DIO SILENTE

SANTO PADRE: UDIENZA MERCOLEDI’ 11/DICEMBRE/02

Teologia biblica:

Commento esegetico

Comprende udienze del 18.12.02 e del 03.01.03

INTRODUZIONE

Recentemente, il 11/12/02, è toccato all’Udienza del Santo Padre, una di quelle di ogni mercoledì, di essere strapazzata dalle frequenti travisazioni casuali o volute dei media nei campi più diversi, sotto spinte politiche o per l’ostinazione di molti giornalisti e testate nel volere trattare materie non adeguatamente conosciute.

Oggi non è difficile imbattersi in scrittori o semplici lettori di notizie nelle vesti di conduttori di spettacoli di rubriche e spettacoli i quali provengono da formazione ed esperienze d’altro genere. Proviamo per un momento a pensare a grandi firme della stampa come Montanelli e Biagi improvvisarsi presentatori e, magari, anche attori professionisti di spettacoli di varietà.

Non desideriamo riproporre le nostre considerazioni sui dolorosi eventi che trafiggono il cuore del Papa, e non soltanto i lui (per i quali vi rimandiamo alle tappe della nostra rubrica di Dottrina Sociale della Chiesa, sia quelle già pubblicate o di prossima pubblicazione, che hanno visto o vedranno di scena l’accresciuta consistenza terroristica e le guerre che, oltre le cinquantaquattro, se non andiamo errati, attualmente in corso di svolgimento, sono in pectore dei capi di stato, fra i "migliori" che la storia passata e recente ricordi), ma cercare di capire compiutamente la testimonianza e lo spirito profetico che il Papa ha manifestato nell’udienza sopra detta e farne in qualche modo esperienza e occasione di crescita.

Note chiarificatrici sull’impostazione del presente lavoro.

: Il presente lavoro si compone di tre parti. La prima colonna contiene il discorso del Santo Padre.

La seconda il commento dei media (L’Espresso).

La terza riporta le risposte, frutto della nostra ricerca sugli insegnamenti della Sacra Scrittura e gli insegnamenti del Magistero della Chiesa della quale il Papa è il Vicario del suo Fondatore e di cui noi, popolo di Dio, siamo membra e popolo sacerdotale, profetico e regale. Tuttavia, in quanto piccoli uomini, sia pur sempre in buona fede, possiamo andare soggetti ad errori. Per tanto invitiamo i navigatori e i loro amici ad intervenire attraverso il forum parrocchiale internet.

 

DISCORSO DEL SANTO PADRE PAPA GIOVANNI PAOLO II NELL’UDIENZA GENERALE DI MERCOLEDI’ 11 DICEMBRE 2002 (Dal sito Vaticano "www.vaticano.va")

Comprende alcune meditazioni delle udienze del 18.12.02 e del 03.01.03

Lamento del popolo in tempo di fame e di guerra
Ger 14,17.19A.20b-21)

"I miei occhi grondano lacrime notte e giorno, senza cessare… Se esco in aperta campagna, ecco i trafitti di spada; se percorro la città, ecco gli orrori della fame Anche il profeta e il sacerdote si aggirano per il paese e non sanno che cosa fare" (14,17-18).

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  2. Il contesto della lamentazione del profeta è rappresentato da un flagello che spesso colpisce la terra del Vicino Oriente: la siccità. Ma a questo dramma il profeta ne intreccia uno non meno terrificante, la tragedia della guerra. La descrizione è purtroppo tragicamente attuale in tante regioni del nostro pianeta.
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  4. Geremia entra in scena col volto rigato di lacrime: il suo è n pianto ininterrotto per "la figlia del suo "popolo", cioè per Gerusalemme, la città che, secondo un simbolo biblico molto noto, è raffigurata con un’immagine femminile, "la figlia di Sion". Il profeta partecipa intimamente alla "calamità" e alla "ferita mortale" del suo popolo (v. 17). Spesso le sue parole sono segnate dal dolore e dalle lacrime, perché Israele non si lascia coinvolgere nel messaggio misterioso che la sofferenza porta con sé. In un’altra pagina Geremia esclama: "Se voi non ascolterete, io piangerò in segreto dinanzi alla vostra superbia; il mio occhio si scioglierà in lacrime, perché sarà deportato il gregge del Signore" (13,17).
  5. Oltre alla spada e alla fame, c’è, infatti, una tragedia maggiore, quella del silenzio di Dio, che no si rivela più e sembra essersi rinchiuso nel suo cielo, quasi disgustato dell’agire dell’umanità.
  6. Il motivo dell’invocazione lacerante del profeta è da cercare, come si diceva, in due eventi tragici: la spada e la fame, cioè la guerra e la carestia. Siamo, dunque, in una storia travagliata ed è significativo il ritratto del profeta e del sacerdote, i custodi della Parola del Signore, i quali si aggirano per il paese e non sanno cosa fare.

La seconda parte del Cantico (vv 19-21) non è più un lamento individuale, alla prima persona singolare, ma una supplica collettiva rivolta a Dio: "Perché ci hai colpito, e non c’è rimedio per noi? (v. 19)"

Dio tace, non si rivela più e sembra essersi rinchiuso nel suo cielo, quasi disgustato dell’agire dell’umanità.

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  • Ormai ci si sente soli e abbandonati, privi di pace, di salvezza, di speranza.
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  • Il popolo, lasciato a se stesso, si trova come sperduto e invaso dal terrore.
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  • Non è forse questa solitudine esistenziale la sorgente profonda di tanta insoddisfazione, che cogliamo anche ai giorni nostri?

Tanta insicurezza e tante reazioni sconsiderate hanno la loro origine nell’avere abbandonato Dio, roccia di salvezza.

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  2. A questo punto ecco la svolta: il popolo ritorna a Dio e gli rivolge un intensa preghiera. Riconosce innanzi tutto il proprio peccato con una breve ma sentita confessione della colpa:
  • "Riconosciamo, Signore la nostra iniquità… abbiamo peccato contro di te" (v. 20).
  • Il silenzio di Dio era, dunque, provocato dal rifiuto dell’uomo. Se il popolo si converte e ritorna al Signore, anche Dio si mostrerà disponibile ad andargli incontro per abbracciarlo.

    Infine il profeta usa due parole fondamentali: il "ricordo" e l’"alleanza" (v. 21). Dio viene invitato dal suo popolo a ricordarsi", cioè a riprendere il filo della sua benevolenza generosa, manifestata tante volte nel passato con interventi decisivi per salvare Israele. Dio è invitato a ricordarsi che egli si è legato al suo popolo attraverso un’alleanza di fedeltà e di amore. Proprio per questa alleanza il popolo può confidare che il Signore interverrà a liberarlo e a salvarlo. L’impegno da lui assunto, l’onore del suo "nome", il fatto della sua presenza nel tempio, "il trono della sua gloria", spingono Dio – dopo il giudizio per il peccato e il silenzio – ad essere di nuovo vicino al suo popolo per ridargli vita, pace e gioia. (Numeri 6,25-26).

    5. A conclusione, possiamo accostare alla supplica di Geremia una commovente esortazione rivolta ai cristiani di Cartagine da san Cipriano, Vescovo di quella città nel terzo secolo.In tempo di persecuzione, san Cipriano esorta suoi fedeli a implorare il Signore. Questa implorazione non è identica alla supplica del profeta, perché non contiene una confessione dei peccati, non essendo la persecuzione un castigo per i peccati, ma una partecipazione alla passione di Cristo. Nondimeno si tratta di n’implorazione altrettanto pressante quanto quella di Geremia. "Imploriamo il Signore, dice san Cipriano, sinceri e concordi, senza mai cessare di chiedere e fiduciosi di ottenere. Imploriamolo gemendo e piangendo, come è giusto che implorino coloro che sono posti tra sventurati che piangono e altri che temono le sventure, tra i molti prostrati dal massacro e i pochi che restano in piedi. Chiediamo che ci venga presto restituita la pace, che ci si dia aiuto nei nostri nascondigli e nei pericoli, che si adempia quello che il Signore si degna di mostrare ai suoi servi: la restaurazione della sua Chiesa, la sicurezza della nostra salute eterna, il sereno dopo la pioggia, la luce dopo le tenebre, la quiete della bonaccia dopo le tempeste e i turbini, l’aiuto pietoso del suo amore di padre le grandezze a noi note della divina maestà" Epistula 11,8, in: S. Pricoco - M. Simonetti, La preghiera dei cristiani, Milano 2000, pp. 138-139).

