Rioni

In questa pagina troverete le notizie sul Santo che protegge il vostro rione. Queste sono prese da fonti Cristiane pubblicate su internet da volenterosi fratelli. Per approfondimenti rivolgetevi a loro che saranno sicuramente felici di darvi ascolto. Prossimamente i prefetti completeranno la loro pagina con notizie interessanti che riguardano il rione. Buona lettura.

Sant'Antonio San Gabriele San Benedetto San Marco San Giovanni Battista
S. Michele Arcangelo
settembre
San Francesco
ottobre
Santa Cecilia
novembre
Santa Lucia
dicembre

 

 

 

 

 

 

 

 

SAN GABRIELE

1-S.Gabriele dell 'Addolorata, al secolo Francesco Possenti, nacque in Assisi dal goveratore Sante e da Agnese Frisciotti il 1 marzo 1838; fu l'undicesimo di tredici fratelli. Rimasto orfano di madre a 4 anni, fu educato accuratamente dal padre coadiuvato dai fratelli e sorelle più grandi.

2 - Egli "aveva sortito da natura un carattere molto vivace, soave, gioviale, insinuante, insieme risoluto e generoso, ed aveva un cuore sensibilissimo e pieno d'affetto... di parola pronta, propria, arguta, facile e piena di grazia, che colpiva e metteva in attenzione" (Fonti, p.24s).

3 - Piuttosto slanciato (alto circa 1,70), "di bella voce, agile e composto in ogni movimento della persona, ben formato, di bel colorito e di forme avvenenti" (ib.), era il re della gioventù di Spoleto dove il padre si era trasferito e dove egli frequentò le elementari presso i Fratelli delle Scuole Cristiane e il Liceo classico presso i Gesuiti . Amava pure il canto, e conseguì premi in poesia latina e nelle recitazioni teatrali.

4 - A tanto brio giovanile univa una singolare delicatezza di coscienza e schietta religiosità; aveva in camera un gruppo della Pietà che venerava teneramente e che poi lasciò in ricordo al pap`. La sera talvolta usciva furtivamente dal Teatro Melisso per recarsi a pregare sotto il vicino Portico del Duomo, e poi disinvolto rientrava prima della chiusura dello spettacolo per riunirsi agli altri. Talora usava anche il cilicio, ed una volta reagì con una ronchetta alle proposte di uno scostumato.

5 - Il 22 agosto 1856, durante la processione della "Santa Icone" di Spoleto la Madonna lo invitò per l'ultima volta parlandogli al cuore: "Tu non sei fatto per il mondo; che fai nel mondo? Presto, fatti religioso!" (cf. Fonti, p.208). Il 10 settembre 1856 entrò nel noviziato dei Passionisti a Morrovalle (MC), e iniziò decisamente l'ultima scalata alla santità.

6 - Nella vita religiosa S. Gabriele trovò la sua felicità: "La contentezza e la gioia che io provo entro queste sacre mura è quasi indicibile" (Scritti, p.l85). Davanti all'immagine della Madonna passava ore deliziose, e la devozione a Gesù Crocifisso era come superata dall'ardente amore a Gesù-Eucaristia.

7 - Nel Convento d' Isola il 27 febbraio 1862, mentre i primi raggi del sole entravano dalla finestra, S. Gabriele in estasi di amore e circon dato dai Confratelli in lacrime, lasciò la terra invitato al Cielo dalla Madonna. Dopo trent'anni, nei giorni 17-18 ottobre 1892 iniziava la "glorificazione" di S. Gabriele, in seguito agli strepitosi miracoli avvenuti intorno alla sua Tomba.

S. Gabriele dell'Addolorata, al secolo Francesco Possenti, nacque ad Assisi il 1 marzo 1838 in una aristocratica e numerosa famiglia. Il padre che ricopriva la carica di governatore dello Stato pontificio, lo avvio' a ricevere una educazione culturale e sociale assai completa. Le cronache descrivono il Santo come un giovane di bell'aspetto, brillante in societa e molto colto. A diciotto anni, in seguito a una visione in cui la Madonna lo invito' a farsi religioso, entro' come novizio nel convento dei Passionisti di Morrovalle (MC), e dopo aver compiuto gli studi filosofici a Pieve Torina (MC) nel 1859 giunse a Isola del Gran Sasso, per completare in quel ritiro la sua preparazione teologica prima di ricevere gli ordini sacerdotali.
Nel convento si distinse per devozione e bonta' d'animo. Pregava intere ore davanti al Crocifisso e mostrava un sentimento particolare per la Madonna dei sette Dolori cui aveva dedicato la sua vita religiosa.
Ammalatosi di tubercolosi si spense il
27 febbraio del 1862. Fu sepolto nella fossa comune dei religiosi, all'interno della chiesa del Convento. La fama della sua santita' si era intanto sparsa nei paesi circostanti e la sua tomba divenne presto meta di pellegrini e di devoti che vi ricevevano miracoli e guarigioni prodigiose.
Nel 1892 iniziava la glorificazione di S. Gabriele che veniva proclamato Santo nel 1920. Gli abruzzesi di cui e' Patrono lo festeggiano il 27 febbraio.
Dalla
Chiesa antica e' possibile seguire un percorso di visita
dei Ricordi del Santo a cominciare dalla grande sala che espone gli ex-voto per grazia ricevuta. Segue poi la Camera del Transito, trasformata in cappella e adornata dalle immagini sacre che il giovane Passionista aveva piu' care e che volle contemplare in punto di morte.
La visita continua nel coro che fu luogo di preghiera di San Gabriele e si conclude nel museo che raccoglie i cimeli, documenti e reliquie insigni.

Notizie dal sito del Convento e da Giubileo 2000 Abruzzo

La vita di Santa Cecilia

Di Cecilia non sono a noi pervenuti gli atti del martirio e nessun documento che provi storicamente le fasi più salienti della sua esistenza. Nonostante ciò Cecilia è una delle figure più significative del primo cristianesimo. Il più antico documento che ci perviene dalla tradizione cristiana è circa del V secolo: la Passio Sanctae Ceciliae.

La passio presenta Cecilia come una ragazza che viene data in sposa ad un giovane pagano di nome Valeriano. La notte successiva alle nozze Cecilia rivela al suo sposo di aver fatto voto di castità, donando la sua illibatezza a Cristo. Gli rivela inoltre di essere protetta da un angelo di Dio. Cecilia invita quindi Valeriano a convertirsi e a purificarsi alla fonte perenne della grazia, perché possa anche lui vedere l'angelo che diverrà anche suo protettore.

Valeriano si lascia convincere da tanta fede e si reca al terzo miglio della via Appia dove i poveri gli indicano dove trovare il vecchio e santo papa Urbano, nascosto tra i sepolcri. Valeriano viene così istruito nella fede e dal santo papa riceve il battesimo cristiano. Torna quindi da Cecilia e la trova assistita dall'angelo, il quale porge loro una corona di rose e gigli e al quale Valeriano chiede la grazia della conversione di Tiburzio, suo fratello, che lui stesso accompagnerà dal papa Urbano per ricevere il battesimo.

Valeriano e Tiburzio si adoperarono al servizio della Santa Chiesa per il pietoso ufficio della sepoltura dei martiri messi a morte dal prefetto di Roma, Turcio Almachio.

Fu Almachio che, istigato dal suo assessore Tarquinio Lacca, sentenziò la condanna a morte dei due fratelli che vennero decapitati al quarto miglio dell'Appia non prima di aver convertito molte persone al cristianesimo, tra le quali anche un funzionario romano di nome Massimo.

Almachio ordina di uccidere anche Massimo, che Cecilia fa seppellire assieme a Valeriano e Tiburzio in un nuovo sarcofago sul quale è scolpita una fenice, simbolo della resurrezione.

Almachio vuole quindi impossessarsi dei beni dei due fratelli e manda a prendere Cecilia, la quale viene interrogata e condannata a morte. La condanna prevedeva di farla morire ustionandola per immersione in liquidi bollenti, ma lei ne esce illesa. Visto che il supplizio non aveva dato l'esito voluto, Almachio dà disposizione che venga decapitata e sebbene il carnefice la colpisca tre volte, Cecilia sopravvive ancora tre giorni durante i quali riesce a distribuire tutti i beni ai poveri e chiede al papa Urbano di consacrare la sua casa mettendola a disposizione della Chiesa.

Urbano, aiutato dai suoi diaconi, seppellisce Cecilia nel luogo in cui si seppellivano i vescovi, i martiri e i confessori della fede Cristiana.

Questa è la storia che la tradizione cristiana ci ha trasmesso e alla quale si sono ispirati i pittori che hanno affrescato le pareti della chiesa di S. Cecilia (Bologna), sia nelle scene in primo piano, sia negli episodi narrati in secondo piano, come il battesimo di Tiburzio nella quarta scena o Valeriano che chiede ai poveri dove trovare il papa Urbano nella seconda scena.

Dalle ambientazioni, ma soprattutto dalla presenza di uno dei protagonisti della storia, S. Urbano, si dovrebbe collocare il martirio di S. Cecilia negli anni che vanno dal 222 al 230, anche se di documenti attendibili non si è in possesso.

