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Anch’io sono stato compagno di scuola di don Vincenzo, in quarta e quinta
elementare. Allora abitavo a Campalto: in quel paese si poteva frequentare fino
alla terza elementare, ma per le due classi successive si doveva andare a Favaro
(a piedi, naturalmente!). Don Vincenzo era un ragazzo quieto, tranquillo. Si
sapeva che era stato malato e che portava il busto. Ricordo che in classe con
noi c’erano Luigi Bertoncin, detto “Durante”, che poi è sempre rimasto a
Favaro; Giuseppe Baroffio, che abitava alla fine di Via Lazzaretto, nella casa
poi divenuta residenza dei De’ Rossi; Antonio Pastrello, fratello della
medaglia d’argento della seconda guerra mondiale a cui è intitolata Piazza
Favaro; Giuseppe Voltan, che ha gestito per tanti anni il negozio di alimentari
già di suo padre, in Via Altinia vicino alla chiesa di S. Andrea; Adone Granzo,
che poi è diventato medico; Giuseppe Scapin, che ha tenuto per anni un negozio
di materiali elettrici vicino a Piazza Pastrello. Tra le ragazze ricordo la
Wanda Gaggiato, che diventerà proprietaria del negozio di profumeria ed
articoli vari vicino alla Piazza; e Maria Voltan, dei “Ballarin” che ancora
oggi abitano nella casa verso Dese. Eravamo in gran parte figli di gente umile.
Andavamo a scuola quasi tutti con la giacchettina consumata e rattoppata, anche
d’inverno perché non avevamo un “paltò”, e le “galosce” con le “brocche”
come scarpe. Ricordo a questo proposito un episodio quasi da libro “Cuore”.
Un mio compagno di un’altra classe era senza “paltò” e aveva freddo. La
maestra, una ragazza graziosa e gentile che veniva da Venezia, gli voleva bene e
gli regalò una bella e grande sciarpa di lana grigia, lavorata ai ferri,
perché la indossasse contro il freddo. Il mio compagno gradì il gesto, ma si
vergognava un po’ di portarla; finì che se la mise suo fratello maggiore, che
se la girava attorno al corpo più volte quando andava a lavorare a Mestre in
bicicletta. La maestra ci rimase un po’ male a vedere che il mio amico non la
portava. Eravamo fatti così: poveri, ma orgogliosi.
Le pietre “faccia a vista ” della chiesa
Ho ritrovato poi don Vincenzo come cappellano a S. Andrea: ha seguito i miei
figli per la prima comunione e la cresima, ha insegnato loro a fare i
chierichetti. Poi è diventato parroco di S. Pietro. Ricordo la raccolta delle
buste con le offerte per la nuova chiesa: qualcuno di contrario c’era sempre,
come in tutte le cose, ma la gran parte della gente contribuiva volentieri. A me
il lavoro delle pietre “faccia a vista” della chiesa è sempre piaciuto.
Ricordo che il mio capo allo stabilimento della Breda [ora Fincantieri, ndr.],
il geometra Angelo Pedrina, ripeteva spesso a noi della squadra manutenzione:
”Mi raccomando, voglio un lavoro eseguito bene, perfetto, come quello delle
pietre “faccia a vista” della chiesa di Favaro: tutte esattamente allineate,
senza un filo di sporco!”. Le aveva viste una volta per caso e ne era rimasto
colpito. Favaro, perla della terraferma veneziana. Ho sentito tante volte questa
frase, gridata da quelli che vendevano i biglietti alla Pesca di Beneficenza
della festa del patrono. Credo l’abbia usata per la prima volta il vecchio
sindaco di Venezia del dopoguerra, Gianquinto, in visita al nostro paese. Sembra
anche che avesse una origine piuttosto curiosa. Nei giorni di festa il municipio
di Favaro era illuminato di notte da una serie di luci. Sopra la statua più
alta della facciata veniva posta una specie di “boccia“ luminosa, che
sembrava come un’enorme “perla”.
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