    SALUTI

    Nella catechesi odierna meditiamo sulle parole della lamentazione del profeta Geremia, la quale costituisce parte del breviario. Il Profeta con dolore disegna la nefasta visione di guerra e di carestia, come effetto dell’allontanamento dell’uomo da Dio. In questo contesto, afferma che spesso l’uomo sperimenta il suo allontanarsi da Dio come se Dio stesso lo abbandonasse. Si immerge nella tristezza e nell’inquietudine.Il profeta Geremia indica la via d’uscita da tale situazione: bisogna rivolgersi a Dio con fervida preghiera, chiedere a Lui il perdono delle colpe e nel nome dell’alleanza d’amore, domandare che ci permetta di sentire la Sua presenza. Essa diventerà fonte della pace e della gioia interiore. Questa preghiera ci accompagni durante l’Avvento nella nostra preparazione all’incontro con Cristo. Vi benedico di cuore.

     

     

    COMMENTO DI EUGENIO SCALFARI SULL’ESPRESSO

    L'ira di Dio
    La ha evocata un Papa sempre più solo e apocalittico nella udienza dell'11 dicembre. Per ricordare il tema del male che colpisce i giusti e gli innocenti.

    Raccontano le cronache che l'11 dicembre scorso, durante un'udienza collettiva di catechesi, cioè d'insegnamento della fede e dei suoi misteri, Papa Wojtyla abbia detto, parafrasando un passo del libro di Geremia: "Dio non si rivela più, sembra nascondersi nel suo cielo, in silenzio, quasi disgustato dalle azioni dell'umanità". A quel punto - hanno riferito concordemente i giornali - un fremito di addolorato stupore ha percorso l'affollata assemblea dei fedeli lì riuniti per ascoltare la parola del Papa.

    Delusi dall’affermazione, attribuita dai media al Santo Padre, della disgustata assenza della parola del Signore.

    In mezzo a tante incertezze e ristrettezze della loro vita spirituale e materiale, erano andati a cercar conforto dal Vicario di Cristo e si trovavano invece di fronte alla rivelazione improvvisa quanto inattesa dell'assenza sdegnata e corrucciata del Signore. Non al suo perdono e alla sua misericordia, ma alla sua ira a stento trattenuta e trasformata nel rifiuto di intervenire, di raddrizzare i torti subiti, di castigare gli ingiusti, di confortare i puri di cuore, di opporre insomma lo scudo della Provvidenza alle frecce infuocate del Male.

    Nessuno si aspettava che il Vicario parlasse con accento così disperato e profetico. Certo non è la prima volta che Giovanni Paolo II indica i mali del mondo e ne condanna i responsabili con un vigore inusitato per chi siede sulla cattedra di San Pietro e guida non soltanto le anime e le sorti del suo gregge ma anche la complicata trama diplomatica e temporale che fa della Chiesa una grande potenza politica oltre che lo strumento intermediario tra le miserie terrene e l'onnipotente trascendenza "che sta nei cieli".

    7Ma mai prima d'ora il Vicario aveva reso pubblica testimonianza del ritiro di Dio dalla scena del mondo.

    Nessun Papa - ch'io sappia - lo ha fatto prima di lui. Bisogna andare a qualche grande Santo, a qualche grande Mistico, per trovare affermazioni così disperate e disperanti. Vi si sente, in quelle parole, una passione e un fuoco così intensi da restar sbalorditi dalla potenza interiore emanante da quella figura logorata ma non vinta dagli anni e dalla malattia, che trova la forza di descrivere ai fedeli che cercano speranza un mondo desolato e abbandonato da Dio. Dio non vuole più ascoltare le sue creature, i loro peccati lo hanno allontanato, è diventato sordo alle loro preghiere e muto di fronte alle loro domande.

    Debbono dunque essere ben gravi quei peccati perché Dio, parlando attraverso il suo Vicario, manifesti il suo cruccio in termini così estremi; e deve essere totalmente posseduto dalla voce del suo Dio, il Vicario che parla per lui, per dover rivelare un abbandono che priva la stessa Chiesa della sua missione mediatrice che è poi la sola che ne motiva e ne giustifica la presenza storica. Siamo dunque stati posti di fronte, tutti noi, credenti e non credenti, ad un evento di immensa portata religiosa e culturale, etica e perfino politica.

    La reazione dei destinatari di un simile annuncio è stata fin qui debolissima: qualche titolo sui giornali e telegiornali, rari commenti più o meno di maniera, poi più nulla, una coltre di indifferenza ha relegato nell'oblio la testimonianza del Vicario, altre notizie ed altri eventi incalzano e avvincono la fantasia del pubblico, i quiz a premi coinvolgono un uditorio melenso ed elementare, storie di quotidiana violenza si susseguono scacciando la precedente e preparando la successiva, sesso e canzoni, dispute incomprensibili su incomprensibili argomenti e rumore, rumore, rumore... Non doveva esser così la Torre di Babele dove tutti gridavano e nessuno comprendeva nessuno? Non è diventato così questo nostro presente senza più memoria del passato e senza più speranze di futuro?

    Se vogliamo capire compiutamente la testimonianza e lo spirito profetico che il Papa ha manifestato e farne in qualche modo esperienza e occasione di crescita, mi sembra sia necessario concentrarsi su quattro aspetti della questione: 1° la lamentazione di Geremia dalla quale il Papa ha preso spunto, 2° i comportamenti della società che hanno provocato un così irrefrenabile "disgusto" nell’animo del Vicario; eco del Dio che si manifesta attraverso di lui; 3° l’indifferenza dei destinatari di quel messaggio; Il quarto, infine, riguarda i laici non credenti: perché dovrebbero essere anche loro scossi e coinvolti da una rivelazione pastorale che in teoria non li tocca e che invece, a parer mio, ne investe direttamente il senso di responsabilità e il sentimento morale..

    La Voce che parla attraverso quella del profeta somiglia, molto alla lontana, a quella del Dio cristiano. È infatti la voce del Dio degli eserciti, irato contro il suo popolo di elezione al punto di scatenare contro di esso non solo la sua ira ma le armi dei suoi più terribili nemici - caldei e babilonesi - che ne devasteranno le terre e le città, uccideranno, bruceranno, stupreranno. Fino alla distruzione del Tempio e la presa in cattività dell'intero popolo di Israele e di Gerusalemme. Geremia si riferisce ad avvenimenti storicamente accaduti dei quali lui stesso è stato testimone e vittima, ma non è questo l'aspetto più importante della sua profezia che consiste invece nell'attribuire al Signore (Adonai) la volontà attiva dello scempio e dell'abiezione in cui cadranno il regno di Giuda e Gerusalemme a causa dei loro peccati. I peccati sono più volte elencati: idolatria, adulterio, ingiustizie, amore dei piaceri e dell'oro, cupidigia del potere, violazione della Legge. E si riassumono in un'unica e fiammeggiante parola: tradimento. Il Dio d'Israele ha lungamente sopportato tutto questo, ha inviato al suo popolo innumerevoli avvertimenti, lo ha infinite volte stimolato a pentirsi e rientrare sulla retta via indicata da Abramo e da Mosè. Ma ora la sua pazienza è esaurita, la fonte della sua misericordia si è disseccata. Ora il dio degli eserciti ha foderato la spada e con quella colpisce.

    Geremia invoca ancora la clemenza del Signore, ma questi rifiuta la preghiera del profeta e gli intima di astenersi a quella invocazione. Ed anzi stende la sua condanna a tutto il genere umano affidando al profeta la coppa della sua ira affinché la faccia bere a tutte le genti che abitano la terra: "Tu dirai loro: così parla il Signore degli eserciti, il Dio di Israele. Bevete e ubriacatevi e vomitate e cadete per non più risorgere di fronte alla spada che io mando in mezzo a voi. E tu dirai loro: rugge il Signore di lassù e dalla sacra sua dimora lancia il suo grido. Sì, rugge contro il suo gregge perché il Signore ha lite con le nazioni, fa il processo ad ogni vivente e i rei li dà alla spada. Così parla il Signore degli eserciti… Io non ascolto il loro chiamare: offrano pure olocausti e oblazioni; io non li gradisco, anzi con spada, con fame e con peste io li consumerò ".