Attualmente S. Cecilia è nota come protettrice della musica, ma questo si deve ad una interpretazione, avvenuta attorno al secolo XVI, di una parte della passio nella quale si narra che, durante i festeggiamenti nuziali, S. Cecilia in cuor suo cantava al Signore di renderla immacolata e di non confonderla. Tale testo risulta infatti adattato ed utilizzato nel passato come antifona alle lodi e ai vespri nella memoria di S. Cecilia. Nella liturgia attuale, per la memoria di S. Cecilia il 22 novembre, troviamo ancora un riferimento al canto nella orazione: "Ascolta, Signore, la nostra preghiera e per intercessione di S. Cecilia, vergine e martire, rendici degni di cantare le tue lodi."

testo da http://web.tiscali.it/agostiniani/sangiacomo.htm

Brevi cenni storici sulla figura e l'opera di Sant'Antonio abate.

Brano tratto da Biblioteca Sanctorum, Istituto Giovanni XXIII della Pontificia università Lateranense, Roma, 1962, vol. II, pp.106-114

ANTONIO abate, santo, detto anche il Grande, è il patriarca del monachesimo, famoso uomo di preghiera, celebrato lottatore contro i demoni, guaritore di infermi e direttore di anime. Nacque intorno al 250 a Coma (l’odierna Qemans), località posta sulla riva occidentale del Nilo presso Eracleopoli, nel medio Egitto, da una famiglia cristiana di floride condizioni economiche. Alla morte dei genitori, avvenuta intorno al 270, Antonio, ancora giovane, vendette le sostanze paterne, collocò la sorella presso pie donne, assicurandole i mezzi necessari al sostentamento, e distribuì infine ai poveri tutto quanto gli restava. Si ritirò in un luogo vicino al suo villaggio per condurre vita eremitica, tutta dedita al lavoro, alla preghiera e alla lettura delle Sacre Scritture, dapprima alle dipendenze di un santo monaco, in seguito in completa solitudine. Il demonio cominciò subito a tentarlo in diversi modi, ma Antonio gli resistette sottoponendosi a penitenze sempre più rigorose. Dopo poco si trasferì in un antica tomba scavata nel fianco di una montagna, la cui ubicazione era nota solo ad un amico fedele. Anche qui subì da parte del demonio terribili sevizie e così crudeli da restare tutto contuso.

Nel 285, quando ormai aveva trentacinque anni, interruppe qualunque relazione umana ritirandosi ad est, verso il mar Rosso, fra le montagne di Pispir. Si stabilì presso una fonte dove era un vecchio castello abbandonato, nido prediletto dai serpenti. In questo luogo era vietato l’accesso a chiunque, persino all’amico fedele che gli gettava i viveri al di sopra delle mura di cinta. Qui, alcuni anni dopo, diffusasi la fama delle sue virtù, molti solitari si posero sotto la sua direzione dando origine a due monasteri: uno ad oriente del Nilo presso le montagne del Pispir, l’altro sulla riva sinistra del fiume. Qui verso il 307 ebbe la visita del monaco S. Ilarione. Al tempo della persecuzione di Massimino (311) lasciò la solitudine per recarsi ad Alessandria a servire e a incoraggiare i confessori della fede. Costretto dall’indiscrezione del popolo, che il suo soggiorno alessandrino aveva maggiormente incuriosito, e anche dal desiderio di trovare una più completa solitudine, stabilì di addentrarsi nel deserto della Tebaide orientale (alto Egitto). Si unì ad una carovana di mercanti arabi e per tre giorni e tre notti camminò verso il Mar Rosso. Si fermò presso una montagna distante trenta miglia dal Nilo (Coltzum), dove trascorse gli ultimi suoi anni e da qui si recò a visitare il primo eremita S. Paolo.

I monaci del Pispir non tardarono a ritrovarne le tracce e si organizzarono per recargli una esigua scorta di viveri che il santo, a suo tempo, integrò con i frutti del suo orto che spesso le fiere o i demoni in aspetto di fiere devastavano, fino a quando il pio eremita ingiunse loro di allontanarsi in nome di Dio. Alcuni mesi prima della morte tornò nuovamente ad Alessandria per combattere gli Ariani.

Una quindicina di anni prima, aveva concesso a due suoi discepoli, Macario ed Amathas, di raggiungerlo e di far vita comune con lui. Poco prima della morte predisse loro la sua fine imminente con la proibizione di manifestare ad alcuno il luogo della sua sepoltura e ciò per sottrarre la sua salma agli onori. Morì il 17 gennaio 356 e in tale giorno e ricordato nei martirologi e nei sinassari.

Fu amico di S. Atanasio, che difese ed aiutò nella lotta contro gli ariani, per il quale si reco due volte, più che centenario, ad Alessandria a perorarne la causa, e dall’imperatore Costantino, al quale scrisse numerose lettere per il richiamo di Atanasio ad Alessandria. Fu in relazione inoltre con S. Ilarione, con S. Paolo eremita, con Didimo il Cieco. La sua vita è un tessuto di prodigi, di lotte col demonio, che lo resero uno dei santi più venerati del mondo cristiano. Antonio è l’iniziatore della vita anacoretica, cioè della vita di solitari dimoranti nel medesimo luogo ma non legati da regole. Mentre gli asceti più sperimentati si ritiravano a far vita assolutamente appartata (eremiti), i più giovani vivevano in gruppi sotto la direzione di un anziano, occupando ognuno una propria cella, separata ma vicina alle altre.

Delle opere di S. Antonio è rimasta una sola lettera autentica indirizzata all’abate Teodoro e ai suoi monaci. Le sette lettere ricordate da S. Gerolamo sembrano perdute, poiché le sette pervenute in latino probabilmente non si possono identificare con queste. Sono da rifiutarsi come apocrifi tutti gli altri scritti, assai numerosi, editi sotto il suo nome, come lettere, sermoni, regole e alcuni trattati. Le istruzioni che Antonio dava ai monaci, tranne quelle conservate da S. Atanasio, sono perdute.

Il culto di S. Antonio cominciò, per certi aspetti, durante la sua vita Antonio. S. Girolamo (Vita Hilarionis) attesta, infatti, le preoccupazioni del santo perché un certo Pergamo, ricco signore dell’Egitto, si riprometteva di trasportarne il corpo nella sua proprietà per erigergli una chiesa.
S. Atanasio, che riferisce la proibizione di Antonio ai due discepoli di manifestare ad alcuno il luogo della sepoltura, conservò con grande venerazione la tunica e il mantello che egli stesso molti anni prima gli aveva regalato. Ma il culto di Antonio varcò ben presto i confini dell’Egitto e si diffuse nell’Oriente e nell’Occidente.

S. Eutimio, abate in Palestina (+ 473), ne fece celebrare la festa il 17 gennaio e fu presto imitato da Costantinopoli. In Occidente la festa appare segnata al 17 gennaio nel Martirologio Geronimiano e in quello storico di Beda. Fu venerato in modo particolare dal popolo, il quale faceva ricorso a lui contro la peste, contro i morbi contagiosi e contro il cosiddetto " fuoco di S. Antonio ". La popolarità del culto incrementò una ricca iconografia, favorì la pia consuetudine di imporre il suo nome ai bambini e quella di intitolargli ospedali, confraternite, chiese, oratori, edicole.

Il luogo della sepoltura di Antonio era ancora sconosciuto quando Atanasio ne scriveva la Vita. Verso il 561 sotto l’imperatore Giustiniano fu scoperto il suo sepolcro per mezzo di una rivelazione. Le reliquie, trasportate ad Alessandria e deposte nella chiesa di S. Giovanni Battista, verso il 635, in occasione dell’invasione araba dell’Egitto, furono rilevate e portate a Costantinopoli. Di qui, nel sec. XI, passarono alla Motte-Saint-Didier in Francia, recate da un crociato al suo ritorno dalla Terra Santa. La chiesa costruita per accoglierle fu consacrata dal papa Callisto Il nel 1119. In seguito (1491), furono traslate a Saint Julien presso Arles.

La Vita di Antonio fu scritta da S. Atanasio, che cita persino un intero discorso, in cui è riassunta la dottrina ascetica del santo anacoreta Antonio L’opera fu scritta nel 357 secondo alcuni, nel 365-73 secondo altri, e tradotta in latino nel 388 da Evagrio di Antiochia. Questa Vita, la cui autenticità è ormai indiscussa, ha fissato gli aspetti e i caratteri più frequenti della letteratura agiografica monastica, esercitando un’influenza grandissima soprattutto in occidente.

S. Agostino, nelle Confessioni (VIII, 6, 14), nota il bene che ne ricavò al momento della conversione. L’opera diffuse largamente la conoscenza della vita monastica, diede l’avvio ad una abbondante letteratura di esaltazione della medesima. In essa il ruolo dei demoni, tentatori e tormentatori, è alquanto esagerato, come è troppo accentuata la tendenza al meraviglioso. S. Atanasio, servendosi dell’espediente caro ai retori (inserzione di discorsi), riesce ad illuminare pienamente la spiritualità del suo eroe.

