebrea: il giorno innanzi, costei le aveva chiesto se i palestinesi non fossero tutti impazziti giacché avevano preso a sassate l'automobile della sua famiglia. 'Perché mai mi dice che siamo matti?' urlava la bambina. Il conflitto tra arabi ed ebrei assume anche questi aspetti. Ne ho colto la sollecitazione e, entrato in classe, ho chiesto alla ragazza araba di esporre la propria posizione e alla ragazza ebrea di fare altrettanto. In tal modo il conflitto tra le due ragazzine ha potuto trasformarsi nell'avvìo di un dialogo". "La situazione crea difficoltà e confusione specialmente nei più giovani", sostiene Shai Schwartz, un altro ebreo che vive a NSh/WAS con la famiglia. "I ragazzi del villaggio vengono allevati nel rispetto verso quelli dell'altra parte. Piuttosto che illuderli che 'il contrasto non esista', noi ci sforziamo di informarli senza veli sulle versioni contrastanti che i due popoli danno dei medesimi avvenimenti. Lo spettacolo offertoci dai media è tale da rendere inaccettabile il fatto che tutto il buono stia da una parte sola. Il mondo visto dai media è un mondo in bianco e nero, tutti i buoni da una parte e tutti i malvagi dall'altra. Il nostro sistema educativo aiuta a capire che nella vita c'è posto per il dilemma, per le opinioni in contrasto". "I tempi sono durissimi", commenta Daphna Karta-Schwartz (la moglie di Shai), che nella scuola del villaggio è docente di teatro. "Fra i nostri studenti abbiamo ragazzini che, abitando a Gerusalemme est, sperimentano quotidianamente il clima infuocato di una sommossa che continua a nascere e a rinascere all'improvviso. Quando arrivano qui, lontano dall'atmosfera feroce della loro città, i ragazzi trovano la pace e la quiete del nostro ambiente. Facciamo di tutto per aiutarli a superare lo sconforto, offrendo loro calore e sostegno. Ogni lezione prende le mosse da un ascolto interiore, da uno sfogo del cuore. Osservo che i bambini sono pieni di paura, di frustrazione e d'ira. Così, nel nostro lavoro scolastico cerchiamo di dare corpo a un personaggio teatrale, 'Satana', il cui massimo godimento consiste nel vedere che ciascuno è in collera, combatte e uccide il prossimo. Gli obiettivi che ci proponiamo, allora, sono quelli di neutralizzare 'Satana' e di superare il nostro nemico comune, la paura". "Con l'ebreo della porta accanto io non ho problemi", afferma Anwar Daoud, l'arabo che per vari anni ha diretto la scuola elementare e da pochi mesi è il Segretario Generale [Sindaco] della comunità, "ma ho problemi con la classe politica e i membri del governo d'Israele: si tratta di un establishment che nel giro di una settimana ha fatto morire in Galilea dodici cittadini arabi. Non è ammissibile che uno Stato spari sui propri cittadini: questa è una questione su cui il mio vicino di casa ebreo e io ci troviamo perfettamente d'accordo. Devo tuttavia ammettere che differenze d'opinione anche profonde mi dividono dai vicini ebrei i cui figlioli fanno il servizio militare." Tom, il maggiore dei figli di Boaz e Daniella Kita'in, perse la vita nel febbraio 1997 a bordo di uno dei due elicotteri dell'esercito che accidentalmente si scontrarono ai confini con il Libano. Al dolore della famiglia presero parte da sùbito tutti i membri, ebrei e arabi, della comunità di NSh/WAS. E all'epoca l'opinione pubblica diede un rilievo particolare al lutto che aveva colpito i Kita'in: persone insediate da gran tempo in un villaggio in cui ebrei e arabi vivevano assieme con la dichiarata intenzione di dimostrare che la coesistenza è possibile. Tuttavia, fra gli abitanti dell'"oasi di pace" i primi seri malumori cominciarono a manifestarsi il giorno in cui i famigliari di Tom chiesero che il villaggio dedicasse un segno, una targa, alla memoria del soldatino caduto. A quel punto gli abitanti di NSh/WAS si resero conto di quanto profondamente il conflitto in atto tra i due popoli avesse fatto breccia anche nel ristretto àmbito dei loro rapporti di vicinato. In termini dolorosi, cominciarono a prendere corpo dilemmi di fondo, con i quali gli uomini e le donne del villaggio avevano sino allora evitato di confrontarsi. Come rapportarsi ai ragazzi della comunità chiamati al servizio di leva, e che fare per tenere sotto controllo la frustrazione e l'ira di una parte e dell'altra? "Devo ammettere, chiarisce Anwar Daoud, che tra me e qualsiasi genitore che abbia un figlio sotto le armi la tensione esiste. Non c'è dubbio: essa insorge tutte le volte che in gioco vi sono questioni che toccano gli orientamenti personali. Allora le divergenze diventano abissali, addirittura incolmabili. Tra la mia sensibilità e quella di un genitore che piange il figlio caduto in guerra, la distanza è enorme. Per esempio Boaz, il padre di Tom, era tra coloro che quest'anno, in occasione dell'anniversario della nascita di Israele (Yom ha-Atzmaùth), hanno acceso la fiaccola dell'Indipendenza. A mio parere, quest'atto ha rappresentato una mancanza di rispetto verso la nostra comunità. Le cose che dissi allora a Boaz lo urtarono profondamente e io non me ne curai. Oggi la situazione è diversa. Vi sono molte cause per le quali ci battiamo fianco a fianco, com'è quella di condannare l'uccisione dei nostri concittadini in Galilea. Al padre di un militare che l'altro giorno mi diceva 'Sono nell'angoscia perché non ho notizie di mio figlio', non ho saputo che cosa rispondere. A questo punto, le opinioni che ho a livello politico si mescolano all'onda dei miei sentimenti personali; e poiché riesco a comprendere quello che prova il genitore del ragazzo sotto le armi, per ora preferisco astenermi dall'esprimere critiche". "Non c'è nulla di strano: molti dei miei amici sono ebrei", esclama Samaa, la figlia dodicenne del Segretario Generale Anwar. " Nei rapporti che ho con loro ogni giorno, non mi càpita mai di chiedermi se sono ebrei o arabi. Tutto ciò è molto naturale qui da noi. Le cose funzionano così nel nostro villaggio". Samaa studia a Ramle, in una scuola media cristiano-ortodossa. "È lì, nella mia classe, che i ragazzi fanno discorsi contro gli ebrei in una chiave razzista e unilaterale. Quando parlano degli ebrei, tengono conto soltanto dei loro comportamenti cattivi, mentre sorvolano sul fatto che gli arabi incendiano le automobili". Ilan Frisch, uno dei pionieri ebrei della comunità, ha un figliolo sotto le armi, inquadrato in un'unità di combattimento, il quale afferma: "Molte volte questo conflitto è privo di sbocchi". Un altro arabo, Abdessalam Najjar, che è anche uno dei pionieri di NSh/WAS, confessa che talvolta, alzandosi al mattino, desidererebbe non incontrare alcun ebreo. Nevé Shalom / Wahat al-Salam, una minuscola isola nel cuore di un oceano in tempesta, vede i suoi abitanti compiere sforzi quotidiani per non lasciarsi travolgere dai marosi che li assalgono da ogni parte. Di questa strenua resistenza, Daphna Karta-Schwartz dà un'idea dicendo: "Ogni mattino contiamo fino a dieci, cerchiamo di contenere la nostra ira e, tutti insieme, tiriamo avanti sulla nostra strada".

Bruno Segre