    Alla fine, il profeta esalta la misericordia di Dio e apre un varco alla speranza: tornino i popoli a rispettare le leggi del Signore e questi stenderà di nuovo su di essi la sua mano protettrice. Questa è la sicura speranza di Geremia, ma non la parola del Signore che resta adirato e nascosto alla vista, circondato dai nembi del cielo tempestoso.

    Certo, resta il tema del male, del quale gli uomini non riescono a darsi ragione quando colpisce i giusti e gli innocenti. Se ne parlò a lungo in un'occasione recente, quella del terremoto e dei ventisette, anzi ora ventotto bambini sepolti dalle macerie della loro scuola a San Giuliano di Puglia. Dov'era Dio in quel momento, si chiese un sacerdote, si chiesero i genitori delle vittime e molti di coloro che hanno partecipato con cuore dolente a quel lutto collettivo.

    Il tema del male è grandissimo e forse imperscrutabile per un credente. Ne parlano diffusamente i grandi dottori della Chiesa e soprattutto Paolo e Agostino. Ne parlano, con accenti diversi ma con non minore passione, Giobbe e i suoi tre amici, nel libro sapienziale che da Giobbe prende il nome.

    Per i non credenti il problema del male non si pone con la stessa intensità: se è un male voluto, una violenza, un'ingiustizia, un crimine, gli autori ne sono responsabili e la legge provvede a sanzionarli; se è un male naturale e senza né autori né moventi, esso è frutto del caso. Se camminando schiaccio e uccido una formica, il caso ha provocato quell'uccisione. E chi siamo noi per ritenerci superiori alla formica,muniti di un personale destino già scritto nel libro di Dio?

    Ma qui non si discute di questo problema, ma del perché il Vicario di Cristo che occupa da più di vent’anni la scena del mondo, ha sentito di dovere annunciare che Dio, si è ritirato nel suo cielo chiudendosi nel suo silenzio. Wojtyla non è certo arrivato alle vendette bibliche citate da Geremia, ma ha esplicitamente richiamato quel profeta e le sue lamentazioni. Ha fatto chiaro riferimento al capitolo 14 di quel libro. Insomma ha circostanziato il suo annuncio in modo da renderne percepibile a tutti il peso e la gravità. Perché il Dio dei cristiani si è ritirato stanco e disgustato dai peccati degli uomini? Quali peccati?

    Non si ritirò di fronte ai massacri e ai genocidi dello sorso secolo o almeno i suoi vicari non ne dettero alcuna rivelazione.

    Neppure Papa Wojtyla, che pure fu protagonista non secondario e anzi in primissima fila nella lotta contro i crimini del comunismo e il soffocamento sanguinoso dei diritti dell’uomo nei paesi di quell’impero che anche per lui, anzi per lui soprattutto, fu l’impero del male.

    Quello era un crimine che aveva come responsabili un regime e le persone che lo guidavano. Le cause del crimine si potevano eliminare facendo crollare quel regime e l’ideologia che lo sorreggeva nella credulità delle masse. Fu dunque una lotta affidata in qualche modo al dio degli eserciti, in nome dei valori di natura come la libertà, la giustizia, i diritti.

    Ma qui il caso è diverso. Terribilmente più complicato perché diversa è la natura del peccato. Il peccato è l’esclusivo o almeno dominante amore di sé, espresso in tutte le forme, dalle più violente alle più morbide e apparentemente non conflittuali con i diritti degli altri.

    Quest'amore c'è sempre stato e sempre ci sarà poiché costituisce uno dei fondamenti naturali della sopravvivenza. Ogni molecola vivente, ogni cellula, ogni sia pur elementare nucleo di vita organizzato manifesta come primo e fondamentale impulso quello di sopravvivere e riprodursi. Se qualcosa o qualcuno minacciano la sua sopravvivenza, quella cellula, quell'organismo si difenderà fino allo stremo, cercherà le condizioni migliori, le troverà secondo le forme che la natura gli ha dato, nell'acqua, nella luce, nel fango dei pantani, sulle vette delle montagne.

    Ma, al tempo stesso, la natura ha segnato l'individuo col marchio della sua appartenenza ad una specie. Anche le specie sono spinte in quanto tali alla lotta per la loro sopravvivenza. Gli individui non hanno bisogno -né sono in grado - di porsi individualmente il problema: li guida l'istinto collettivo, il branco, le migrazioni, l'appagamento dei bisogni primari.

    Soltanto l'uomo è conformato in modo da porsi, o comunque da avvertire, il tema dell'appartenenza alla specie ed anche ad una determinata comunità. Accanto all'istinto egoistico della sopravvivenza individuale, la natura ha dato all'uomo l'istinto di un'appartenenza collettiva e il senso della responsabilità per le scelte che compie; ha dato cioè il sentimento morale e il bisogno della religiosità. Non è la morale a derivare dalla religione ma esattamente l'opposto: la religione nasce dalla morale come presidio dell'istinto di appartenenza e di ricerca della sopravvivenza collettiva e freno alla trasgressività individuale.

    Il peccato che il Papa ravvisa come causa del disgusto divino parte dunque dalla constatazione che il sentimento orale si va rapidamente ottundendo. Mammona ha conquistato uno spazio crescente, Paal ha alterato l'equilibrio ontologico tra la forza del bene e quella del male. Non si può cercare la causa di questa alterazione in un determinato regime politico, in un meccanismo economico, in un'ideologia sociale. Il danno è molto più profondo e difficilmente reversibile. Gli angeli i sono ribellati al loro Signore e non aiutano più gli uomini a ritrovare la retta via. E il Signore si ritira nel suo cielo, la sua voce tace sdegnata. "I tuoi sacrifici io non li gradisco più perché puzzano di ipocrisia". Non si era mai visto un Papa più disperato di questo al termine del suo pontificato: più profetico, più solo, più apocalittico.

    Il suo appello, anzi la sua rivelazione, è rivolto ai cristiani e anche ai credenti delle altre grandi religioni monoteistiche, gli ebrei, i musulmani, perché l'Onnipotente, il Trascendente, il Signore dell'universo, il Padre delle anime, è unico e comune. Ma interessa anche, quell'appello, direttamente i non credenti

    Essi, i non credenti, non pongono la fonte della morale nei cieli della trascendenza, ma nelle invenzioni incessantemente evolutive della nostra terrestre natura. Ma se è vero - e i segnali sono percepibili a tutti - che il senso di responsabilità e di solidarietà si ottunde e cede spazio alla narcisistica contemplazione di un é posto al di sopra della comunità e ella specie, allora i non credenti sono coinvolti direttamente. Non possono trasferire alle potenze infernali nelle quali non credono la responsabilità di questa alterazione. Né si preoccupano del disgusto divino o degli angeli caduti. In gioco c'è la natura dell'uomo, gli elementi fondanti della specie, la sua sopravvivenza e il suo destino. I non credenti sono chiamati in causa ancor più dei credenti, non hanno un Dio rivolgere lamentazioni e preghiere, né un diavolo da combattere o a cui vendere l'anima, né un Papa che parli per loro. I non credenti sono soli, ciascuno per sé, con il proprio corpo, la propria mente, i propri istinti, la propria individualità, la propria vita e la propria morte. Se saltano gli equilibri di questa multiforme miscela vitale, se l'istinto della sopravvivenza collettiva viene meno, è la vita stessa dell'uomo che entra nella regione dei rischi e del disgusto.

    La vita si ritira disgustata dal vivere. Anche il Vicario è un uomo. E forse è questo che voleva dirci.

     

     

     

    Teologia biblica

    Commento esegetico

    Un Papa "solo" e "apocalittico"

    Nessuno è solo. La venuta di Cristo in mezzo agli uomini testimonia che Dio è sempre accanto all’uomo, individualmente e com’unitariamente, attraverso la Chiesa, rappresentata dal Vicario di Cristo, il Papa. Dire che il Santo Padre è solo è come dire che la Chiesa, istituita da Cristo, violando il principio comunionale della Santissima Trinità, abbia abbandonato il suo capo terreno, cioè, che non lo riconosca più come il successore di Pietro. L’istituto ecclesiale, allora, cesserebbe d’essere "corpo mistico", sacramento di Cristo. Cristo non sarebbe più presente in essa. Cristo Dio, adirato con le sue membra, butterebbe all’aria tutto quello che, per espressa messianicità, gli aveva comandato il Padre e che il Figlio portò a termine col suo sacrificio eucaristico, conclusosi con la sua ascensione.