Riflessioni sulla vita di S. Antonio abate. Il senso di una scelta cristiana

A cura di Giuseppe Daraio

Il viaggio che conduce Antonio e quanti con lui rivolsero, fra la fine del III secolo e l’inizio del IV secolo, la loro attenzione verso il deserto è un profondissimo desiderio di conversione. Questa parola nel suo significato etimologico greco e latino esprime il desiderio e l’esigenza di cambiare radicalmente la propria vita, di rivolgerla verso il Signore Gesù incontrato e riconosciuto nel Suo essere Creatore, Salvatore, Senso autentico della propria vita e della storia dell’uomo.
L’Egitto del III secolo era una delle nazioni più ricche e potenti del mondo antico; la città di Alessandria era una capitale di importanza mondiale sul piano culturale, sociale, economico tanto da essere chiamata " la nuova Atene ". Una vera e propria capitale del lusso, di una vita mondana elegante e raffinata, traboccante di mercanti, venditori, di fiorenti attività economiche. Ed Antonio apparteneva ad una famiglia illustre, di genitori cristiani benestanti, quindi un uomo dalle rosee prospettive di successo, che avrebbe potuto aspirare a un posto di tutto rispetto nella società del suo tempo.
Le comunità cristiane dell’Egitto erano partecipi di questo clima di agiatezza e di sicurezza: comunità del quieto vivere dove si era quasi del tutto spento il senso della sconcertante Novità che è Gesù Cristo ( "Ecco io faccio nuove tutte le cose", Apocalisse 21, 5 ), senz’altro brava gente ma adagiata nelle proprie certezze alle quali chiedeva di soddisfare il desiderio di felicità. Un certo Nepos, Vescovo di Arsinòe, predicava addirittura un imminente millenario regno del Messia che avrebbe consentito agli uomini di godersi in pace le gioie del mondo.
Una voce di grave polemica si alzò, quella di Antonio, questo giovane che riconobbe la sofferenza della sua Chiesa nelle parole di solitudine dell’Apostolo Paolo: "Affrettati a venir da me al più presto, perché Dema mi ha abbandonato per amore di questo mondo e se n’è andato a Tessalonica, Crescente è andato in Galazia e Tito in Dalmazia " ( 2, Timoteo 4, 9 ).
Egli con una scelta radicale poneva le basi di un’alba nuova; indicava agli uomini del suo tempo, tanto legati alle proprie cose, il deserto, il luogo dove l’uomo si spoglia, si fa povero materialmente e interiormente, come luogo dell’incontro con il Signore, dove l’uomo ridotto all’essenziale, temprato dalle difficoltà e dalle prove di un ambiente ostile, impara ad ascoltare la voce del suo Creatore e Salvatore e a lottare contro lo spirito della perdizione, il maligno. Se Giovanni il Battista aveva annunziato l’arrivo del Messia a partire dal deserto, se Gesù, il Messia, aveva dato inizio alla sua missione dopo quaranta giorni trascorsi nel deserto a pregare il Padre, a sottomettere la propria volontà a quella del Padre, a lottare contro il perverso allora, disse Antonio, la via della salvezza passa attraverso il deserto. Con la sua vita volle insegnare questo ai cristiani e agli uomini di ogni tempo.
Attenzione, però, solo questo era il deserto per Antonio! Troppo spesso abbiamo etichettato semplicisticamente l’esperienza dei padri del deserto come " fuga dal mondo ", quasi un disimpegno dalla vita. Il deserto cristiano non è il luogo di un aristocratico purismo che è contrario al Vangelo; era tutt’altro che la scelta di comodo di persone che si ripiegano su sé stessi spinti dal bisogno di una pace a buon prezzo, tipo New Age, perché tutti sappiamo quali sono le difficoltà di sopravvivenza in un deserto. E non poteva significare infine estraniarsi dalle sorti della Chiesa locale con un facile quanto irresponsabile "gettare la spugna ". Egli stesso, infatti, non esitò ad abbandonare il suo luogo di solitudine e preghiera e a far ritorno in mezzo alle comunità cristiane perseguitate dall’imperatore Diocleziano, nei primi anni del IV secolo, per portare la sua voce di conforto, il suo esempio di santità, spinta fino al sacrificio della propria vita, che sfidava un potere politico cieco e violento. Salvo poi il ritornarsene umilmente nel deserto quando il pericolo fu passato. Un uomo, quindi, che amò profondamente Cristo e la Chiesa, povera nella sua umanità ma ricca della potenza dello Spirito Santo.
E il tesoro che egli scoprì avrebbe nel giro di pochi anni arricchito la Chiesa intera. Una moltitudine di giovani, infatti, infiammati dal suo esempio, si pose sulle orme di Gesù Cristo trovando nel deserto la possibilità di realizzare una più alta perfezione e una totale dedizione al Signore. Essi presero il nome di anacoreti ossia di " uomini dell’esodo ", esodo dalla schiavitù del peccato e della vita pagana alla conversione, alla vita vera dei Figli di Dio. La loro vita silenziosa e nascosta era affermazione della centralità di Dio nella vita dell’uomo e dell’universo intero, una testimonianza che continua ancora oggi ad interrogare e ad affascinare tanti cristiani.
Certamente i " se " nella storia sono privi di significato ma mi piace pensare che, se Antonio fosse vissuto ai nostri giorni, avrebbe trovato nelle nostre grandi città, simili a gigantesche distese di arido cemento inutilmente animato dalla fretta e dalla saltuarietà dei nostri rapporti " mordi e fuggi ", e nei nostri paesi, ridotti in piccole periferie dove abita l’isolamento e l’indifferenza reciproca, un vero deserto dove rinnovare lo stupore dell’Emmanuele, del " Dio che abita in mezzo a noi ".

Testi tratti dal sito del Santuario di S. Antonio Abate Località Fosso Magno - Grottole (Basilicata)

RIONE SAN FRANCESCO

Parrocchia San Giuseppe Artigiano

LA VITA DI S. FRANCESCO

San Francesco nasce in Assisi nel 1182, da famiglia benestante e vive i primi anni della sua vita nella ricchezza.

A venti anni combatte contro Perugia in difesa della sua città nella battaglia di Collestrada

ed è fatto prigioniero.

Alcuni anni dopo desideroso di diventare cavaliere, parte alla volta della Puglia per combattere, ma giunto a Spoleto, una visione ed una voce misteriosa lo fermano, torna ad Assisi e per lungo tempo riflette; inizia così il periodo che lui stesso chiama "della conversione".

Nel 1206 si reca pellegrino a Roma, alla tomba di S. Pietro, scambia il ricco vestito con quello di un mendicante e si mette egli stesso a chiedere l’elemosina.

Tornato nella sua terra si occupa interamente dei poveri e dei lebbrosi.

Un giorno, mentre prega nella chiesetta di S. Damiano, il Crocifisso gli dice: "Francesco, va e ripara la mia casa che, come vedi, è tutta in rovina".

Solo un anno dopo innanzi al vescovo di Assisi, rinuncia a tutti i beni, restituendo a suo padre perfino le vesti che aveva indosso esclamando: "d’ora in poi potrò dire liberamente Padre nostro che sei nei cieli e non padre Pietro di Bernardone".

Stabilisce la sua dimora presso la chiesetta di S. M. degli Angeli (Porziuncola).

Nel 1209 in occasione della festa di San Mattia, si fa spiegare del sacerdote il brano del vangelo che riguarda la missione degli apostoli e al termine della spiegazione esulta con gioia esclamando: "questo voglio, questo chiedo, questo bramo di fare con tutto il cuore".

Dà così esecuzione al suo intento e con altri giovani che seguono il suo esempio fonda la "Fraternità Francescana".

Nel 1210 in aprile, da Innocenzo III a Roma, con i suoi primi compagni, ottiene a viva voce l’approvazione della Regola. In precedenza il Papa aveva avuto una visione del Laterano crollante e riconobbe in Francesco il piccolo religioso che lo sorreggeva.

Nella notte del 28 marzo 1211, accoglie nella chiesetta della Porziuncola, la giovane chiara fuggita dal palazzo del padre e la riveste dell’abito Francescano.

Ha così inizio il 2° Ordine o Delle Clarisse.

Nel 1212 a Roma, incontra Giacomina dei Settesoli che rimarrà affezionata al santo e sarà presente anche alla sua morte. Nel ritorno, ad Alviano, per predicare fa tacere le rondini e promette una regola di vita per tutti. E’ la prima idea per il 3° ordine.

Dal 1213 al 1218 predica il vangelo in molti luoghi e città d’Italia e compie viaggi apostolici in Francia e Spagna.

Ogni anno, riunisce ed invia nelle varie nazioni d’Europa, in Marocco e Siria, i frati, perché facciano conoscere la parola del vangelo.

Nel 1219 si reca in medio oriente tra i crociati e sconsiglia di dare battaglia; non ascoltatolo subiscono una tremenda sconfitta.

Incontra all’epoca il sultano d’Egitto che gli consentirà insieme ai suoi compagni di visitare i luoghi santi della Palestina.

Nel 1221 con il cardinale Ugolino prepara il "Memorial Propositi", ritenuta la prima regola dei penitenti Francescani.

Con frate Leone e frate Bonizio, nel 1213, si ritira a Fontecolombo (Sinai Francescano) per stendere la nuova regola dell’ordine che Onorio III, il 29 Novembre, approva con la bolla (Solet Annuere).

Nel Natale dello stesso anno a Greccio, alleste il primo Presepe (Betlemme Francescana).

Nel settembre del 1224, sulla Verna (Calvario Francescano), riceve le stimmate.

Nel 1225 dopo una notte di sofferenze compone "Il Cantico delle Creature" e il 3 ottobre 1227 in Assisi a S. M. degli Angeli, all’ora del vespro, muore.

Il 25 maggio 1230, dalla chiesa di S. Giorgio, il suo sacro corpo viene traslato nella nuova Basilica eretta in suo onore.

