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DA IL PANTECO - Marzo 1995

 



di Michele Ponzio
 

C'era, fino a un secolo fa, l'odore della terra bagnata dopo i temporali autunnali e gli asparagi al primo sole spuntavano dalla terra, protetti da una corona di spine. Poi spuntò quella "cosa" e tutto non fu più come prima.
"Così inizia la cronaca" disse Runcini, seduto sulla poltrona, facendo del suo meglio per assumere l'aria grave che si conveniva alla natura della storia.
Quella "cosa" mostruosa cresceva ormai a vista d'occhio. Erano passati soltanto pochi giorni da quando qualcuno nell'isola aveva notato delle forme tozze e grigie venir su dalla cava; e la "cosa" aveva raggiunto dimensioni impressionanti. Era grigia con macchie rosse e senza una forma ben definibile. Si era arrampicata pesantemente sulle pareti della cava, aveva raggiunto il ciglio della strada e continuava a crescere, grigia e rossa fin oltre le case circostanti, diritta verso il cielo.
Runcini interruppe, per un istante, la lettura di alcuni fogli ingialliti, come tutto del resto, e proseguì il racconto senza più leggere. Quella storia era scolpita nella sua memoria da anni di dubbi e di riflessioni. Era come se gli appartenesse. Era la storia del suo e del nostro pallore.
La gente del luogo, dandosi il cambio, la osservava crescere con stupore. Erano stati sistemati tutto intorno dei grossi riflettori per vederla anche di notte, nella nascosta speranza di notare una fase di stanca, di annotare un arrestarsi della crescita almeno durante le tenebre.
Ma niente. La "cosa" si allargava e si allungava senza tregua, di notte così come di giorno. La protezione civile era stata allertata fin dai primi giorni. 

Il numero degli esperti, dapprima esiguo, cresceva in proporzione alla "cosa" ed era diventato un'emergenza nell'emergenza. Le ipotesi nascevano e venivano miseramente accantonate nello spazio di una giornata. Teorie ardite erano travolte da altre arditissime. I TG nazionali si collegavano con la cava ad ogni edizione e le televisioni straniere avevano abbandonato gli scenari di guerra. L'avvenimento era d'importanza mondiale e tutti volevano esserci, volevano fare opinione, come si usava dire allora. Uno scienziato aveva calcolato che con quel ritmo di crescita sarebbe arrivata alla luna in pochi mesi, permettendoci così di raggiungere il nostro satellite su uno di quegli ascensori panoramici in uso negli "States". I preti avevano pensato che, dotandola di gradini, sarebbe stato il massimo della penitenza per i pellegrinaggi.
Il business, dopo le prime settimane di sbandamento (crollo delle borse di Tokyo e di New York), aveva messo in moto i suoi mille tentacoli. Col passare dei giorni aveva cominciato a considerare quell'evento come una benedizione: "l'inizio della ripresa, il nuovo boom economico, la locomotiva riprende a tirare".
 


Questi erano stati i commenti degli esperti nei talk-show. Lo stupore e la fiducia, ma in qualcuno anche la preoccupazione, avevano raggiunto livelli da febbre dell'oro. La smania aumentava perché, nel frattempo, giungevano notizie che in altre parti del pianeta si erano verificati fenomeni simili. Dalle cavità prodotte dall'uomo nel corso dei secoli sulla crosta terrestre si innalzavano, superbi, questi obelischi a sfidare il cielo.
Il professore si fermò per un istante, controllò gli appunti appoggiati su una pila di volumi allineati accanto alla poltrona, una vecchia Frau da meditazione ormai fuori moda, e proseguì. Le settimane trascorrevano nella routine. Tutti avevano istituzionalizzato il proprio ruolo: gli scienziati prospettavano e confutavano ipotesi e soluzioni, le televisioni le trasmettevano, la gente le ascoltava, gli affaristi "affaravano", gli indignati si indignavano.
"Guarda papà, la "cosa" si allarga" disse un giorno un bambino, guardando con il naso all'insù verso il cielo. Era proprio vero, non era un'illusione ottica. La "cosa", invece di allungarsi, aveva cominciato ad allargarsi ad ombrello e ad assumere l'aspetto di una pesante ed opprimente copertura. "Si allargava con la stessa rapidità con la quale si era allungata" per citare e parole dell'anonimo. 
Era chiaro ormai che il nostro sarebbe stato un cripto-futuro. Profeti di una grande sventura, saremmo ritornati nelle catacombe. La gente aveva paura. Quella "cosa" grigia e rossa aveva coperto tutto con la sua ombra.
Scomparsa la pioggia, il cielo, il sole, la luna; i giorni se ne andavano tutti uguali. Una penombra vischiosa si attaccava come una resina indelebile su uomini e cose, sui loro corpi così come sulle loro anime.
 