    La solitudine del Papa assumerebbe l’aspetto di una tragica conclusione di tutto questo e ciò metterebbe in discussione il mandato dato alla Spirito Santo Paraclito, terza Persona della comunione divina, da Cristo stesso, di tutelare i suoi apostoli. Metterebbe in discussione, anche, la superiore decisione di Dio di rendere immutabili, anche da Lui stesso, le sue iniziative. Se così non fosse, Dio sarebbe poco credibile e, di conseguenza, inaffidabile.

    Un Papa "solo", è vero se la sua solitudine è la conseguenza dell’abbandono di Dio da parte di coloro che, ancora oggi, crocifiggono quotidianamente il Figlio di Dio.

    Ma questo comportamento è la conseguenza della lotta, dell’invidia e del tradimento di satana contro il suo creatore. Le grandi tragedie in seno all’umanità non avvengono sotto l’avallo del Signore, ma sotto l’azione diabolica dell’uomo, supportata dalla rabbia del maligno che vede sempre più avvicinarsi l’ora della sua misera sorte finale, che conosce già: Molti profeti, fra le lacrime, hanno denunciato la rottura fra l’uomo e Dio, e a Lui, Dio potente che fa giustizia, irridendosi della violenza dei re e dei capi, chiedendo ragione del suo rimandato intervento e del suo silenzio, incurante delle loro implorazioni:

    "Fino a quando, Signore, implorerò e non ascolti; a te alzerò il grido: -Violenza!- e non soccorri? Perché mi fai vedere l’iniquità e resti spettatore dell’oppressione? Ho davanti rapina e violenza e ci sono liti e si muovono contese. Non ha più forza la legge, né mai si afferma il diritto. L’empio infatti raggira il giusto e il giudizio ne esce stravolto… Poi muta corso il vento: passa e paga il fio. Questa è la potenza del mio Dio!" (Abacuc 1,2-4). 11).

    Un Papa "apocalittico".

    Noi cristiani moderni per lo più lo guardiamo come la prefigurazione di eventi nefasti.

    Un giudeo che conosceva a memoria quasi tutta la Bibbia, leggeva questo testo, pieno di simboli, numeri, animali fantastici e scene strabilianti, atti ad evocare le realtà divine, senza difficoltà.

    Le visioni apocalittiche sono rivolte a "svelare" il futuro della storia, preannunciando la venuta di un’ era.

    Un buon conoscitore della Bibbia non userebbe nei confronti di Giovanni Paolo II l’aggettivo "apocalittico", con l’intento, forse, di definirlo profeta di eventi nefasti, a causa dei comportamenti perversi di una parte dell’umanità, a danno del resto del creato.

    Se l’intento insito nell’aggettivo usato è quello di mostrare un Giovanni Paolo II disperato, è in contraddizione col programma del prossimo viaggio, progettato dal Papa pellegrino – missionario nelle zone d’Europa più scristianizzate.

    L’aggettivo, dal titolo del Libro dell’evangelista Giovanni "Apocalisse ", a buon motivo definito Vangelo della Speranza (nel corso delle prossime righe né scopriremo la ragione), è sicuramente scritto da un autore che non è un profeta, ma un veggente.

    APOCALISSE: Una cristologia per simboli

    Ci siamo mai chiesti perché il libro dell’Apocalisse è posto a chiusura del nostro testo sacro per eccellenza?

    Spesso, privi di dimestichezza nell’uso del Libro dei libri, non sempre amanti del genere poetico, l’Apocalisse ci risulta pesante e incomprensibile. Forse lo riteniamo un po’ fantasioso, macchinoso; uno scritto destinato a mettere lo spauracchio di una condanna divina in chi non si attiene fermamente ai Comandamenti.

    E’ probabile che riteniamo la sua collocazione in fondo alla Bibbia come un modo di relegarlo alla fine del testo sacro, quasi che si volesse farne prendere visione quando ormai comincia ad affiorare una certa stanchezza da "lettura molto impegnativa".

    Ci chiediamo allora, perché il libro in questione è stato incluso dalla Chiesa, depositaria del discernimento e della predicazione della parola di Dio, nel "canone"?

    Non sarà certo a causa di tutto il simbolismo, immagini paurose e prospettive pessimistiche che sembrano emergere da alcuni versi.

    A noi, lettori moderni, occorre un commento che spieghi ad ogni riga l’allusione nascosta perché una lettura attenta rivela l’esistenza di un tema centrale: LA GLORIA DI GESU’.

    In realtà il contenuto dell’Apocalisse (che significa Rivelazione), è un messaggio di speranza che Dio invia ai cristiani che attraversano un brutto momento storico a motivo della loro fede.

    Il fulcro di questa speranza è Dio stesso che si rivela al popolo, non più attraverso predicatori, quali erano i profeti, ma attraverso un veggente, Giovanni, il quale, chiamato ad annunciare il futuro sia prossimo che lontano della storia, descrive le sue visioni e ne sottolinea il significato per fare luce sul vero significato degli avvenimenti presenti, in modo da risollevare, mediante la speranza nel trionfo finale e definitivo di Dio in Cristo Gesù, suo Figlio, sul "male"; l’animo dubbioso e depresso di coloro che disperano, per incoraggiarli e stimolarli nella perseveranza della fede nell’intervento finale di Dio. I simbolismi, talvolta terrificanti, delle visioni giovannee non rappresentano una minaccia generalizzata per il mondo. In parte sono una raffigurazione del male che affligge l’umanità, in parte maggiore sono una rappresentazione dell’intervento finale del Signore che fa giustizia delle forze che si contrappongono al suo regno. La speranza nella vittoria definitiva promessa, fondata sulla potenza di Dio, creatore dell’universo e giudice inappellabile, e sulla vittoria del Cristo, vincitore della morte, dunque, è il principio ispiratore di tutto il libro dell’Apocalisse.

    I credenti, dunque, sostenuti dalla Speranza, sanno con certezza che la vittoria di Cristo, Figlio di Dio sulla morte, li coinvolgerà ed eternamente in modo concreto, e si uniscono a tutti coloro che:

    "… stavano in piedi davanti al trono e all’Agnello (Gesù Cristo, vittima pasquale di salvezza), avvolti in vesti candide, e portavano pale nelle mani. E gridavano a gran voce:

    - La salvezza appartiene al nostro Dio e all’Agnello…

    Amen! Lode, gloria, sapienza, azioni di grazie, onore, potenza e forza al nostro Dio nei secoli dei secoli, Amen" (Ap 7,9-12).

    L’Apocalisse è, dunque, il Libro della Speranza contenuta nel messaggio rivelazione ricevuto da Giovanni e che Giovanni trasmette a tutti:

    "Giovanni alle sette Chiese che sono in Asia: grazia a voi e pace dal Colui che è, che era e che viene, dai sette spiriti che stanno davanti al suo trono, e da Gesù Cristo, il testimone fedele, il primogenito dei morti e il principe dei re della terra. A Colui che ci ama e ci ha liberati dai nostri peccati con il suo sangue, e che ha fatto di noi un regno di sacerdoti per il suo Dio e Padre, a lui la gloria e la potenza nei secoli dei secoli. Amen.

    Ecco, viene sulle nubi.

    E ognuno lo vedrà;

    anche quelli che lo trafissero

    e tutte le nazioni della terra

    si batterono per lui il petto.

    Sì, Amen!

    Io sono l’Alfa e l’Omega, dice il Signore Dio, Colui che è, che era e che viene, l’Onnipotente!

    All’angelo della Chiesa di Efeso scrivi:

    Così parla Colui che tiene le sette stelle nella sua destra e cammina in mezzo ai sette candelabri d’oro: Conosco le tue opere, la tua fatica e la tua costanza, per cui non puoi sopportare i cattivi; li hai messi alla prova – quelli che si dicono apostoli e non lo sono - e li hai trovati bugiardi. Sei costante e hai molto sopportato per il mio nome, senza stancarti… Chi ha orecchi, ascolti ciò che lo Spirito dice alle Chiese: Al vincitore darò da mangiare l’albero della vita, che sta nel paradiso di Dio" (Ap 1,4-8; 2,1-3. 7) .

    I cristiani di Efeso vengono elogiati perché mantengono salda la fede, che comporta necessariamente la speranza. Non hanno dato ascolto ai falsi profeti, ma hanno accettato la persecuzione per Cristo.