Papa Gregorio IX il 16 luglio 1228, lo iscrive nell’albo dei santi.

Da Papa Benedetto XV nel 1916, è proclamato patrono dell’Azione Cattolica e nel 1939, da Papa Pio XII unitamente a S. Caterina da Siena viene proclamato patrono primario d’Italia.

Da Giovanni Paolo II nel 1979 è proclamato patrono dell’ecologia.

Per altri episodi salienti non menzionati ci scusiamo, ma la sua grandezza in ogni ordine è tale che descriverla anche sinteticamente non è alla portata umana.

Primo rione a scendere sul WEB è quello di San Francesco:

Colgo l' occasione per invitarti il 4 ottobre alla processione, in onore di S. Francesco, con partenza  dall'altare del Santo alle ore 19, subito dopo vi sarà la S. Messa. Domenica 6 non ci saranno feste di tipo folkloristico ma un momento di preghiera.

Cordiali saluti

Il prefetto del rione S. Francesco

Salvatore Varvaro

SAN BENEDETTO

A Subiaco il primo nucleo abitato cominciò forse al tempo di Nerone nella zona detta ora Pianigliu. Quando vi giunse San Benedetto la popolazione era già cristiana; la chiesa parrocchiale era probabilmente dedicata a San Lorenzo e il parroco, che ebbe tanta triste parte nella vita del nostro Santo, si chiamava Fiorenzo. La vita monastica vi era conosciuta. San Gregorio ricorda il monastero non lontano da Subiaco, i cui monaci invitarono San Benedetto come loro superiore, e quello vicinissimo allo Speco, governato da Adeodato, e al quale apparteneva il monaco Romano. San Benedetto
nacque nel territorio di Norcia verso il 480 da genitori di condizioni agiate. Sappiamo che aveva una sorella di nome Scolastica, che si era consacrata a Dio in età ancor giovane. Compiuti gli studi inferiori nel luogo natio, si recò a Roma per gli studi superiori, corrispondenti alle nostre Università. Ma non vi rimase molto: inorridito della corruzione romana, si rifugiò ad Affile con la fedele nutrice. In seguito, dopo una permanenza non lunga ad Affile, desideroso di maggior solitudine, abbandonò anche la nutrice, dirigendosi verso la villa neroniana. Forse il giovane aveva sentito parlare del monastero di Adeodato; comunque, salendo il Talèo, sulla riva destra dell'Aniene, s'imbatté nel monaco Romano, che gli indicò un'orrida grotta sotto il suo monastero.

Continua nel sito dei benedettini:

http://www.benedettini-subiaco.it/benedettini/sanben.htm

SANTA LUCIA

VERGINE E MARTIRE

PREMESSA

Ø     LA FAMIGLIA DI LUCIA

Ø     LA GIOVINEZZA

Ø     LA PERSECUZIONE DI DIOCLEZIANO

Ø     IL DIALOGO CON PASCASIO

Ø     IL MARTIRIO

Ø     STORIA DEL SUO CULTO

Ø     ICONOGRAFIA DELLA SANTA

Ø     STORIA DELLE SUE RELIQUIE

Ø     INDICAZIONE BIBLIOGRAFICA

                   

PREMESSA

 

 

Numerosi sono i devoti che vengono a peregrinare fino alle Reliquie della Santa Siracusana. Alcuni giungono persino dal Nord-Europa, altri dall’America.

Ma spesso la pietà non si appaga nel visitare l’Urna o nel recitare delle preci. Vuol conoscere da vicino la Santa protettrice degli occhi.

Esaurita la « Vita di S. Lucia » del compianto prof. don Enrico Lacchin (valoroso docente di storia dell’arte nel Se­minario Patriarcale), s’è pensato di prepararne una di nuova, che pur nella brevità tenesse conto degli studi più recenti compiuti dall’agiografia.

La non lieve fatica venne generosamente portata a ter­mine dal carissimo prof. don Antonio Niero (insegnante nel Seminario).

Una piccola ricerca nel nostro archivio parrocchiale diede modo di inserire nel testo alcune stampe illustrative.

Possa ora questo piccolo libro sulla vita di S. Lucia correre nelle mani di molti per accendere nei cuori quella luce soprannaturale di cui la nostra Martire era mirabilmente dotata.

 

Don Aldo Fiorin

Parroco dei Ss. Geremia e Lucia

Docente di S. Scrittura nel Seminario

 Venezia, Chiesa dei Ss. Geremia e Lucia, 22 novembre 1965

 

 


LA FAMIGLIA DI LUCIA

 

Sul finire del III secolo (anno 281?) nacque a Siracusa S. Lucia. La città natale era famosa per essere stata fiorente centro di vita greca prima e poi d’importante commercio, intimamente legata alle vi­cende delle guerre puniche: conquistata da Roma nel 212 a. C. assolse una funzione notevole tra le città della provincia di Sicilia.

Diffusosi il cristianesimo in età apostolica per merito del vescovo S. Marziano, inviato a Siracusa da

S. Pietro stesso secondo la tradizione, ospitò l’apo­stolo S. Paolo per tre giorni nel viaggio verso Roma, come testimoniano gli Atti degli Apostoli. La fede di Cristo, nonostante le varie persecuzioni, si era potuta diffondere notevolmente: quando nacque S. Lu­cia la colonia cristiana era assai numerosa con le sue chiese e le sue catacombe cimiteriali.

Secondo la tradizione, la famiglia della nostra santa era di nobile stirpe e ricca di possedimenti ter­rieri: ci è lasciato il nome della madre: Eutichia; del padre è detto che morì quando Lucia era quin­quenne appena. Probabilmente egli poteva chiamarsi Lucio, data la norma romana di porre alle figliuole il nome del padre. Anche la famiglia forse era già cristiana se consideriamo il nome imposto a Lucia, tipicamente cristiano secondo qualcuno, ispirato al testo paolino « siete figli della luce ». Lucia significa senz’altro Luce per il dotto Tillemont.

 

 

LA GIOVINEZZA

 

Cresceva bella e buona la bimba siracusana, sot­to lo sguardo vigile della madre: soprattutto era bella nella modestia del portamento, onde la madre già pensava per lei la soluzione di un felice matri­monio.

Invece Lucia aveva ben altro proposito nella sua vita: si era consacrata perennemente al Signore con voto di verginità. Neanche la madre fu a conoscen­za di questo.

Soltanto un insieme di circostanze fortuite resero manifesta la sua consacrazione al Signore.

Alla vicina città di Catania, ogni anno solevano andare in folla i cristiani per venerare il corpo del­la vergine martire S. Agata, morta per la fede di Cristo nel 231, durante la persecuzione di Decio. I miracoli, che avvenivano presso il suo sepolcro, ne avevano diffuso la fama in tutta la Sicilia cristiana.

Il 5 febbraio del 301, festa della Santa, tra i pellegrini c’erano anche Lucia ed Eutichia sua madre.

Da oltre quarant’anni Eutichia soffriva di gravi emorragie, per le quali nessun rimedio era stato uti­le: ormai aveva perduto ogni speranza di guarire.

In quel giorno, durante i sacri misteri, fu letto il tratto evangelico, che narrava l’episodio dell’emo­roissa: una malattia identica alla sua. Il testo evan­gelico fu compreso bene dalle due donne. Una fi­ducia insperata di poter guarire provò Eutichia e viva fede ebbe Lucia nella potenza miracolosa di S. Agata. L’emoroissa era guarita appena aveva toc­cato la veste del Signore: la madre di Lucia sareb­be stata risanata se invece avesse toccato il sepolcro della santa martire. Così Lucia suggerì a sua madre.

Sul far della sera, quando tutti ebbero lasciato la chiesa, le due donne rimasero nella penombra in fiduciosa preghiera accanto al sepolcro di S. Agata. Le loro parole alla Santa erano di intensa richiesta di guarigione. A lungo però non poterono pregare ché il sonno ebbe il sopravvento e Lucia si addor­mentò profondamente lì nella penombra della chiesa, accanto al sepolcro della martire catanese.

Nel sonno le parve di aver presente una visione nitida: schiere e schiere di angeli circondavano la ver­gine   S. Agata, che sorrideva a Lucia e le diceva:

« Lucia sorella mia, vergine di Dio, perché chiedi a me ciò che tu stessa puoi concedere ? Infatti la tua fede ha giovato a tua madre ed ecco che è divenuta sana ».

Quando Lucia si svegliò, rivelò alla madre la visione serena e le parole risanatrici di S. Agata. Era guarita la madre. Inoltre era questo il momento opportuno .di farle conoscere il suo voto di vergi­nità. Così in realtà fece. Nessun rammarico mostrò la donna per questo proposito santo: anzi le disse che ogni sua cosa personale, dopo la morte, le sareb­be stata lasciata.

Il momento era adatto per Lucia per suggerire alla madre propositi di maggiore perfezione, giac­ché manifestava così vivamente il distacco dai beni della terra; onde la consigliò di vendere tutte le sue sostanze e darle ai poveri.

Per allora Eutichia non fece alcun progetto, ma poi, ritornate, a Siracusa, Lucia riprese ancora a parlarle dell’ideale di perfetta povertà. Ben presto si decise di vendere i suoi beni e distribuire il rica­vato ai poveri, seguendo gli esempi della primitiva chiesa di Gerusalemme.

