Gilberto
Gilberto era l'ultimo di cinque fratelli.
Alquanto più giovane degli altri quattro, si trovava nella tipica posizione dell'ultimo nato, su cui convergono le attenzioni e l'aspettativa di tutta la famiglia: papà, mamma e fratelli.
Questa convergenza rimaneva attuale nonostante i suoi ventun anni e la sua taglia robusta, che facevano di lui quello che suol dirsi un ragazzo ben piantato.
Da anni ero amico dei fratelli più anziani e, di riflesso, anche suo.
Fu in occasione di controlli sanitari effettuati, nello stabilimento meccanico in cui egli lavorava, che i medici espressero un dubbio gravissimo: un tumore al polmone.
Una notizia incredibile: quel ragazzone atletico pareva piuttosto il ritratto della salute.
Fu prontamente ricoverato per l'espletamento degli esami che avrebbero dovuto, di lì a pochi giorni, confermare il dubbio.
I familiari mi pregarono di seguire Gilberto in questa sua prima settimana di degenza con un'assiduità resa possibile dal mio vivere in città.
Ricordo ancora quel lontano pomeriggio, inconsapevole che quello sarebbe stato il primo di una lunga serie di incontri: con Gilberto prima, poi con i suoi giovani amici malati conosciuti tramite lui, e successivamente con gli amici degli amici, scaglionati nell'arco di un decennio singolare.
Andai a trovare Gilberto durante l'ora di visita dalle tredici alle quattordici. Si mise la giacca da camera bruna sopra il pigiama, accese una sigaretta e scese con me lungo lo scalone, visto che avevamo deciso di passeggiare per i viali e goderci quell'ultimo caldo di fine autunno. I1 discorso cadde dapprima sul perché di quel suo ricovero così repentino e sul significato dei controlli, di cui tutti, con ansia, attendevano l'esito.
Fortunatamente il suo stato "consapevole" di salute era ancora tale da orientare i suoi pensieri e i suoi discorsi su argomenti connaturali ad un giovane della sua età. Fu così che la conversazione venne facilmente dirottata sulla sua intenzione di sposarsi presto e l'incongruenza finanziaria che tale disegno presentava con il suo attuale trattamento retributivo.
Questa constatazione si trasformò ben presto in polemica accesa e risentita. Polemica che assunse toni acuti nel rilevare disparità di trattamento, che gli apparivano vere e proprie ingiustizie. Molti aspetti di quella sua situazione mi erano noti, il che mi permetteva di cogliere, nel suo dire, più che una punta di esagerazione.
Ma quello che strideva - in me che sapevo - con il grave dubbio che pesava sul suo domani, era quella sua sicurezza nel programmare, quell'animosità nel giudicare e nel pretendere.
Da un lato godevo di questa sua esuberanza giovanile proiettata verso la vita, ma perché appunto
tale, essa suscitava in me uno stato di profondo disagio e di preoccupazione.
Di lì a qualche tempo sarebbe stato in grado di accettare la grande prova? Lui che reagiva così risentito nei riguardi delle piccole ingiustizie del suo mondo "normale", come avrebbe reagito alla "ingiustizia grande" che stava per riservargli la vita? Mi pareva opportuno che quella sua aggressività dovesse lasciare il posto ad un atteggiamento più distaccato che, senza annullare quelle problematiche, gli permettesse, oltretutto, una loro valutazione e soluzione in termini di maggior libertà interiore.
Fu così che, mentre tornavamo lungo il corridoio del sotterraneo verso la scala che porta al reparto i corridoi erano pressoché vuoti: la nostra passeggiata era durata ben oltre il tempo concesso ufficialmente - gli dissi: - Vorrei farti una proposta. Perché non affronti il problema con un po' più di respiro? Ad esempio, almeno per il periodo che dovrai passare in ospedale, poni in primo piano la situazione di Gilberto come uomo: proponendoti di acquisire una tua maturità, nella quale affrontare e risolvere poi questi od altri problemi che la vita ti metterà davanti.
- Ma io ho il diritto di pormi queste cose.
- Direi anche il dovere. Ne faccio soltanto una questione di modo e di tempo. Tanto più che mentre sei qui dentro, esse non ti incombono in termini tanto pressanti.