Runcini tacque, accese la pipa di radica con calcolata lentezza e proseguì a raccontare con calma, scegliendo le parole, modulando il tono della voce nei passaggi avvincenti, inserendo delle sapienti pause nei punti di maggior suspence.
La natura del fenomeno non la scoprì la scienza; d'altra parte come avrebbe potuto, coinvolta com'era nei flussi finanziari che la "cosa" aveva prodotto. A chiarire il mistero fu un manoscritto ingiallito dal tempo e ritrovato in una botteguccia, piuttosto sudicia d'aspetto, di un naturalista e antiquario.
L'anonimo autore raccontava di un'antica leggenda su una divinità delle cave. Il nome era quasi cancellato da una macchia di grasso, ma i graffiti ritrovati in alcune cave seminate su una mappa che egli aveva avuto la cura di disegnare, permisero di identificarlo come Ramahan, il dio del sottosuolo che cresce, adorato in quell'isola fin da tempi remoti. 
In quei fogli si raccontava di come gli abitanti dell'isola, un giorno, si fossero recati in pellegrinaggio al santuario del dio. Esso era situato in una grotta, la cui buia profondità si perdeva fin nel cuore della terra.
  


Là, gli isolani chiesero di poter avere un luogo più accogliente delle grotte dove ripararsi dai misteri della notte e dalla potenza dei temporali.
Il dio fu generoso: donò loro l'arte di trarre dalla terra la materia necessaria per costruire le case. Essi estrassero così, con sempre maggior maestria, quei parallelepipedi bianchi e dorati che, messi l'uno sull'altro, gli uni accanto agli altri, divennero il loro riparo. Fu un dono della terra, come il frumento e le piante dai frutti dolci e succosi, e la terra doveva essere ringraziata per il suo dono. 
Le ferite aperte dalle cave sulla superficie dovevano essere sanate, e il dio indicò il modo.

La maestria con la quale sovrapponevano i conci estratti dalle viscere della terra, la leggerezza che i pesanti tufi acquistavano tenendosi l'un l'altro in archi svettanti verso il cielo, non sarebbero bastate: era più un monumento all'orgoglio degli uomini.
Gli uomini avrebbero dovuto piantare alberi da frutto e viti in quelle profondità, trasformandole in giardini. Quei giardini sarebbero diventati il nuovo santuario del dio e il profumo e i frutti della terra lavorata dagli uomini sarebbero stati la loro perenne riconoscenza verso Ramahan e la terra sua sposa.
Runcini si fermò per un attimo, passò la pipa con cura sul tavolinetto che era davanti a lui e il suo sguardo si diresse verso la lunga serie di volumi che tappezzavano le pareti della stanza. Guardò quei libri come se da quelle pagine la sua memoria potesse ricevere nuova linfa per continuare. Riprese la pipa, la riaccese a memoria con gesti sicuri per la terza o la quarta volta e continuò.
 


Gli dei, si sa, non danno dei doni agli uomini senza un prezzo da pagare, perché conoscono bene la leggerezza della loro memoria. Qual era il castigo? Se gli uomini avessero dimenticato la promessa che con tanta fede avevano fatto nel momento del bisogno, dalle cave sarebbe nata la loro sventura.
I fatti che seguirono - proseguì - ci dicono di come gli uomini si dimenticarono quella volta, come in tante altre occasioni. Questi giorni sempre uguali vissuti alla luce dei riflettori, l'eterno ritorno delle stagioni che nessuno di noi ha mai vissuto e questa pallida pelle senza storia, eternamente liscia, che ci accompagna dal primo all'ultimo giorno della nostra vita, sono il fardello che ci tocca portare per questo nuovo peccato originale.
Chiesi se la nostra tecnologia, così avanzata per certi versi, potesse qualcosa. Runcini si alzò e si diresse, come guidato da un istinto, verso un punto preciso della sua immensa biblioteca. La sua mano esperta soppesò la consistente leggerezza di alcuni volumi come per indovinarne il messaggio, e alla fine decise per un libro dalla copertina scura.
 


Sembrava il saggio bibliotecario di "Babele" alla ricerca dell'unico libro capace di fargli scoprire la combinazione dei "venticinque caratteri". Consultò il volume con la rapidità di chi conosce a memoria tutte le pagine e proseguì: "Ci sono stati dei tentativi, falliti tutti miseramente. 
Cinquant'anni fa hanno tentato di praticare dei fori nella grande volta, ma sono spariti immediatamente. La volta, viva, ha assorbito i guasti e si è ricomposta. La scienza non ha più risposte per noi, mio giovane amico. Tutti ci stiamo convincendo che la chiave del mistero sia in questi fogli ingialliti".
Li toccò come per scendere nel sottosuolo della conoscenza, li toccò come se potessero trasmettergli la loro antica sapienza. Poi, assorto nei propri pensieri, concluse il suo racconto: "Ramahan ha esaudito il nostro bisogno violento di cemento. 
  


Egli ci ha costretti a vivere sotto la volta più ardita che sia stata mai concepita e realizzata da uomo sulla terra. Siamo prigionieri di un'opera d'arte".  Chiuse gli occhi e sognò il sole, i grandi dinosauri che pascolavano nei campi di asparagi e il bisonte bianco che caricava il tramonto. Senza nessun cambiamento apparente, era finito un altro giorno.