Una tale elargizione se era esemplare nella fer­vente comunità cristiana di Siracusa, destava senz’al­tro lo stupore dei pagani, per i quali i beni di que­sto mondo erano le cose migliori della vita. Ordina­riamente un gesto del genere era sintomo evidente di fede cristiana: solo i seguaci di Cristo giungevano a disprezzare i beni della terra al punto da ven­derli e darli ai poveri. E così pensò uno a cui molto interessavano i beni di Lucia: un giovane del quale la tradizione non ha conservato il nome e che desi­derava vivamente di farla sua sposa.

Dalla madre di Lucia volle sapere perché la fi­gliuola vendeva le vesti preziose e gli ornamenti; per quale ragione distribuiva il ricavato ai poveri, alle vedove ed ai ministri del culto cristiano. Eutichia diede una risposta evasiva, che per il momento lo rese tranquillo.

Ma in seguito il sospetto che Lucia fosse cri­stiana divenne certezza: visto fallire il suo desiderio di averla come sposa, poiché ella lo aveva respinto, decise di denunciarla al prefetto della città come cristiana e di conseguenza fossero applicati a lei i decreti imperiali.

 

 

 

LA PERSECUZIONE DI DIOCLEZIANO

 

 

Allora per la chiesa cattolica non erano tempi tranquilli: l’imperatore Diocleziano nel vano tenta­tivo di arrestare l’inevitabile crisi dell’Impero roma­no stava attuando varie riforme, da quella ammi­nistrativa a quella economica, fiducioso di riportare lo Stato romano ai tempi migliori. Nel suo vasto piano di rinnovamento generale, anche la riforma religiosa doveva avere la sua importanza, come ri­forma delle coscienze: il culto imperiale doveva es­sere il veicolo di penetrazione interiore del senso della romanità e della potenza dell’impero. Appro­fittando di un complesso di circostanze, emanò i suoi editti di persecuzione contro i cristiani il 24 feb­braio del 303. Fu la più feroce persecuzione la sua, soprattutto nelle province, dove funzionari zelantis­simi la applicarono ciecamente. Lattanzio (de mort. persec. 10) ha scritto pagine celebri sulla furia di codesta persecuzione.

                                                                                                                              

 

 

IL DIALOGO CON PASCASIO

 

A Siracusa era prefetto della città (meglio era correttore) Pascasio, succeduto da pochi mesi a Cal­visiano, che nell’agosto del 303 aveva condannato a morte il vescovo S. Euplo.

Quando Lucia gli fu portata innanzi sotto l’im­putazione di essere cristiana, egli le ordinò di sa­crificare agli dei. Allora Lucia disse: Sacrificio puro presso Dio consiste nel visitare le vedove, gli orfani e i pellegrini, che versano nell’afflizione e nella ne­cessità, ed è già il terzo anno da che io offro a Cristo Dio tali sacrifici erogando tutto il mio patrimonio.

Pascasio l’interruppe con senso d’ironia: Va a con­tare queste ciance agli stolti come te, poiché io eseguo i comandi dei Cesari e perciò non posso udire sif­fatte stoltezze.

Lucia disse: Tu osservi i decreti dei Cesari co­me anch’io curo la legge del mio Dio giorno e notte; temi pure le loro leggi, mentre io riverisco il mio Dio: tu non vuoi mancare di rispetto a quelli ed io come mai oserò di contraddire il mio Dio? Tu t’ingegni di piacere a loro ed io mi ingegno di piacere a Dio: tu dunque fa come credi ti torna comodo ed io opero secondo è grato all’animo mio.

Pascasio continuò: Tu hai prodigato le tue so­stanze ad uomini vani e dissoluti.

Presso i pagani, secondo quanto testimoniano le apologie di Minucio Felice e Tertulliano, vigeva l’ac­cusa che i cristiani praticassero riti dissoluti come si notavano in altri culti misterici. Ma Lucia subito smen­tisce Pascasio dicendogli: Io ho riposto al sicuro il mio patrimonio e la mia persona non ha gustato la dissolutezza.

Pascasio soggiunse: Tu sei la stessa dissolutezza in anima e corpo.

Lucia rispose: Siete voi che costituite la corru­zione del mondo.

Pascasio disse: Cessi la tua loquacità; passiamo ai tormenti.

Lucia replicò: E’  impossibile porre silenzio ai detti del Signore.

Pascasio riprese: Tu adunque sei Dio?

Lucia rispose: Io sono serva del Dio eterno, poi­ché Egli ha detto: quando sarete dinanzi ai re ed ai principi non vi date pensiero del come o di ciò che dovete dire, poiché non siete voi che parlate ma lo Spirito Santo che parla in voi.

Pascasio disse: Dentro di te c’è adunque lo Spirito Santo?

Lucia rispose: Coloro che vivono castamente e piamente sono tempio di Dio e lo Spirito Santo abita in essi.

Pascasio disse: Ti farò condurre in un luogo turpe e così fuggirà da te lo Spirito Santo.

Anche per piegare altre vergini cristiane il giu­dice romano spesso era ricorso a simili mezzi: tant’è vero che Tertulliano scriveva, con i suoi tipici giuochi di parole, che esse temevano più il lenone che il leone: la prova cioè contro la loro virtù piuttosto che le belve feroci.

Innanzi alla fermezza della santa di non piega­re agli ordini di Pascasio, questi raduna della gen­taglia per costringere Lucia ad obbedirgli. Ogni suo tentativo riesce vano: neppure i soldati, neppure le paia di buoi riescono a smuovere Lucia che sta im­mobile come una roccia (l’episodio è narrato, tra gli altri, con potenza d’arte da Lorenzo Bassano in una pala della Basilica di S. Giorgio Maggiore di Venezia).

Tutti codesti prodigi furono ritenuti da Pascasio opera di magia, onde ordina che attorno a lei si pre­pari il rogo e sì accenda la fiamma, secondo quanto si usava contro i sospetti di arti magiche.

Vengono tosto portate pece e resina, legname ed olio; tutto viene gettato contro la Santa. Divampano le fiamme,. ma lei non ne è toccata. Anzi dice a Pascasio: Pregherò il mio Signore perché questo fuoco non si impadronisca di me.

Pascasio non si conteneva più dall’ira. Allora al­cuni dei suoi amici per impedire che fosse ancor più deriso dalla Santa e gli sforzi suoi risultassero del tutto vani, tirarono giù Lucia dal rogo perché fosse finita con la spada.

 

                                                                                                                                     

 

IL MARTIRIO

 

Lucia comprese che ormai era giunto il momento di confessare Cristo con il martirio: si pose in ginoc­chio pronta a ricevere il colpo mortale.

Prima però volle parlare alla gran folla che nel frattempo si era radunata attorno a lei: disse che la persecuzione contro i Cristiani stava terminando e la pace per la Chiesa era imminente con la caduta del­l’imperatore Diocleziano. Ricordò loro che Siracusa l’avrebbe sempre onorata così come la vicina Cata­nia aveva in venerazione S. Agata. Quando ebbe terminato di parlare, venne il colpo mortale che le recise il capo consacrandone la verginità con il mar­tirio.

Era il 13 dicembre del 304, secondo quanto narra la tradizione.

 

 

 

STORIA DEL SUO CULTO

 

Deposto il suo corpo nelle catacombe, che da lei presero il nome, divenne il suo sepolcro ben presto famoso richiamando i fedeli che ne ricevevano gra­zie abbondanti. Fu subito la Santa per eccellenza dei siracusani. In iscrizioni greche delle catacombe sira­cusane, anche dopo un secolo dal martirio è detto «la nostra santa Lucia ». Soprattutto è rimasta fa­mosa la iscrizione di Euschia venuta alla luce nel 1894 in escavi archeologici. Essa dice «Euschia la irreprensibile, vissuta buona e pura per anni circa 25, morì nella festa della mia Santa Lucia per la quale non vi ha elogio condegno: (fu) cristiana, fedele, perfetta, grata al suo marito di morta gratitudine».

All’inizio del V secolo, data dell’iscrizione, la Santa era ormai popolare: Euschia, questa donna, muore giovane nel giorno festivo della sua patrona, che nes­suno può elogiare in maniera conveniente giacché or­mai tutti ne conoscevano vita, virtù e prodigi. Secondo il breviario Gallo-Siculo sopra il sepolcro di S. Lucia sarebbe stata innalzata una basilica nel 310: addirit­tura sette anni dopo il martirio !

Se la notizia è discutibile per questa data, si può peraltro ammettere che la basilica sia stata eretta non molto tempo dopo la sua morte: comunque prima della citata iscrizione di Euschia.

Il suo culto ben presto si diffuse fuori della Si­cilia stessa come documentano le stratificazioni più antiche del martirologio Geronimiano: prova ne sia­no l’inserzione del nome della Santa nel Canone del­la Messa da parte di papa S. Gregorio Magno ( 604), la devozione in Roma stessa, dove le vennero de­dicate una ventina di chiese e nell’Italia settentrio­nale, dove la troviamo effigiata a Ravenna in S. Apol­linare Nuovo nella processione delle vergini, in In­ghilterra, nella chiesa Greca, dove il Damasceno stes­so compose la liturgia in onore della Santa. Dopo le scoperte geografiche del secolo XV, il suo culto si estende particolarmente nell’America Latina, nell’Africa, in alcuni luoghi dell’America del Nord. Nella devozione popolare la sua vita si arricchisce di particolari leggendari: il più famoso è quello di cre­dere che la santa stessa si sia levata gli occhi invian­doli in un bacile di argento al giovane, che si era in­namorato del loro splendore affascinante oppure, se­condo la versione, accettata fra l’altro anche dall’uma­nista Battista Mantovano, li abbia mandati a Pascasio stesso, ma subito le siano stati rimessi con improvviso miracolo, poiché S. Raffaele sarebbe sceso da cielo a compierlo.