    In conclusione. Se, poi, Scalfari intendeva riferirsi al fatto che Giovanni Paolo II (Lui, abituato a soffrire e a infondere fiducia nell’irta via, che rimane pur sempre il cammino verso la casa del Padre), anche in questi momenti di grande travaglio per gli abitanti della terra, con la sua instancabile testimonianza, predica l’avvento del Regno, allora la definizione datagli è del tutto appropriata. Auguriamoci sia così.

    Dio non si rivela più?

    "Raccontano le cronache… che il Papa abbia detto...".

    Non siamo alla presenza di affermazione precise, ma dubbie, come potrebbero essere un mi pare… o un forse… e così via.

    E Dio pronunciò queste parole: "Io sono il Signore, tuo Dio, che ti ho fatto uscire dal paese d’Egitto, dalla condizione di schiavitù: non avrai altri dei di fronte a me" (Es 20, 1-3). E’ il primo degli unici tre, e dei tre fondamentalmente "unici" per la fede, comandamenti, che il Creatore ha riservato alla sua divina e trinitaria Persona. Gli altri sette, riservati al principe della sua opera, l’umanità, suo popolo, sono una conseguenza logica e subordinata dei primi tre. Il mancato riconoscimento, da parte di questo popolo, del primato divino e trascendente del suo Creatore, dunque, è il "peccato massimo", che tradisce un indiretta acquiescenza di un impossibile primato di satana e del quale si resero colpevoli gli abitanti delle città di Giuda e di Gerusalemme. Eppure il Signore non restò chiuso e silenzioso nel suo dolore. Egli, nel suo disgusto, non si chiude nel silenzio, non cova la vendetta, ma apertamente vieta ai suoi profeti di intercedere per i traditori del suo amore e, attraverso di essi, parla agli inadempienti per informarli che la loro mancanza non resterà impunita. Cade così il lamento di Abacuc e di Geremia nel loro dialogo con Dio: "Fino a quando, Signore, implorerò e non ascolti, a te alzerò il grido: -Violenza ! – e non soccorri? Perché mi fai vedere l’iniquità e resti spettatore dell’oppressione? Ho davanti rapina e violenza e ci sono liti e si muovono contese. Non ha più forza la legge, né mai si afferma il diritto. L’empio raggira il giusto e il giudizio ne esce stravolto" (Abacuc 1,2-4). "Riversa la tua collera sui popoli che non ti conoscono e sulle stirpi che non invocano il tuo nome, poiché hanno divorato Giacobbe l’hanno divorato e consumato, e hanno distrutto la sua dimora" (Geremia 10,25).

    Il Signore non tace e, nel suo disgusto, esprime il suo dolore: Rivolto a Geremia, Dio proferisce parole apocalittiche, cioè annunciatici dei rigorosi che in sede di giudizio segneranno la sconfitta del male e il trionfo del bene. "Non pregare per questo popolo, non innalzare per esso suppliche e preghiere né insistere presso di me, perché non ti ascolterò. Non vedi che cosa fanno nelle città di Giuda e nelle strade di Gerusalemme?… si compiono libagioni a falsi dei per offendere me. Ma forse costoro offendono me – oracolo del Signore – o non piuttosto se stessi a loro vergogna?… Il mio furore, la mia ira si riversa su questo luogo, sugli uomini e sul bestiame, sugli alberi dei campi e sui frutti della terra e brucerà senza estinguersi" (Geremia 7,16-20). …"Io rovescerò su di essi la loro malvagità" (14,16b). "Ecco, io faccio sorgere i Caldei, popolo feroce e impetuoso… Egli è feroce e terribile, da lui esce il suo diritto e la sua grandezza. Più veloci dei leopardi sono i suoi cavalli, più agili dei lupi della sera. Balzano i suoi destrieri, venuti da lontano, volano come aquila che piomba per divorare" (Abacuc 1,6-8). In questa risposta, il Signore stesso, usando simbolismi apocalittici, annuncia che susciterà il flagello Caldeo per punire l’ingratitudine dei nemici suoi e del prossimo reso vittima delle loro iniquità.

    …"I miei occhi grondano lacrime notte e giorno, senza cessare, perché da grande calamità è stata colpita la figlia del mio popolo…" (v. 17).

    La siccità e la fame, la sanguinosa invasione Caldea, lo scoraggiamento del profeti e del sacerdote gettano lo sgomento nell’animo fragile dell’uomo Geremia, che non comprende il dolore di Dio; interpreta il castigo di Dio, che continua a parlare, ad inviare messaggi ai quali il popolo non presta ascolto continuando "piacevolmente a vagare, a non fermare i loro passi" (v. 10), come un gesto che è segno di chiusura cioè di rottura definitiva: "Così dice il Signore di questo popolo: <Piace loro andare vagando, non fermano i loro passi… Non intercedere a favore di questo popolo, per il suo benessere. Anche se digiuneranno, … se offriranno olocausti e sacrifici, non li gradirò; ma li distruggerò.>"

    Geremia non è come l’assemblea dell’udienza in questione, addolorata e stupita: consapevole della misericordia divina, non desiste dall’implorare il Signore: "Se le nostre iniquità testimoniano contro di noi, Signore, agisci per il tuo nome! Certo, sono molte le nostre infedeltà, abbiamo peccato contro di te" (v. 7).

    Anche quando nel profeta comincia a farsi strada la sensazione che la Speranza, fino a quel momento salvezza d’Israele nei momenti difficili, ora rivolga altrove il suo sguardo sostenitore e comincia a sentirsi invaso dalla disperazione, quasi perde la testa, fino ad usare un tono molto fermo nel suo dialogo col Creatore: "O speranza d’Israele, suo salvatore al tempo della sventura,perché vuoi essere come un forestiero nel paese o come un viandante che si ferma solo una notte? " (v. 8).

    Alla speranza che si allontana, nel cuore di Geremia si fa strada l’idea come di un assenteismo di Dio. Il disinteresse di un padre rigoroso che ritiene il figlio irrecuperabile. Ma la speranza nella infinita grandezza di Dio non abbandona Geremia che ama il suo popolo peccatore e vuole evitarne la rovina della punizione divina. Il dialogo implorante che egli intesse con il Signore è talmente forte che alcune sue frasi dolorose sembrano proferite da Dio stesso, il quale, in effetti, non si erge solo nella sua figura di unico giustiziere. Anche se il suo cuore è ferito dalle gravissime mancanze dei suoi figli, rende la sua immutabile misericordia un bene temporaneamente nascosto. Questa verità, al di là di ciò che può sembrare un gesto di disperazione, rimane nel cuore di Geremia, affranto per il pentimento delle mancanze del suo popolo che, pur non essendone direttamente responsabile, lo coinvolgono spiritualmente. Diversamente la sua preghiera non sarebbe costellata di interrogativi. La certezza di una irremissibile condanna gli avrebbe fatto riconoscere l’inutilità degli interrogativi.

    Il "sembra", proferito da Giovanni Paolo II, è riferito alla lamentazione di Geremia: "Hai forse rigettato Giuda, oppure ti sei disgustato di Sion? Perché ci hai colpito, e non c’è rimedio per noi? Aspettavamo la pace, ma non c’è alcun bene, l’ora della salvezza ed ecco il terrore!" (14,19).

    Il profeta è un uomo. Pur nella sua fedeltà a Dio, c’è in lui la fragilità della carne. Come uomo è toccato come gli altri dalla sciagura nazionale e si sente, se non abbandonato, almeno trascurato. E’ in preda allo sconforto. I suoi continui "Perché… perché?" tuttavia hanno trovato e trovano una risposta da parte del Signore: "Tu sei troppo giusto, Signore, perché io possa discutere con te; ma vorrei solo rivolgerti una parola sulla giustizia. Perché le cose degli empi prosperano? Perché i traditori sono tranquilli?…

    Fino a quando sarà in lutto la terra e seccherà tutta l’erba dei campi?…

    Il Signore mi rispose così: <Va’ a comprarti una cintura di lino e mettila ai fianchi senza immergerla nell’acqua. Io comprai la cintura secondo il comando del Signore e me la misi ai fianchi >.

    Poi la parola del Signore mi fu rivolta una seconda volta: <Prendi la cintura che hai comprato e che porti ai fianchi e va’ subito verso l’Eufrate e nascondila nella fessura di una pietra >. Io andai e la nascosi presso l’Eufrate, come mi aveva comandato il Signore. Ora, dopo molto tempo, il Signore mi disse: <Alzati, va’ all’Eufrate e prendi di là la cintura che ti avevo comandato di nascondervi >. Io andai verso l’Eufrate, cercai e presi la cintura dal luogo in cui l’avevo nascosta; ed ecco la cintura era marcita, non era più buona a nulla >.