- Che cosa dovrei fare secondo lei? - La mia proposta sta appunto in questo: considera il periodo dell'ospedale come se tu stessi facendo i "santi spirituali esercizi". In questo tempo, fidandoti nella sua parola: "Cercate prima il regno di Dio e la sua giustizia: il resto vi sarà dato per giunta", deponi nelle sue mani i problemi particolari che ti assillano per il presente e per il domani. Intanto tu dai la precedenza alle cose del suo regno nei pensieri della tua mente e negli affetti del tuo cuore. Non si tratta assolutamente di una rinuncia, ma di affrontare le cose dalla parte giusta e, ritengo, più efficace.
- Credo di capire, ma non è facile darle una risposta.
- Se dovessi sintetizzare ulteriormente il tema: orientare durante questo periodo la tua mente e il tuo cuore come se l'uscita dall'ospedale coincidesse con l'entrata in paradiso.
- Vorrà almeno lasciarmi ventiquattro ore di tempo prima di darle una risposta! - Auguri.
Eravamo ormai arrivati alla fine dello scalone. Ci salutammo sulla porta del reparto. Fu quella la conclusione del primo di una lunga serie di giorni.
L'indomani, alla stessa ora, la nostra seconda passeggiata. Mi affiancò mentre scendevamo lo scalone.
Ricordo che era molto allegro, rideva e si presentava molto più sereno e sollevato di ieri. Fu lui a tornare sull'argomento lasciato in sospeso.
Lo fece con naturalezza, con tono scherzoso, chiaramente teso a svuotare di ogni drammaticità la sua dichiarazione: - Ho ripensato a quella sua proposta... E va bene. Proviamo pure! Già da allora, al di là del tono, si vedeva chiaramente che l'impegno era senza riserve; almeno a livello della consapevolezza maturata al tempo di quel suo primo passo.
Lungo i quattordici mesi del suo calvario tale consapevolezza si sarebbe via via arricchita. Quante volte il ricordo di quell'impegno sarebbe stato esplicitamente da lui evocato! Aggiunse solo: - Se lasciassimo a lui ogni iniziativa? A lui porvi termine quando e come vorrà? Mi guardò un po' di traverso con l'occhio furbescamente sorridente e concluse: - E va bene! Non tardò molto a venire la conferma tanto temuta. I medici non avevano più alcun dubbio. Avanzavano addirittura anche una previsione in ordine al decorso: un anno o poco più.
Come mi sarei comportato nei miei incontri con lui ora che non c'erano più dubbi? Decisi che i miei rapporti sarebbero stati improntati all'insegna della amicizia e della sincerità. Non mi competeva nient'altro di più. In quell'impostazione avrei lasciato a lui l'iniziativa adeguandovi di volta in volta il mio comportamento.
Gli venne concesso di passare Natale a casa, dove rimase per un po' di tempo. Poi fu un alternarsi di periodi di ricovero e di altri passati al paese. In queste brevi parentesi, nei primi tempi lo si vedeva a spasso. Andava a trovare gli amici di lavoro, i conoscenti. Poi ebbe un periodo in cui si rinchiuse in se stesso, non era infrequente che reagisse con stizza.
Non conoscevo ancora cosa significasse questo passaggio e quanto fosse delicato! Col passare del tempo accusò una stanchezza sempre più profonda. Acciacchi via via più frequenti, fino ad assumere carattere di continuità, lo costrinsero ben presto a passare la maggior parte del suo tempo a letto. Non ricordo molti dettagli di quel suo periodo, anche perché non era assolutamente mia intenzione violare in alcun modo il suo riserbo.
Fu lui, che una sera di fine primavera, cominciò a rendermi partecipe dei suoi pensieri.
Era stata per me una giornata molto intensa; alle undici di sera ormai suonate mi accorsi che da alcuni giorni non ero passato a trovare il mio giovane amico, da qualche tempo dimesso dall'ospedale, ma costretto a letto a casa sua.
Nonostante l'ora tarda tentai ugualmente di passare da lui: nell'eventualità avessi trovato la luce accesa, sarei entrato.
E cosi fu. La mamma sua e la sorella stavano terminando i lavori in cucina. Mi dissero che Gilberto era ancora sveglio nella camera grande. Bussai, entrai e, cercando di darmi il tono più disinvolto che potevo, lo salutai con un; - Come la ti va? - Male; sono veramente stufo questa sera! È stato un viavai di gente, oggi. Di donne soprattutto.