Non sappiamo quando sia nata la leggenda (ma è probabile di età umanistica), che presenta una parti­colare somiglianza con episodi consimili verificatisi nella favolistica indiana: forse si è dato il caso di omonimia con un’altra Santa, che si sarebbe tolta gli occhi per liberarsi da un’incauta persona, o meglio per un processo di etimologia popolare del nome rav­visando il rapporto: Lucia = luce, oppure come sug­gerisce il Delehaye, quale ex-voto di devoto guarito. Di conseguenza, in base ai principi della pietà popo­lare, S. Lucia fu invocata per proteggere la luce degli occhi, cioè la vista. Forse, secondo quanto insinua il dotto Garana, codesto rapporto è antichissimo, come può risultare dall’iscrizione di Euschia del IV secolo, nella quale il nome della devota nel valore di « om­brosa » può alludere ad affezione morbosa della vista. Certo nell’appendice miracolistica, annessa al racconto della traslazione veneziana del 1280 (ma giuntaci in un testo quattrocentesco), sono documentati alcuni miracoli di vista riacquistata. Una prova ulteriore è data da quanto la tradizione afferma di Dante Ali­ghieri, almeno stando ai dati del figlio Jacopo, per cui il poeta sarebbe guarito da grave danno alla vista subito per le lagrime sparse in morte di Beatrice, dopo di aver invocato spesso S. Lucia durante il male, onde l’ha collocata nel secondo canto dell’Inferno, nel nono del Purgatorio e nel trentatreesimo del Paradiso: non più dunque in sola funzione allegorica, quanto invece come gesto di riconoscenza devota.

 

 

 

ICONOGRAFIA DELLA SANTA

 

Il culto veneziano della Santa è provato tra l’altro dal Kalendarium Venetum del XI secolo, e poi nei Messali locali del secolo XV, nonché nel Memoriale Franco e Barbaresco dell’inizio del 1500, dove è con­siderata festa di palazzo, cioè festività civile.

Sin dal 1107 sorgeva una chiesa in suo onore all’estremità occidentale del Canal Grande, forse par­rocchia nel 1182, dove poi nel 1313 riscontriamo con sicurezza il corpo della Santa. In essa esisteva la scuola a lei intitolata sin dal 1323, a cui nel 1703 fu aggiunto un sovvegno. Ma in nessun’altra chiesa veneziana no­tiamo scuole in suo onore, tranne a 5. Moisè, poiché qui sin dal 1313 esisteva una scuola per i ciechi, onde fu naturale il culto alla Santa patrona della vista.

Prova più vasta dell’importanza della Santa nella pietà veneziana è pure desumibile dalla sua icono­grafia in pale d’altare, per buona parte di origine e sviluppo post-tridentino. Così si veda a S. Marco (mo­saici dei secoli XVI e XVII); nella pala con la Ver­gine e Santi, di Giovanni Bellini a S. Zaccaria; a S. Giovanni in Bragora in polittico di Iacobello del Fio­re; in quella di S. Nicolò, del Lotto ai Carmini; a S. Giovanni Crisostomo, nella pala di Sebastiano del Piombo; a S. Martino; a S. Elisabetta del Lido; a S. Stefano nella pala dell’Immacolata, del Menescar­di; a S. Giorgio Maggiore, di Leandro Bassano; ai To­lentini, del Peranda; ai SS. Apostoli, di Giambattista Tiepolo, ma soprattutto in chiesa, ora, a S. Geremia in tele della demolita chiesa di S. Lucia.

Tralascio le altre documentazioni iconografiche nei musei e raccolte private veneziane, poiché ora non sono più oggetto di culto; alla pari accenno solo al vasto repertorio iconografico nella pittura venezia­na e veneta, fuori di Venezia, come, per fare un no­me, in Cima da Conegliano. Nell’ambito della diocesi, si notino le storie della Santa in affresco del duomo di Caorle, navata destra, di anonimo trecentesco, e la Santa in pala di altare laterale nella chiesa di Oriago, di anonimo settecentesco; in altare laterale nella chiesa di Chirignago di anonimo neoclassico.

Il tipo iconografico, sino al periodo post-tridenti­no, non sempre la dà con gli occhi in mano: a volte, come in Cima, tiene la lampada verginale fra le mani (poittico di Olera; pala di Lisbona); il motivo degli occhi sul bacile di argento, sebbene sia presente anche in fase pre-tridentina, è poi costante in quella post-tri­dentina.

 

 

 

STORIA DELLE SUE RELIQUIE

 

Il corpo di S. Lucia rimase in Siracusa per molti secoli: dalla catacomba, dove fu sepolto, fu poi por­tato nella basilica eretta in suo onore, presso la quale, all’inizio del VI secolo, fu costruito un monastero. Nella minaccia araba per il suo sepolcro nell’878, dopo la conquista islamica della Sicilia, il suo corpo fu nascosto in un luogo segreto. Nel 1039, appena Ma­niace, generale di Bisanzio, riuscì a strappare Siracusa agli Arabi, condusse le reliquie a Costantinopoli, o come preda di guerra o, secondo l’affermazione della Cronaca del doge Andrea Dandolo, su preciso ordine degli imperatori Basilio e Costantino. Invece secondo la tradizione francese, il corpo della Santa fu levato da Siracusa nel corso del secolo VIII da Feroaldo, duca di Spoleto, dopo la conquista della città che lo recò a Corfinio, donde il vescovo di Metz lo avrebbe trasferito nella sua città episcopale. Indubbiamente qui si sviluppò un culto attorno a codèste reliquie, seb­bene, viene notato giustamente, si tratti di un’altra martire siracusana, di nome Lucia e confusa per omo­nimia con la nostra Santa. La linea maestra della tra­dizione afferma che il suo corpo fu tolto da Costantinopoli nel 1204 dal doge veneziano Enrico Dandolo, dove lo aveva trovato assieme a quello di S. Agata, ed inviato a Venezia. Invece secondo una variante, do­cumentata dal codice secentesco, o Cronaca Veniera, della Biblioteca Marciana di Venezia (It. VII, 10 (= 8607) f. 15 v.), esso sarebbe stato portato a Venezia, assieme a quello di S. Agata, nel 1026, sotto il dogado di Pietro Centranico. Non sappiamo l’ori­gine della notizia e se derivi da una fonte anteriore, per quanto un fondato sospetto induca ad un errore meccanico di amanuense, che ha letto 1026 per 1206, cioè gli anni della traslatio ufficiale. E nella Cronaca Veniera lo si accettò, armonizzando il fatto con il doge dell’epoca. Certo è difficile una precisazione sto­rica di codeste reliquie, esente da qualsiasi sospetto, almeno allo stato attuale delle cose; per noi è pru­denza elementare prendere atto della presenza del suo corpo in Venezia sin dal 1204. Ma si noti che in Ve­nezia esisteva già una chiesa dedicata alla martire nel 1167 e 1182, come lo provano inequivocabili docu­menti, per cui è probabile che la determinazione di tra­sferire le reliquie nelle lagune sia stata originata dalla necessità di arricchire una chiesa veneziana, come d’al­tronde si verificò per altri casi consimili.

Comunque a Venezia il suo corpo fu collocato nella chiesa di S. Giorgio Maggiore e determinò un flusso di pellegrinaggi, che nel giorno d’ella festa (13 dicembre) assumeva proporzioni impressionanti, nel­l’andirivieni di imbarcazioni. Il 13 dicembre 1279 accaddero tragici fatti. Alcuni pellegrini morirono an­negati in seguito al capovolgimento delle imbarcazio­ni per l’insorgere di un turbine improvviso.

Il Senato, ai fini di evitare ancora consimili doloro­si incidenti, decise che il corpo della Santa fosse por­tato in una chiesa di città. Fu scelta la chiesa di S. Maria Annunziata o della « Nunciata » nell’estremo sestiere di Cannaregio, dove furono poste le preziose reliquie trasferite da S. Giorgio il 18 gennaio 1280 con una solenne processione.

Nel 1313 fu consacrata una nuova chiesa dedicata a S. Lucia, nella quale le reliquie della Santa furono deposte definitivamente.

Nel 1441 papa Eugenio IV dava questa chiesa, che era piccola parrocchia, in commenda alle mo­nache del vicino monastero del Corpus Domini; nel 1478 invece papa Sisto IV, dopo una vivace contesa tra il monastero della Nunciata e la parrocchia, che a volte assunse fasi davvero ridicole, concedeva chiesa e parrocchia alle monache del monastero della Nun­ciata, che avanzavano diritti contro quelle del Corpus Domini sul possesso del corpo della Santa: la lite insorta fra i due monasteri fu risolta in favore di quel­lo della Nunciata, come si è visto: però esso doveva sborsare ogni anno 50 ducati a quello del Corpus Domini.

Nel 1579 passando per il Dominio veneto l’im­peratrice Maria d’Austria, il Senato volle farle omag­gio di una reliquia di S. Lucia. Con l’assistenza del patriarca Trevisan fu levata una piccola porzione di carne dal lato sinistro del corpo della Santa.