    Allora mi fu rivolta questa parola dal Signore: <Dice il Signore: In questo modo ridurrò in marciume la grande città di Giuda e di Gerusalemme. Questo popolo malvagio che rifiuta di ascoltare le mie parole, che si comporta secondo la caparbietà del suo cuore e segue altri dèi per servirli e per adorarli, diventerà come quella cintura, che non è più buona a nulla > ". (12,1. 4; 13,1-10).

    Si racconta che una volta un giovane chiese a suo padre: Perché mi rimproveri continuamente? Sono stanco di ascoltarti! Il padre rispose: figlio mio, fino a quando ti rimprovero è perché spero di salvarti dai tuoi errori. Guai a te il giorno in cui non dovessi più farlo; vorrebbe dire che dispererei di salvarti a causa della tua volontaria sordità.

    Dio tace solo per coloro che respingono le sue parole. Come dire che: "il vero sordo è colui che non vuole prestare ascolto", perché la Parola è scomoda per il suo modo egoistico di agire. Costoro saranno abbandonati in una fessura recondita priva della luce e del calore divino e, dimenticati da Dio, marciranno in essa.

    C’è, dunque, un intervento del Signore e non un accondiscendente rifiuto di castigare gli ingiusti e raddrizzare i torti subiti dalle loro vittime.

    Un Papa disperato. Non ha senso!

    La Chiesa, infatti, in quanto successori degli Apostoli, riconosce ai Vescovi d’essere collegialmente e individualmente, gli autentici dottori e maestri della fede. Come può, allora, il Vicario di Cristo, il loro capo, rinnegare una delle tre virtù teologali (fra loro trascendentalmente e strettamente legate e di cui la seconda e la terza sono naturalmente consequenziali della prima). Ci troveremmo, per assurdo, alla presenza di un ateo che, chi sa per quale caso, si trova a sedere sul trono papale che fu di Pietro.

    La frase "La descrizione è purtroppo tragicamente attuale in tante regioni del nostro pianeta" pronunciata dal Santo Padre in apertura del discorso costituisce un salto dai tempi di Geremia e, in genere, di quelli più o meno antichi della storia biblica, ai giorni degli ultimi secoli del secondo millennio e all’affacciarsi del terzo. Sono gli anni dell’accaparramento delle risorse materiali da parte degli Stati più forti, in competizione fra loro per il potere mondiale, a danno dei Paesi più deboli e anche al loro stesso interno, a danno delle masse lavoratrici, per sostenere la spesa dell’armamento militare.

    Aspri conflitti, mentre sconvolsero i rapporti di forza fra le maggiori potenze, tennero in piedi il colonialismo, entrato in crisi solo dopo la seconda guerra mondiale. Nello stesso tempo i mutamenti seguenti il processo di modernizzazione industriale ridefinì in modo discriminatorio il rapporto sociale e politico fra gruppi forti e le classi più deboli. Lo sviluppo economico dell’Europa e degli USA trovò il suo punto di forza nel controllo esercitato dalle classi dirigenti nei confronti delle masse lavoratrici con i tradizionali sistemi del paternalismo e della repressione, escludendole dalla partecipazione politica e lasciandole in una condizione di permanente precarietà economica quando non di povertà estrema e di emarginazione.

    Questi metodi furono all’origine di un triangolo i cui vertici furono:

    •  
    • il liberalismo borghese, primariamente non tanto nel gioco del libero mercato quanto nell’iniziativa dello Stato di nazionalizzazione e controllo delle masse ai fini di integrazione sociale e politica nelle istituzioni;
    •  
    • i partiti socialisti, fra cui anche il comunismo ateo di tipo sovietico, che, un po’ per mero sostegno della questione sociale e un po’ per una strumentalizzazione della miseria estrema delle classi operaie e contadine, cercarono ma non trovarono da parte di una classe dirigente arcaica, del tutto impreparata, altre risposte che non fossero un obsoleto paternalismo autoritario e una repressione violenta;
    •  
    • la Chiesa che, avversa sia all’incapacità e all’irresponsabilità del potere costituito sia al socialismo, con l’enciclica Rerum novarum emanata nel 1981 da Papa Leone XIII, avanzò un progetto, sostenuto dai suoi successori fino all’attuale Pontefice, Giovanni Paolo II, La Chiesa, infatti, in quanto successori degli Apostoli, riconosce ai Vescovi d’essere collegialmente e individualmente, gli autentici dottori e maestri della fede di società cristiana fondato su un capitalismo avente come obiettivo primario la solidarietà sociale originato da ritrovate corrette relazioni padroni – operai ed un’equa ripartizione della ricchezza.

    Come può un Papa della tempra di questo grandissimo apostolo delle genti che, nonostante le sue sofferenze personali e le dure prove inferte dal malefico dio della guerra, del terrore, delle fame, della corruzione, dello sfruttamento umano, della lussuria e dell’inganno, abbandonarsi ad una crisi di pianto, abbandonandosi fra le braccia di coloro che dovrebbe incoraggiare e stimolare ad unirsi nella lotta di Cristo Gesù per il trionfo del bene sul male? La sua sofferenza interiore non lo rinchiude in se stesso, ma lo fa pregare e gridare per il veleno che scorre nelle vene dei tiranni; quella sete di potere che supera lo stesso spirito di vendetta a favore del prestigio nazionale e mondiale, che lo mantiene sulla poltrona, e del possesso dei beni del mondo, petrolio in testa. L’ideale americano non è la difesa dei colori nazionali, ma l’intenzione di diventare gli incontrastati padroni del petrolio mondiale. Una bella guerra salverebbe capre e cavoli: la vendetta della strage delle due torri, il prestigio del più forte, una validissima forma di campagna elettorale per la conferma della maggiore poltrona del potere, il possesso del petrolio. Che ci fa se ci saranno molti morti? Se moriranno mille bambini? Vale più l’oro nero che la vita umana. Se muore un bambino saranno versate solo lacrime che non costano nulla. Se manca il petrolio si ferma l’economia mondiale. Dunque, meglio che crepino centinaia di migliaia di persone piuttosto che manchi il petrolio. E così il popolo caldeo da giustiziere che fu verrà trasformato in popolo giustiziato ingiustamente, perché il vero scopo delle sua aggressione da parte statunitense è la conquista dell’oro nero" e siccome, ancora una volta, una certa parte dei media, come già è accaduto per l’udienza papale di mercoledì 12 dicembre 02, tendono a travisare gli interventi sociali della Chiesa, un duro attacco è stato mosso contro monsignor Warduni, vescovo ausiliare del Patriarcato di Babilonia dei caldei, il quale, prima ancora di definire Bush "non cristiano", durante l’omelia da alcuni giorni fa nella Basilica di S. Giovanni, ha gridato. "questa guerra non la capiamo. Perché venire da noi? Volete il petrolio? Prendetevelo e lasciateci in pace. Prendano pure tutto il petrolio che vogliono, ma ci lascino in pace. Questa guerra minaccia i nostri bambini,i vecchi, i malati, i giovani che da dodici anni non sanno niente del loro futuro. Dov’è la libertà? Dov’è la carità cristiana? Chiediamo di vivere come uomini, non vogliamo altro al mondo. Perché venire da noi? Perché abbiamo il petrolio? Ci prendano il petrolio, ma ci lascino in pace. Perché l’Iraq è ricco? Ma questa ricchezza è venuta da Dio, non da noi. E qual è la nostra colpa? Il Papa prega sempre per la pace. La pace porta felicità e libertà. " La testimonianza del Vescovo ausiliare di Bagdad si chiude con un Papa che non disarma; continua combattere per la giustizia con l’arma della preghiera; vuol dire che la sua speranza rimane intatta, anche di fronte all’invio di trentamila soldati inglesi in Iraq; anche di fronte alla vergogna di volere scavalcare l’ONU; di gente anagraficamente cristiana, ma nella sostanza pagana, legata all’idolo del potere, menefreghista degli accorati appelli della Chiesa, con i suoi insegnamenti sociali, e di quelli del Vicario di Cristo. E qual è la reazione dei cristiani che non sono colpevoli di tutto questo? Lo scoraggiamento di fronte alla citazione di Geremia fatta dal Santo Padre per svegliarli dal loro torpore¸e ci è riuscito aal punto che l’Europa ha mostrato di non essere tutta guerrafondaia per osannare Bush (atteggiamento indegno di far parte di una serie di Stati che hanno votato l’unità per essere liberi), come dimostra la volontà pacifista di alcuni Stati, con la cattolicissime Francia e Germania (ben lontana d’essere quella di un pazzo che si circondava di altri folli quanto lui) in testa.