"Poverino qui, poverino là". Possibile che non possano starsene a casa loro, se non sanno far altro che lamentarsi al posto mio?! - Sono passato a darti un saluto in fretta. È tardi, me ne vado subito, non vorrei stancarti anch'io.
- No, no, cosa dice: con lei è un'altra cosa. Si sieda...
Mi sedetti a fianco del letto e cominciammo a conversare con scioltezza, quasi con allegria.
Mi disse: - Stamattina è stato qui Felicino.
- E chi è? - Come, non conosce ancora il nuovo curato! È proprio un bel tipo, bisogna che glielo presenti. É venuto a portarmi la comunione. Aveva una tosse ed una mezza bronchite addosso, che pareva più ammalato di me. E sa perché? Perché lui corre come un matto con la sua vespa. Ha le gambe corte e, quando nelle curve perde l'equilibrio, rotola a terra. È così che ha massacrato il parabrezza della sua vespa. Poiché non ha i soldi per comprarne uno nuovo, va via senza, e la corrente d'aria gli combina il pasticcio.
L'ho saputo da lui, me lo ha raccontato questa mattina. Allora gli ho detto:
"Senta, vada dai miei fratelli e si faccia dare il parabrezza della mia vespa.
Tanto io non potrò più adoperarlo!".
Guardandomi fisso, continuò: - Ma io ho detto alla Madonna: "Guarda che il parabrezza io lo regalo a te; tu, in cambio, fammi guarire".
Al di là del fatto in sé, al di là del vivo desiderio che io conoscessi don Felice per comunicare anche a me la gioia dell'amicizia di quel prete singolare, era chiaro in lui il desiderio di affrontare per la prima volta il problema della sua malattia uscendo dal suo riserbo per il quale, fino ad allora, si era tenuto tutto quanto dentro. Aveva già accennato qualcosa, pochi giorni prima, al fratello immediatamente maggiore di lui.
I1 dono di quel parabrezza era molto significativo.
Mi venne alla mente di suggerirgli l'idea di renderlo ancora più perfetto: donarlo senza nessuna contropartita. Ma non me ne sentivo il coraggio.
La conversazione continuò ancora abbastanza a lungo, nonostante l'ora tarda. Ritornò sull'argomento della sua malattia e mi disse di conoscerne la vera natura: perfino il nome, che mi espresse in termini medici esatti.
- Come fai ad esserne così certo.
- In reparto i ricoverati si sono fatti due o tre copie delle chiavi dell'armadio che contiene le nostre cartelle cliniche. Sono chiavi che passano di mano in mano e vengono lasciate in eredità ai nuovi, da chi se ne va. Anch'io ho letto la mia, perciò so tutto.
Non sapevo che cosa dire. Fortunatamente fu lui, che intuendo forse il mio imbarazzo, cambiò discorso. Dopo aver parlato del più e del meno, scherzato anche, guardai l'orologio e gli dissi: - È l'ora di andare a nanna e che anche tu ti metta a dormire.
- Adesso sì. Grazie di essere venuto.
- Grazie a te. Buona notte.
- Buona notte.
Stavo uscendo dalla porta, quando mi ritornò alla mente la proposta che avevo poc'anzi lasciato cadere.
Tornai sui miei passi, mi riavvicinai al suo letto e: - A proposito del parabrezza. È bello il tuo regalo alla Madonna. Però, se esso fosse senza contropartita alcuna!? Mi guardò con un sorriso pieno di furbizia e: - Dai, Luciano, ci ero già arrivato anch'io. È ovvio quello che lei mi propone. Perché regalare per avere qualcosa in cambio non è più regalare. È vendere! Rimasi colpito da quella chiarezza essenziale.
Col passare del tempo in lui e negli altri amici, che attraverso lui avrei conosciuto, mi sarei imbattuto altre volte in questa chiarezza lapidaria. La limpidezza che acquistano gli obiettivi quando sono sofferti ed accettati attraverso il dolore, che purifica da ogni accessorio non essenziale. E avrei scoperto poi, con il passare del tempo, che cose di questo genere non si possono mai suggerire. Quando ci si riesce è soltanto perché l'interessato ci è già arrivato lui.