Altre reliquie della Santa si trovavano a Siracusa, recate nel 1556 da Eleonora Vega, che le ottenne a Roma dall’ambasciatore di Venezia’ così pure avven­ne per alcuni frammenti di braccio sinistro, recati ivi nel 1656 da Venezia, dal cappuccino Innocenzo da Caltagirone. Reliquie ancora sono possedute a Napoli, Roma, Milano, Verona, Padova, Montegalda di Vi­cenza e a Venezia stessa, nelle chiese di S. Giorgio Maggiore, dei SS. Apostoli, dei Gesuiti, dei Carmini.

All’estero sono documentate a Lisbona nel 1587, con una reliquia ricevuta da Venezia; in chiese del Belgio nel 1676; a Nantes, in Francia, nel 1667. Nel 1728 una parte dell’urna fu donata a papa Benedet­to XIII.

Una nuova chiesa, al posto di quella antica, fu costruita tra il 1609 e il 1611, su schemi palladiani, riecheggiante l’attuale delle Zitelle, con due torri cam­panarie in facciata.

Per completarla, giravano per la città alcuni inca­ricati dalle monache a raccogliere le offerte dei fedeli con la cassella concessa dal Magistrato della Sanità.

Il 28 luglio del 1806, in seguito alla soppressione napoleonica, chiesa e monastero furono chiusi e le monache si rifugiarono in S. Andrea della Zirada, por­tando con sé le reliquie della Santa. Poco dopo, non potendo rimanere lì per ragioni di spazio, con il con­senso del Ministero del culto ritornavano ancora al­l’antica sede insieme con il corpo di S. Lucia.

Nel 1813 il convento di S. Lucia veniva donato dall’imperatore d’Austria alla b. Maddalena di Ca­nossa, che vi abitò fino al 1846, quando si iniziarono i lavori per la stazione ferroviaria e per la demolizione del convento. Per il momento la chiesa non fu toccata. Invece nel 1860 dovendosi ampliare la stazione fer­roviaria, nella stolida furia distruttiva dell’epoca, fu abbattuta anche la chiesa di 5. Lucia seguendo la triste sorte di tante altre chiese veneziane. Vero è che mi­nacciava rovina, fatiscente ormai di secoli e di umane malizie. Si sarebbe potuto ripararla e risolvere diver­samente le esigenze della stazione ferroviaria. Invece presi accordi con l’Autorità Ecclesiastica, si decise di trasportare il corpo della Santa nella vicina parroc­chiale di S. Geremia. Per la traslazione, avvenuta l’11 luglio 1860, intervenne il patriarca Ramazzotti con tutto il Clero e popolo della città: sette giorni rimase il sacro corpo sull’altar maggiore, poi fu posto su un altare laterale in attesa di costruire la nuova cappella. Tre anni dopo, l’11 luglio 1863, il patriarca Trevi­sanato la inaugurava: essa era stata costruita con il materiale del presbiterio della demolita chiesa di S. Lucia su gusti palladiani. Finalmente per la genero­sità di Mons. Sambo, parroco di quella Chiesa (che nel frattempo venne ad assumere la denominazione « dei Ss. Geremia e Lucia ») su disegno dell’arch. Gaetano Rossi veniva preparato alla Santa un più de­gno altare in broccatello di Verona con fregi di bronzo dorato. Il 15 giugno del 1930 il servo di Dio patriarca La Fontaine lo consacrava e collocava il corpo incor­rotto della Santa nella nuova urna in marmo giallo ambrato, che lo sovrasta. Nel 1955 il patriarca Angelo Roncalli, poi papa Giovanni XXIII, volle che fosse data più condegna importanza alle sacre reliquie, sug­gerendo l’esecuzione di una maschera d’argento, cu­rata dal parroco di allora don Aldo Da Villa.

Infine, nell’anno 1968, per iniziativa del parroco prof. don Aldo Fiorin e la generosità di benefattori, la Cappella e l’Urna sono state completamente re­staurate.

E nel suo tempio ancor oggi riposa la Martire, meta venerata di tanti pellegrinaggi, con l’augurio in­ciso nella bianca curva absidale, che si specchia sulle acque del Canal Grande:

  


INDICAZIONE BIBLIOGRAFICA

 

Nella stesura della vita della Santa ci si è attenuti al testo della Passio del codice greco Papadoupolos, edito dal Gaetani (O. GAETANI, Vitae Sanctorum Siculorum, Palermo 1637, pp. 114-115) e ripubblicato da C. BARRECA, Santa Lucia di Siracusa. Pagine storiche, Roma 1902.

Per il suo valore critico si veda, oltre il citato Barreca: O.  GARANA, S. Lucia di Siracusa. Note agiografiche, Archivio storico siciliano, I (1955), pp. 15-22, in cui sono elencati altri codici greci della Passio della Santa, finora ignoti, che pos­sono suscitare interessanti questioni sul tipo del suo martirio.

S. COSTANZA, Un « Martyrion » inedito di S. Lucia di Sira­cusa, Archivio storico siracusano, III (1957), pp. 1-53 del­l’estratto, il quale pubblica una recensione medita della Passio, più ampollosa della consueta e ricca di particolari romanzeschi. A pp. 5-6 nota esauriente sulle fonti della vita della Santa, con riferimento alla BHL e BHG.

Nella narrazione presentata ci si è voluto astenere da ogni valutazione critica su elementi più o meno favolosi di detta Passio: chi voglia conoscerne l’aspetto critico può con­sultare utilmente: S. Lucia di A. AMORE, Enciclopedia Cat­tolica, VII, col. 1618 e relativa bibliografia, e G. RICCIOT­TI, La Era dei Martiri. Il cristianesimo da Diocleziano a Costantino, Roma, 1953, p. 177.

Tra le altre operette di divulgazione ricordo C. S. R., La Gemma di Siracusa, Catania 1913, un breve opuscolo, che dà una versione diversa del codice Papadoupolos sulla morte della Santa, riferita, secondo pure la lezione del Breviario Romano, per ferimento alla gola; nonché G. MAINO, S. Lucia vergine e martire, Bari 1950.

O.   GARANA, S. Lucia, Siracusa 1958.

A.      SANTELLI, Santa dei ciechi d’oggi: S. Lucia e noi, Roma 1958.

O.   GARANA, Recenti studi sul martirio di S. Lucia in S. Lucia, Siracusa 1962, pp. 36-37.

G.   CINQUE, S. Lucia vergine e martire, Napoli 1963.

Sull’origine del particolare biografico della enucleazione degli occhi si veda H. HERN, Een indische wedergade van der legende der heilige Lucia, in De Gids, 1917, III, pp. 531-40 e la recensione di H. DELEHAYE in Analecta Bollan­diana, XXXIX (1920-1921), p. 162, nonché dello stesso Les légendes hagiographique, Bruxelles 1955, p. 44; Cinq le~ons sur la méthode hagiographique, Bruxelles 1934, p. 134.

Per le questioni connesse con il nome si veda: C. TA­GLIAVINI, Un nome al giorno, Torino 1956, p. 427.

MARTIGNY, Dictionnaire des antiquités chretiennes, Pa­rigi 1887, p. 512.

Per Pascasio, sul suo nome e problemi vari si veda:

P.    ALLARD, Storia critica delle persecuzioni, IV, Firen­ze 1923, p. 391 e segg.

Per il 13 dicembre, giorno del martirio, si veda:

J.    CARCOPINO, Salluste et le culte des Ceréres et les Numides, Revue historique, CLVIII (1928), p. 1 e segg.: secondo l’illustre studioso il 13 dicembre non sarebbe ildies natalis della Santa, ma un giorno scelto come sostituzione della festa pagana di Cerere, che cadeva il 13 dicembre. L’usan­za siciliana, documentata oggi da O. GARANA, S. Lucia, Sira­cusa 1958, p. 89, di consumare ritualmente la « cuccia », cioè il grano nuovo cotto, nel dì della Santa, ne è una convalida.

Per la storia del culto si veda:

P.    FUIANI, Profili della vita e del culto di Santa Lucia, Siracusa 1887, p. 93 e segg.

C.    BARRECA, Santa Lucia, Roma 1902, p. 30 e segg.

H.   DELEHAYE, Les origines des cultes des Martyrs, Bruxelles 1933, p. 310; e dello stesso, Etude sur le légendier romain. Les saints de Novembre et de Décembre, Bruxelles 1936, p. 56.

 

S.    L. AGNELLO, Silloge di iscrizioni paleocristiane della Sicilia, Roma 1953, p. 66, dove risulta che l’epigrafe di Euschia non sarebbe in relazione (ma forse a torto) con S. Lucia.

5.    L. AGNELLO, Recenti esplorazioni nelle catacombe siracusane di S. Lucia, Rivista di archeologia cristiana, XXX (1954), pp. 1-60.

Sulla lipsanologia della Santa e storia del culto a Ve­nezia si rimanda a:

Narrazione della traslazione del corpo di S. Lucia da Si­racusa a Costantinopoli e da Costantinopoli a Venezia, Venezia 1626.

F.    CORNER, Ecclesiae Venetae antiquis monumentis nunc etiam primum editis illustratae ac in decades distributae, VIII, Venezia 1749, pp. 333.