    Con la frase: "Giovanni Paolo II esce dalla lotta col male che lo ha provato in varie maniere temprato e più battagliero che mai, come Gesù dopo quaranta giorni di tentazioni nel deserto", Scalfari sembra riprendersi sostenendo un concetto che condividiamo pienamente.

    Purtroppo, però, dobbiamo ricrederci su questa iniziale ma apparente ripresa del noto giornalista. Egli, infatti, attribuisce alla forte tempra del Papa l’energia per demoralizzare coloro che erano andati a cercare conforto nelle sue parole rassicuranti sull’assistenza divina, in quest’epoca in cui alle acquisite conoscenze scientifiche, tecnologiche e culturali dell’uomo fa riscontro un loro cattivo uso per il fine di un sempre crescente godimento epidermico dei beni temporali.

    Esprimiamo la nostra certezza che le parole accorate del Sommo Pontefice suonano come monizione e, ad un tempo, come ammonizione forte.

    Se così non fosse, potremmo cercarci un’altra religione che non ci imponga un Dio indifferente ed un Papa che s’è arreso e se ne sta passivamente rannicchiato in un angolo ad azionare indifferente anche davanti a immagini di persone, uomini, donne, bambini che si ammazzano fra di loro per contendersi un pezzo di pane. E con la stessa noncuranza apprenderebbero che la spesa sanitaria destina il 99% dei farmaci a USA con una forte discriminazione fra America del Nord e America del Sud, Asia (limitatamente a Cina e Giappone) ed Europa e solo lo 1% al Continente più bisognoso di tutti, l’Africa.

    A quando la giustizia di Dio?

    "Ecco, viene sulle nubi.

    E ognuno lo vedrà;

    anche quelli che lo trafissero

    e tutte le nazioni della terra

    si batterono per lui il petto.

    Sì, Amen! ".

    …"Io rovescerò su di essi la loro malvagità" (14,16b).

    "… La cintura era marcita, non era più buona a nulla.

    Allora mi fu rivolta questa parola dal Signore: <Dice il Signore: In questo modo ridurrò in marciume la grande città di Giuda e di Gerusalemme. Questo popolo malvagio che rifiuta di ascoltare le mie parole, che si comporta secondo la caparbietà del suo cuore e segue altri dèi per servirli e per adorarli, diventerà come quella cintura, che non è più buona a nulla > ".

    "Piacque a Dio nella sua bontà e sapienza rivelare se stesso per mezzo di Cristo, Verbo fatto carne e manifestare il mistero della sua volontà per far sì che gli uomini nello Spirito Santo avessero accesso a Lui e partecipassero della suanatura divina. Con questa rivelazione, infatti Dio invisibile nel suo grande amore parla agli uomini come ad amici " (cfr. Dei Verbum 2; Efesini 1,9; 2,18; 2 Pietro 1,4; Colossesi 1,15; 1Timoteo 1,17).

    La fede cristiana è fondata su un Dio che si rivela al suo popolo per mezzo di Mosè allo stato primitivo e, soprattutto, che non rimane staticamente a questo stadio, come accade nell’Ebraismo, ma procede in modo dinamico e continuo da Padre a Figlio, sempre presente in forma sacramentale nella Chiesa, suo corpo mistico. Siamo in presenza di una quotidiana rivelazione divina nella Parola e nell’Eucaristia che celebriamo nella Chiesa e nella vita, che comunica con noi attraverso il Corpo e il Sangue della Parola che per iniziativa decisionale di Dio si è fatta carne per noi uomini e per la nostra salvezza e ci ha istituiti suo corpo mistico; popolo sacerdotale, profetico e regale.

    Come possiamo, allora, pensare ad un Padre che mette nel mondo la sua Creatura per eccellenza per farla parlare della reale presenza e dell’avvento del suo Regno e poi le cuce la bocca.

    Un idea del genere è sacrilega perché esprime un Dio contraddittorio e, di conseguenza, non affidabile; un Dio messo alla stessa stregua dei peggiori leader politici.

    A parte il fatto che solo i giornali specializzati si occupano abitualmente delle udienze papali, ci chiediamo chi sono per l"Espresso" i destinatari dei contenuti dell’udienza in questione? Sono, appunto, i giornali che non sono soliti effettuare servizi sull’oggetto di questo articolo; sono coloro che, in fatto di fede, definiamo "indifferenti"; sono i responsabili dei mali sopra descritti; o sono, piuttosto, i più, che hanno compreso il giusto significato delle parole pronunciate dal Pontefice?

    Forse il mondo è diventato una grande Torre di Babele dove il male è talmente diffuso da fare perdere il senso del peccato, per cui ogni parola che esce dalla bocca dell’uno è incomprensibile all’orecchio dell’altro, tanto da non rendere più il suo vero significato?

    Basta però che coloro che si lasciano guidare dalla fede la quale, anzi, esce temprata dalle prove inferte da questo momento di caos temporale, perché la Speranza rimanga sempre viva e attiva nel ruolo assegnatole dal Creatore, in favore di tutte le genti.

    Anche Scalfari arriva all’esatta conclusione, alla quale la Chiesa è giunta fin dai tempi del Vaticani II con l’ecumenismo, della comunione missione di tutti i credenti (indipendentemente dal modo di confessare la fede nell’unico Dio), chiamate alla comune responsabilità morale.

    Il riconoscimento del peccato collettivo, nel quale il profeta si sente coinvolto, è la condizione indispensabile per giungere alla riconciliazione con Dio e con i fratelli in Lui. E’ un riconoscimento che il Nuovo Testamento ci presenta e consegna così: "Padre ho peccato contro di te."

    Tutto il male che non solo oggi, ma oggi forse più di ieri, una gran parte dei figli di Dio compie, come soggiogata e drogata dalla bramosia del benessere e del potere ad ogni costo, sangue, fame, discriminazione sociale, schiavitù dei più deboli, equivale ad un paganesimo del nostro tempo.

    Tutto ciò ferisce il cuore del profeta e fa grondare lacrime amare dai suoi occhi: "I miei occhi grondano lacrime, notte e giorno, senza cessare".

    La rivelazione c’è stata. Bisogna avere occhi, orecchi e cuore aperti: Dio ha rivelato la sua misericordia attraverso il perdono del Papa fino a dentro le mura del carcere. Dio non è intervenuto nelle decisioni della giustizia terrena. Dio non ha armato la mano della giustizia umana, ma ha lasciato libero l’uomo di emettere una sentenza equa e moralmente oculata, conforme al carisma di chi, nell’ottica della giustizia divina e del rispetto del prossimo, gestisce il potere giudiziario temporale. Il fatto d’avere trasferito questa competenza all’uomo non significa che Dio, lavandosi le mani, manchi di giustizia, infatti: "E’ proprio della giustizia di Dio rendere afflizione a quelli che vi affliggono e a voi, che ora siete afflitti, sollievo insieme a noi, quando si manifesterà il Signore Gesù dal cielo con gli angeli della sua potenza in fuoco ardente, a far vendetta di quanti non conoscono Dio e non obbediscono al Vangelo del Signore nostro Gesù" (2 Tessalonicesi 1,6-8). Dio si rivela anche in tutto questo.

    Dio ha creato l’uomo come individuo che è al di sopra d’ogni altra creatura terrena. In cosa consiste questo? L’uomo, a differenza delle altre creature, è stato dotato dal suo Creatore di un anima spirituale che lo eleva al grado di individuo ragionevole con capacità decisionale sulla scelta delle proprie azioni e delle loro conseguenze, anche se al suo capostipite fu posta una condizione comportamentale d’ordine morale.

    D’altra parte non si potrebbe parlare di libertà decisionale in assenza di obiettivi con finalità diverse sui quali far cadere scelte opzionali.