Iniziò un periodo estremamente delicato, in cui la consapevolezza del male si faceva sempre più netta in lui. Ne maturava tutte le conseguenze, che egli guardava in faccia, una ad una, man mano gli si chiarivano.
Un periodo caratterizzato da un progressivo processo di maturazione, che lo conduceva a distaccarsi da circostanze, cose, abitudini, affetti anche.
Ciò non lo portava assolutamente ad estraniarsi dai problemi suoi o degli altri: al contrario, lo rendeva più obiettivo e più presente con incisività ed efficacia. In una parola, lo rendeva più signore.
Non fu un processo facile, mai scontato. Molte volte passava attraverso periodi difficili in cui la presenza del dolore fisico, sempre più frequente e pesante, non facilitava certo l'accettazione di quello morale.
Ma ogni periodo si concludeva in una serenità ritrovata ad un livello più consapevole di prima: un processo di maturazione interiore nella libertà. Una dimensione nuova, prodigiosa in quel giovane, che non aveva mai evidenziato niente di eccezionale, rispetto ad un normalissimo ragazzo della sua età.
Fu così che cominciò a rinunciare alla sigaretta.
Nonostante l'insistenza dei medici - che nel fumo non vedevano certo una medicina - nei primi mesi non era riuscito a distaccarsene.
Anche l'accettazione del suo stato divenne più serena.
Un giorno mi accolse all'ingresso del reparto con: - Quando finiranno questi "santi spirituali esercizi"? - Avevamo detto: "quando e come riteneva lui".
Sorrise, e: - Va bene! Un'altra volta mi raccontò come il giorno prima era intervenuto per dissociarsi da un comprensibile coro di maledizioni sulla propria sorte e situazione, espresse con linguaggio tutt'altro che castigato dai suoi colleghi di reparto, soprattutto anziani.
Prese posizione pacatamente, ma chiaramente, sulla adesione alla volontà di chi sapeva vedere più in là degli stessi interessati.
Fece un'enorme impressione nei malati. Più di uno espresse ad alta voce la sua meraviglia: - Come? Tu che sei giovane, e quindi sei provato più ingiustamente di noi, come puoi parlare così? Ma era evidente che, più che per polemica, le loro parole erano dettate da una sorta di stupore. Esso sfociò ben presto in rispetto, ammirazione, fino a diventare affetto per lui.
Non che fosse sempre facile. Quante volte lo trovai che piangeva! Un mattino presto fui chiamato d'urgenza: aveva passato una notte pesantissima. Pareva sconsolato.
Poi si riprendeva lungo la via di quella sua ascesa sorprendente.
Cominciava ad essere lui molte volte che si rivolgeva a me con autorità morale. Un giorno, in termini molto delicati, ma fermi, mi manifestò il suo dissenso per il modo troppo duro ed angoloso con cui avevo trattato alcuni miei giovani allievi, che si erano poi confidati con lui: - Io sono molto contento quando lei viene a trovarmi, ma con me lei non tratta così! Via, faccia altrettanto anche con loro.
Un giorno, di fine autunno ormai, al comune amico dottor Giuseppe che era passato a trovarlo, chiese senza mezzi termini: - Lei non ritiene che sia meglio io abbia a lasciare libera la mia fidanzata? So che ormai non guarirò più. Perciò mi pare ingiusto tenerla legata.
Ma fu anche docile nell'accettare il parere più sereno dell'amico.
I1 tempo passava. Ogni settimana valeva mesi.
Un giorno lo andai a trovare con Antonio, suo collega di lavoro, a quel tempo in servizio militare.
Rientrato per una breve licenza, mi aveva espresso il desiderio di passare a far visita a Gilberto in ospedale.
Da tempo non lo vedeva e certamente l'incontro con lui, così trasformato, gli provocò uno stato di blocco. Nella cameretta, dove facevano compagnia a Gilberto sua mamma e la sua ragazza, Antonio si trovò ben presto in evidente imbarazzo.
La carica morale del malato - così contrastante con il suo aspetto fisico già evidentemente deperito non riuscì a dargli una mano; si sarebbe detto che aumentasse invece il suo disagio.
Gilberto si rivolse a me scherzando: - Luciano, presto arriveranno le feste. Dove sarò quest'anno io a fare Natale? Conclusa la visita accompagnai Antonio al pullman.
Lungo tutto il tragitto fino in centro non aprì bocca.