E.   ZANOTTO, Vita di S. Lucia vergine martire, Venezia 1861, dove è riportata la notizia, tra l’altro, di Battista Man­tovano sull’estrazione degli occhi.

C.   RIANT, Exuviae Sacrae Costantino politanae, I, Gine­vra 1877, pp. 184-186; 263-265; lI(de reliquiis in Italiam advectis: ad Venetias), pp. 290-302.

 

E.    LACCHIN, La vita di S. Lucia, Venezia, s. d.

G.   DAMERINI, L’isola e il cenobio di S. Giorgio Mag­giore, Firenze 1956, pp. 92, 92, 95.

G.   IMBRIGHI, I santi nella toponomastica italiana, Ro­ma 1957, p. 26. Secondo l’Autore, S. Lucia ha dato il nome a 45 luoghi italiani (più di ogni altra Santa), dei quali 19 in Italia meridionale, 14 nella centrale e 12 nella settentrionale. Tra questi, 8 si trovano nel Veneto, che detiene il primato relativo tra le regioni italiane.

O.   GARANA, I Siracusani rinnovano, « Corriere della Sicilia », 13 dicembre 1957. Lo studioso siracusano rifà la storia delle reliquie della Santa possedute dai siracusani nonché ricorda i vari tentativi compiuti dai suoi concittadini per ria­vere da Venezia il corpo di S. Lucia, avanzando proposte per ottenere una reliquia insigne.

Ma soprattutto per il culto veneziano si rimanda a: G. MUSOLINO, Santa Lucia a Venezia, Venezia 1961, con ric­chezza pressoché completa di particolari per le vicende sto­riche, per le reliquie, per l’iconografia, sino agli aspetti fol­cloristici, con aggiornamento bibliografico. Ora vi si aggiunga: G. TRAMONTIN, A. NIERO, G. MUSOLINO, C. CANDIA­NI, Culto dei santi a Venezia, Venezia 1965, in particolare: pp. 198-199 (sulla lipsanologia, di A. NIERO); 229-230 (sul culto, di G. MUSOLINO); 323 per la festività liturgica. Per altri luoghi ivi citati, si veda l’indice analitico dei santi, a p. 334.

Tuttavia per l’iconografia si aggiunga:

G.   KAFTAL, Iconography o/the saints in Tuscan pain­ting, Firenze 1952, coli. 643-646, ed ora dello stesso, I cono­graphy o/the saints in central and south italian painting, Fi­renze 1965,nonché Cima da Conegliano, a cura di LUIGI MENEGAZZI, Venezia 1962.

Per l’origine e sviluppo del suo culto nel Veneto si veda per il documento dell’824, R. CESSI, Documenti relativi alla storia di Venezia anteriori al Mille, I, Venezia 1940, p. 75;

 

per la diocesi di Vicenza si veda:

G.   MANTESE, La chiesa vicentina: panorama storico, Vicenza 1962, p. 184;

per la diocesi di Concordia:

E.   DEGANI, La diocesi di Concordia, Udine 1924, pp.510, 333;

per le diocesi di Verona e Treviso si veda:

Rationes decimarum Italiae nei secoli XII e XIV. Venetia- Histria- Dalmatia, a cura di P. SELLA e G. VALE, Città del Vaticano 1941, p. XII e n. 880.

 

Per le regioni italiane nei secoli XII e XIV, si veda:

Rationes decimarum Italie nei secoli XIII e XIV: Tuscia, Città del Vaticano, 1932; Aemilia, ib. 1933; Aprutium-Moli­sium, ib. 1936; Apulia - Lucania - Calabria, ib. 1939; Sardinia, ib. 1943; Sicilia, ib. 1946; Latium, ib. 1946; Marche, ib. 1950; Umbria, ib. 1952, ai rispettivi indici di luogo.

Inoltre alcuni articoli di carattere divulgativo, ma valida­mente documentati, sulle vicende delle Reliquie della Santa e del suo culto, si possono leggere ne «La Custodia di Santa Lucia », periodico edito dal Tempio dei Ss. Geremia e Lucia, Venezia.

 

 

 

San Marco evangelista

Questo nome legato a quel determinato Vangelo che noi conosciamo, compare ben presto nell'intestazione manoscritta del Vangelo stesso. Il testo in quanto tale non lascia direttamente informazioni sull'autore. È quindi alla tradizione successiva che dobbiamo fare riferimento per avere qualche conoscenza in merito.
Le testimonianze sono varie: ad es. quella di Eusebio, uno storico dei primi secoli (sec. IV), che richiama la testimonianza di Papia, vescovo di Gerapoli in Frigia (Asia Minore), grossomodo presente verso il 110 d.C. Vale la pena di riascoltarla:
"Aiebat etiam, inquit, presbiter ille Marcum Petri interpretem quaecumque memoriae mandaverat, diligenter perscripsisse: non tamen ordine pertexuisse quae a Domino aut dicta aut gesta fuerant. Neque enim ipse Dominum audiverat aut sectatus fuerat umquam. Sed cum Petro, ut dixi, postea versatus est, qui pro audientium utilitate, non vero ut sermonum Domini historiam contexeret, evangelium praedicavat. Quocirca nihil peccavit Marcus, quia nonnulla ita scripsit, prout ipse memoria repetebat. Id quippe unum studebat, ut nequid eorum quae audierat, praetermitteret, aut nequid falsi eis affingeret".
Tre sono gli elementi che essa ci fornisce: Marco fu "interprete" di Pietro, stabilisce cioè un legame tra la sua testimonianza e quella del capo dei dodici, scrisse con fedeltà, quindi rimane attendibile in ciò che propone per chi non ha potuto essere presente, pur non avendo lui stesso visto il Signore o ascoltato le sue parole, e senza ordine, cioè probabilmente non con una preoccupazione cronologica, ma pratica, pastorale.
Altre testimonianze antiche possono essere quelle di Giustino (110) di Ireneo ( + 202) che fa di Marco un discepolo e interprete di Pietro e che, dopo la morte di Piero e Paolo, trasmette per iscritto la predicazione di Pietro stesso. Così anche Clemente di Alessandria ( +215c) e Origene ( +235c) lega la composizione del Vangelo secondo Marco alla testimonianza di Pietro.
Se questa è la testimonianza esterna al testo biblico, nel testo del Vangelo stesso non possiamo trovare nessuna indicazione diretta, in quanto l'autore non si presenta. Nei testi del NT però troviamo vari accenni ad un Marco, che potrebbe essere identificato con l'autore del Vangelo ricordato dalla tradizione ecclesiale. Nel libro degli Atti viene ricordato un certo Giovanni Marco (a volte chiamato anche semplicemente Giovanni o Marco). È figlio di una certa Maria di Gerusalemme, la cui casa accoglie Pietro dopo la sua miracolosa liberazione; di questa casa fa parte anche quella curiosa serva Rode (Rosa) che, sorpresa per la presenza inattesa di Pietro alla porta, va ad avvisare della cosa straordinaria i padroni, lasciando Pietro chiuso fuori. Questo Marco viene presentato sempre dal libro degli Atti come assistente di Barnaba e Saulo nel loro primo viaggio missionario; però in Panfilia Marco (forse per paura) ritorna a Gerusalemme; questo cedimento sembra essere la causa per cui Paolo nel suo successivo viaggio non lo vuole prendere con se; sarà solo così compagno di Barnaba per la missione a Cipro, luogo di origine di Barnaba. Gli altri due accenni a questo Marco sono nelle lettere paoline, in occasioni dei saluti (Col 4,10 Filem 24 2 Tim 4,11): in essi Marco viene presentato come cugino di Barnaba, collaboratore di Paolo, e collaboratore prezioso anche di Timoteo. Infine nella 1 Pt 5,13, sempre nei saluti, Marco (a Babilonia = Roma) saluta con Pietro, che lo considera come figlio.
Da tutto questo è possibile arguire un legame, al di là del discusso valore storico dei testi, di Marco e dell'autore del primo Vangelo, in particolare con la tradizione di Pietro, se non con la sua persona. I luoghi di questa connessione sono Gerusalemme e Roma.
Più tarda è la tradizione che ne fa il fondatore della chiesa di Alessandria (200c.) Stranamente però questo non trova eco in autori alessandrini come Clemente Al. e Origene. Sarebbe stato martirizzato ad Alessandria secondo tradizioni del IV-V secolo; proprio da Alessandria i Veneziani portarono le reliquie nel 828, facendone così il patrono di Venezia.
Ultimamente si è ipotizzato il riconoscimento di un versetto (frammentario) di Marco in un frammento di papiro trovato nel 1947 nelle grotte di Qumran. A detta di taluni questo comporterebbe una datazione della composizione del Vangelo attorno agli anni 50. Ma allora, quando sarebbe da collocare la stesura del suo Vangelo? Dopo la morte di Pietro? Dopo il legame con Pietro? Già durante quasi il ministero di Gesù-predicazione di Pietro?
È difficile dare una risposta definitiva: comunque rimane secondo l'opinione della maggioranza degli studiosi colui che per primo ha dato volto a questo tipo di scritto che noi chiamiamo Vangelo; scritto che mantiene il carattere di predicazione, cioè di proposta di fede, guidando progressivamente, come ricordano certi studiosi, sull'esempio dei primi discepoli, alla confessione di fede e alla sequela di Gesù Cristo figlio di Dio.


don Raffaele Mazzolini
docente di Sacre Scritture

http://it.geocities.com/sanmarco_parma/