    Se Dio, attraverso il simbolismo dell’albero del bene e del male, a noi tramandato, ha informato Adamo dell’esistenza di due diversi traguardi, vuol dire che il bene e il male preesistono rispetto all’uomo. Il primo è insito in Dio stesso; il secondo è "proprio" di una creatura corrotta fra quelle elette, create ancor prima dell’uomo stesso, per essere gli accoliti del Padrone dell’Universo. Alla luce di questa rivelazione al suo progenitore, l’individuo umano si rende conto della sua debolezza, esistente all’interno della sua libertà, e sente il bisogno di appoggiarsi a Colui che, essendogli padre, gli ha messo in mano una libertà che comporta delle responsabilità, senza le quali l’eredità ricevuta scadrebbe di valore.

    Questa coscienza di non autodipendenza mantiene vivo il legame col Padre e fa scaturire dentro di lui il bisogno di religiosità e il sentimento religioso, il quale comporta necessariamente la condivisione e l’accettazione di un codice morale che rende efficace questo sentimento.

    Questa accettazione, dunque, è una conseguenza del bisogno di religiosità che s’è destato in lui.

    La morale di Dio, insita nella sua Sapienza e tramandata all’uomo, com’è implicito nella Tradizione, preesiste con la sua stessa Persona e i credenti la fanno propria in conseguenza della loro religiosità verso il Santo dei santi. Questo rapporto prioritario della religiosità nei confronti della morale si evidenzia molto bene nella lettera che San Paolo scrive agli Efesini: "Avendo avuto notizia della vostra fede nel Signore Gesù (1,15) (vi do queste norme morali). Siate sottomessi gli uni gli altri nel timore di Cristo. Le mogli…; i mariti…;… voi, figli, obbedite ai vostri genitori nel Signore… e voi padri, non inasprite i vostri figli, ma allevateli nell’educazione e nella disciplina nel Signore. … (6,1-4)" . Paolo, dopo avere accertato la fede degli Efesini, impartisce loro la morale. Quindi, prima la fede, che comporta la religiosità ed è dimostrata anche da essa, poi la morale che, in rapporto alla fede, se è osservata, la testimonia.

    Dobbiamo però riconoscere che può capitare che un non credente sia indotto alla conversione da comportamenti di vita che sono spontaneamente conformi alla morale cristiana. Questo si; può capitare!

    La disperazione è una conseguenza della sfiducia. Il Papa dunque sarebbe sfiduciato. Ma se così fosse come avrebbe potuto, durante l’omelia tenuta il 1° gennaio 2003 in occasione della solennità di Maria SS. Madre di Dio e nella XXXVI Giornata Mondiale della Pace, senza cadere in contraddizione, citare questi versetti del libro dei Numeri: "Ti benedica il Signore e ti protegga… rivolga su di te il suo volto e ti conceda pace" (6,24-26); e, per fare luce su queste parole, aggiungere: Dinanzi agli eventi che sconvolgono il pianeta, appare con chiarezza che solo Iddio può toccare l’animo umano nel profondo; solo la sua pace può ridare speranza all’umanità. Occorre che Egli rivolga verso di noi il suo volto, ci benedica, ci protegga e ci faccia dono della sua pace. Quando il 9 Aprile 1963 Papa Giovanni XXIII, il mio venerato predecessore, che ho avuto la gioia di elevare agli onori dell’altari, firmò pubblicamente, davanti alla TV, un’enciclica dedicata interamente al tema della pace, la "Pacem in terris", nubi minacciose si profilavano all’orizzonte mondiale, e sull’umanità pesava l’incubo di una guerra atomica, non si lasciò vincere dalla tentazione dello scoraggiamento. Al contrario, poggiando su una salda fiducia in Dio e nelle potenzialità del cuore umano, indicò con forza, la verità, la giustizia, l’amore e la libertà" come i quattro pilastri su cui costruire una pace durevole.

    Vi pare possibile che una persona sfiduciata sottolinei con ammirazione la citazione dei versi di cui sopra, del libro dei numeri, con la testimonianza di fede e speranza di coloro che lo hanno preceduto nell’esecuzione del mandato divino? Ed in più, con Isaia, sollecitare, come ha fatto nel corso dell’udienza di mercoledì 18 dicembre 2002, immediatamente successiva a quella in questione, gli altri ad essere testimoni e messaggeri di fiducia: "Dite agli sfiduciati: <Coraggio, non abbiate timore: ecco, il nostro Dio viene a salvarci > (35,4). Ecco, bastano queste citazioni (ma molte altri se ne possono fare) per affermare che è assurdo pensare e parlare di un Papa deluso, disperato, sfiduciato, scoraggiato, arreso!

    Anche i pagani, nella loro ignoranza religiosa, avvertono la necessità di una presenza superiore, che li guidi e li protegga nei loro atti e nelle afflizioni quotidiane, che li guidi e li protegga. Non sapendo riconoscere questa presenza nella sua realtà gratificante, scelgono o si fabbricano un simbolismo che più si adatta alla loro immaginazione fantasiosa. Percependo la necessità di darsi delle regole, più o meno giuste o più o meno cattive, secondo il punto di vista del modello cristiano, ispira queste regole al proprio concetto religioso. Anche in questo caso, allora, la morale è una conseguenza della religiosità e non il contrario. Per questo possiamo affermare che anche i non credenti si danno un codice di vita razionale. Si potrebbe sostenere, a questo punto, che morale e religiosità sono indipendenti l’una dall’altra. In questo caso potremmo trovarci, anche, davanti al sorgere di una religiosità proveniente dalla morale, applicata caso per caso, che non scaturisce dalla santità di vita proposta dalla morale che deriva dalla fede nel Dio vero rivelatosi transustanziazionalmente in Cristo Gesù.

    In verità il contenuto di questa frase è per noi difficilmente comprensibile. Forse si riferisce al variegato aspetto dei marosi, agitati dalle bramosie dell’uomo d’oggi, nei quali si dibatte la moderna società "razionale". Non riteniamo corretto accostare la figura trascendente del Vicario di Cristo Gesù, emanazione e rivelazione diretta di Dio Padre, alle membra corrotte di questa società tentacolare. Egli non è e non si ritiene uno sconfitto! Che se così fosse, ci troveremmo, ancora una volta, davanti ad un atteggiamento contraddittorio, cioè in contrasto con i progetti pastorali tracciati da lui stesso dall’alto della sua infallibilità che gli è propria in quanto legata all’essenzialità del suo ruolo di rappresentante di Cristo nella società umana in questa terra. Questo non gli dà motivo d’essere insensibile davanti al disordine mondiale che cresce parallelamente all’aumentata volontà umana di accaparramento, con la conseguenza di guerre, fame, schiavitù, soprusi, maltrattamenti che offendono la dignità della persona, dei beni destinati dal Creatore a ciascuno secondo un principio d’imparzialità. La speranza di un superamento di questo stato di cose, come dimostrano gli inviti e le affermazioni del Santo padre, il 18 dicembre 02 e il 1° gennaio 03, rimane intatta. La sua speranza nell’evoluzione finale del bene è legata alla certezza della vittoria di Cristo, Verbo di Dio sempre in azione, mai silente, mai sconfitto dalle circa 3500 anni di guerre contate dal 1496 a. C. ad oggi (quasi 3150 anni di guerre e solo 227 di pace). In 2003 anni di cristianesimo, di questo passo, prima di Giovanni Paolo II, più di cento Papi avrebbero avuto motivo di deprimersi e di andare soggetti alla tentazione del getto della spugna sul tappeto. Avremmo avuto una Chiesa fragilissima e quasi inesistente, non degna di fede; il cristianesimo sarebbe scomparso per dare luogo a qualche altra religione "forte", anche dogmaticamente incerta, equivoca e inaffidabile nei confronti della "Verità". A questo punto, non ci rimane che sperare che le travisazioni dei media sull’undici dicembre 2002 siano frutto d’errore anziché nascondere intenzioni tendenziose.

    CONCLUSIONE

    Il Papa, pur provato duramente nel corpo e nello spirito, per avere ascoltato, visto, toccato le piaghe dei deboli, inferte dall’egoismo di alcuni potenti della Terra, rimane sempre la dura roccia su cui poggiano la Chiesa, la Fede, la Speranza e la Carità.

    Profondamente addolorato, crede, spera, protende le braccia verso i poveri, infonde loro la fiducia, la speranza certa, ilo sorriso della Parola della Buona Novella.

    Sono gli uomini di poca fede, che mancano di speranza e di carità, a pensare un Vicario di Cristo fragile come loro.

    Stringiamoci in un abbraccio attorno al nostro Sommo Pontefice, esclamando: "preghiamo, sperando", "sperando, preghiamo".

    Giuseppe Siringo