Ingannammo l'attesa dell'autobus camminando in su e in giu.
Cercai di rompere il silenzio: - Cosa c'è Antonio? - A cosa intendeva riferirsi Gilberto con la sua domanda? Cosa significa quel "dove"? - Ritengo pensasse proprio a quello che pensi tu.
Avevo toccato la piaga. La reazione infatti non mancò: - No, no! Non posso accettare, in un giovane di poco più di vent'anni, una cosa simile.
Era evidentemente agitato. Gli dissi soltanto: - Non si ribella l'interessato: vuoi ribellarti tu? In quel momento arrivò il pullman, Qualche giorno più tardi ebbi l'occasione di costatare che la mia interpretazione in ordine al significato della domanda di Gilberto era corretta.
Era il pomeriggio di s. Lucia. Entro nella cameretta dove trovo il mio amico piuttosto accigliato.
- Gilberto, scommetto che oggi hai voglia di fare i capricci! - Ah, sì! Comincio a non poterne più.
- Bene, ogni tanto ci vogliono anche i capricci.
Dacci dentro e sfogati! Si disarmò subito e soggiunse: - Scherzi a parte, quand'è che si va a casa? - Perché, non ti trovi bene in ospedale? - No, nemmeno un poco.
- E al paese ti trovi meglio? - Ma scusi, che casa ha capito lei? Stavamo avvicinandoci a Natale, era il 18 o 19 dicembre, verso sera passai dall'ospedale e trovai Gilberto sereno. Si parlava con battute scherzose. Tra il serio e il faceto - capitava spesso che usasse questa forma per porre questioni che lo impegnavano mi disse: - Arriva Natale, verrà il frate e vorrà che mi confessi. Gli racconterò bene qualche balla! Era evidente che mi poneva un problema, ma non capivo dove volesse andare a parare.
Mi fu facile dirgli: - Non si raccontano balle in confessione.
- Per lei è sempre tutto facile! Allora mi dica: io devo confessarmi, peccati non ne ho;
cosa racconto? - Arrangiati. Ma balle no! - No, non se la cava cosi. Mi deve dire cosa farebbe al posto mio.
Ero messo alle corde e cercai di pensarci. Mi venne di dirgli: - Credo che anch'io al posto tuo sarei in difficoltà. Ma penso che questo nasca dal fatto che fino ad oggi nelle nostre confessioni "normali" abbiamo sbagliato mira.
- Cioè? - Sì. Siamo troppo preoccupati di fare l'elenco dei fatti, e ci fermiamo a questi. Così difficilmente risaliamo alle cause da cui i fatti discendono.
Una pianta di ciliegie rimane tale anche quando i frutti mancano, per esempio in dicembre. Basta, però, che arrivino le condizioni ambientali idonee - cioè alla stagione giusta - e i frutti riappaiono; perché le radici sono sempre della pianta di ciliegie. Vedi, in questi mesi il buon Dio ti ha aiutato a distaccarti da un sacco di cose...
- Si, ma basta un minuto per riattaccarsi. - Mi interruppe.
- É vero. Ma volevo dire che le condizioni ambientali, le circostanze così singolari in cui ti trovi ora, concorrono a non fare accadere i fatti. Ora, per quanto dalle condizioni ambientali e per quanto invece dall'avere veramente reciso le radici, dipende la mancanza dei "frutti"? - Non so, ma visto che insisti per avere un mio suggerimento, perché non provi a fare l'esame di coscienza sulle radici anziché sui frutti? - Credo di aver capito. Grazie.
La sera seguente ci vedemmo ancora. La prima cosa che mi disse fu: - Sono ventiquattr'ore che sto facendo l'esame di coscienza secondo quanto prospettato ieri sera. Non credevo fosse così interessante. Scopro cose nuove e della massima importanza. - Non c'era in lui il minimo senso di apprensione. - Se il padre attende ancora un po' non è male: per me è tutta una scoperta di orizzonti nuovi.
Lo stesso argomento caratterizzò il nostro incontro del giorno dopo: stava meditando sulle "radici" ormai da quarantotto ore.
Passando ad altro, mi disse che l'indomani avrebbe ricevuto il permesso di tornare a casa per trascorrervi le feste natalizie. Gli promisi che sarei passato io a prelevarlo tra le diciotto e le diciannove.
Infatti la sera seguente arrivai, lungo il viale interno dell'ospedale, fin sotto la porta che immette nella scala del reparto. Avevo preparato l'interno della vettura ben caldo. Trovai Gilberto in camera già pronto: vestito di tutto punto. Gli feci i miei complimenti per l'eleganza, tanto che scoppiò in una sonora risata, sostenuta anche dalla contentezza per l'imminente rientro in famiglia. Una volta in macchina, riprese a parlare sciolto del più e del meno. Ma fu solo dopo alcuni chilometri - stavamo per uscire dalla città - che si ricordò del tema dominante: - A proposito, che disastro la confessione! - Perché? - I1 frate è entrato in camera mia, e: "Lo so Gilberto che non hai nulla: ti assolvo in nome del Padre, del Figlio e dello Spirito santo" e se ne è andato.
Era sconsolato. Gli feci notare: - Beh, mi pare sia stata la confessione più bella che ti potesse capitare! - Cosa? Ne viene ancora lei? - Certo, catechismo alla mano: tutte le condizioni per una confessione valida ci sono state - gliele enumerai. - Anche il frate, sarà stato un poco sportivo, ma era legittimato ad assolverti. Cosa ti è mancato in fondo? La soddisfazione di vuotare il sacco dopo tanta preparazione! Ma è la tua penitenza.
- Sarà!? Non era convinto del tutto!
Passò Natale e Capodanno a casa, ma ormai la situazione andava peggiorando rapidamente. Non intendeva rientrare più in ospedale, d'altra parte a casa non erano attrezzati. Fu chiesto il ricovero in una clinica dell'Italia centrale, dove era primario un amico di famiglia.
L'ultima volta che lo vidi fu quando passò davanti a casa mia e fece fermare la macchina per salutarmi.
Dieci, quindici giorni più tardi mi arrivò un suo bigliettino: "Luciano, non ce la faccio più. Preghi per me".
Dopo il 20 gennaio le telefonate del fratello e della sorella, che non lo abbandonarono mai in tutto quel periodo, riflettevano il precipitare della situazione.
Il 25, la notizia ormai attesa e temuta. Mi pregavano di andare io ad avvisare la mamma (il papà era morto ancora all'inizio della malattia di Gilberto).
Telefonai ad alcune signore, comuni conoscenti, pregandole di precedermi. Che non dicessero nulla: mi bastava fossero presenti affinché, in qualunque evenienza, la mamma fosse assistita.
Entrato in anticamera, trovai la mamma di Gilberto che parlava con le persone che sapevo. Come mi vide, non feci in tempo ad aprire bocca: - Ho capito. Non dica nulla. Ora le chiedo di portare a compimento quello che deve.
- Parto subito. Domani spero portarglielo su.
Partii con un amico per alternarci al volante. Giunti a destinazione, organizzammo il piccolo corteo.
La sorella prese posto sul sedile anteriore del furgone. I1 fratello Renato venne con noi.
I1 viaggio durò diverse ore, durante le quali il fratello mi mise al corrente dei dettagli degli ultimi giorni. Mi svelò una sua preoccupazione: la vigilia della morte, Gilberto, che era in gravissime difficoltà di respirazione, ricevette la visita di un comune amico, prelato in Roma.
Come lo vide: - Sono contento di vederla, monsignore, se non avessi questa difficoltà a respirare, le chiederei di confessarmi... Come intendo io! Venga domani mi raccomando.
L'indomani era impossibile... poi fu tutto tardi.
II fratello mi confidò che quel pensiero gli pesava: se lui avesse insistito, il giorno prima, Gilberto avrebbe potuto confessarsi.
Reagii ridendo: - Renato, se tu mi avessi detto che ci è riuscito, non ci crederei. Non entrava nel disegno. E gli raccontai la storia di cui ero stato testimone.
È stato l'ultimo suo distacco: quello che gli costò di più.
Ripensai alla strada di Gilberto. A partire dalla sua ultima sigaretta, l'accettazione della sua sorte, il distacco dalla ragazza,... via via fino a distaccarsi da ogni soddisfazione: anche quelle spirituali.
Un'ascesi, degna dei grandi mistici. Così relativamente rapida! È l'aspetto più stupefacente: in un ragazzo normalissimo come tanti altri. Come la maggior parte dei ragazzi che esistono.
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