La Chiesa Madre di Castelvetrano

Guida storico-artistica al monumento

 

 

di

FRANCESCO SAVERIO CALCARA

 

 

 

A CURA DEL LIONS CLUB

CASTELVETRANO

 

 

PREMESSA

 

 

 

                E’ con queste parole del Profeta che desidero presentare questo saggio sulla Madrice di Castelvetrano. Se la pietra costituisce per la Sacra Scrittura immagine a significare la solidità della fede, è proprio tale incrollabile fondamento la chiave di interpretazione dell’amore che portiamo a queste antiche pietre, testimonianza di uno storico patrimonio di fede e di speranza.

                A buon diritto la nostra Chiesa Madre è il simbolo di tale patrimonio, perché voluta e costruita dagli uomini di questa città.

                Nei pochi mesi della mia responsabilità presbiterale come arciprete, ho avuto modo di costatare come l’amore per questo edificio sia ancora intatto nel cuore dei cittadini di Castelvetrano, quasi al di là della propria fede più o meno esplicitamente confessata e professata.

                Ogni altare, ogni statua, ogni dipinto sembrano custodire un’infinità di dolore, di lacrime, di speranze: tutte le mattine, ora come nel passato, dei lumini vengono accesi davanti alle statue dei santi Cosma e Damiano, i santi medici nell’immaginario collettivo, segnale di fiducia profonda nel Signore che non abbandona chi soffre.

                E’ proprio per salvaguardare e custodire un tale edificio che ho voluto ripristinare l’antica istituzione della Venerabile Fabbrica, la quale ha la finalità di provvedere alla decorosa conservazione e valorizzazione della struttura: il presente saggio costituisce uno dei suoi primi frutti.

                Non è retorico encomiare i componenti di essa: il governatore ing. Matteo Venezia e gli altri deputati: il dott. Aurelio Giardina, che ha fornito all’autore preziose notizie storiche; il prof. Giuseppe Libero Bonanno, assessore ai BB.CC. della città; ma soprattutto il prof. Francesco Saverio Calcara, studioso puntuale e attento nella ricerca archivistica e bibliografica, i cui risultati sono consegnati nel presente lavoro.

     Tutti si sono adoperati, assieme ad altri amici, non solo mettendo a disposizione la propria competenza, ma offrendo anche consistenti contributi economici.

                Un doveroso ringraziamento va anche al Lions Club di Castelvetrano che ha voluto curare la pubblicazione.

      Mi auguro che questo studio serva non solamente a valorizzare il prezioso bene culturale costituito dagli antichi stucchi, dallo storico tetto o dalle tele cinquecentesche, ma contribuisca altresì a stimolare ulteriormente quel senso di fede che si coglie in ogni opera di questa Chiesa.

      Mi auguro soprattutto che ogni cristiano di Castelvetrano raccolga l’esortazione biblica prendendo ulteriormente coscienza della propria vocazione ad essere spazio di Chiesa e luogo d’incontro tra Dio e i fratelli: Stringendovi a Lui, pietra viva, rigettata dagli uomini, ma scelta e preziosa davanti a Dio, anche voi venite impiegati come pietre vive per la costruzione di un edificio spirituale (1Pt 2,4-5a).

 

Castelvetrano, Pasqua 1994                                                                                                            Arciprete

Don Giuseppe Biondo

 

 

 

 

 

NOTE STORICHE

 

 

                L’esistenza della Maggior Chiesa è legata all’origine stessa di Castelvetrano, città che acquista una sua identità ben precisa a partire dal XIII secolo.

                Un primo documento relativo alla fabbrica è il testamento di Nino I Tagliavia, secondo barone di Castelvetrano che, nel 1345, lega un’oncia  all’opera di S. Maria, primo titolo della Chiesa Madre.

                Conservata nel VI volume di scritture attinenti alla mensa vescovile di Mazara, al foglio 344, in data 2 agosto 1430 troviamo una ricognizione di benefici e monasteri di Castelvetrano.

                Dal manoscritto apprendiamo che l’arciprete della chiesa di Santa Maria in Castelvetrano, don Niccolò Messana, è anche beneficiale della cappella di Santa Chiara. Le due chiese, rette dallo stesso arciprete, si fonderanno in un’unica fabbrica assieme a S. Giorgio, attestata dal notaio Leonardo Militello ancora nel 1527 come chiesetta distinta e ricoperta di tavole e travi. Santa Chiara diverrà la cappella della confraternita del SS. Sacramento, con ingresso dal lato destro della crociera, dove oggi è la grande sala tra la sacrestia e la canonica; S. Giorgio costituirà il primo ordine dell’erigendo campanile.

                Il secondo nome di arciprete che leggiamo agli atti di notar Andrea Liotta di Sciacca, sotto il 17 gennaio XIV ind.ne 1436, è quello di don Bartolomeo Bruno; mentre nel 1485 è indicato come arciprete don Diego Leone, che era anche arcidiacono della Cattedrale di Mazara. Gli successe don Andrea de Cavallerio, che era stato cappellano della regina di Napoli.

                Un atto di notaio non identificato attesta che nel 1510 era arciprete don Lorenzo Tamburello, il quale commissionava una campana al maestro Bartolomeo Destra.

                Un altro atto di notar Baldassare Dionisio del 12 agosto 1516 ricorda la presa di possesso del nuovo arciprete, don Antonio Prigulla, il quale resse la chiesa fino al 1536.

                Con bolla del 9 febbraio 1537, alla morte del Prigulla, il vescovo Omodei designò come arciprete di Castelvetrano il canonico Francesco Vento, che tenne l’ufficio sino al 1539.

                Il notaio Antonino Bonanno tramanda in un atto del 1 gennaio 1549 (1550) il nome del nuovo arciprete, don Antonino Renda, che ricoprì la carica fino al 1557.

                Il bastardello di un altro notaio, Bartolomeo Ampola, ci fa conoscere il nome del suo successore, don Filippo Di Stefano, il quale dovette reggere la chiesa per poco tempo se in altro atto alle minute di notar Leonardo Militello, rogato il 4 novembre 1558, leggiamo: Cum impraesentiarum parrocchialis ecclesia archipresbiteratus nuncupata Beatae Mariae Castriveterani suo solito vacet archipresbitero et rectore per obitum quondam D. Juannis Osori de Sylva illius ultimi possessoris extra Romanam Curiam defuncti. Ne consegue che sia l’arciprete Di Stefano sia Osorio de Sylva ricoprirono l’incarico solo per pochi mesi.

                Dal 1558 fino ai nostri giorni possiamo leggere l’elenco degli arcipreti de jure patronatus in una tavola cronologica, curata dall’arciprete Giovan Battista Riggio e affissa in sacrestia, che vede al primo posto Simone Tagliavia, erroneamente definito primo arciprete della Chiesa Madre. Questi, invero, fu il primo a ricevere tale nomina secondo il diritto di patronato esercitato dal barone, per concessione di papa Pio IV con diploma del 9 agosto 1558. Carlo d’Aragona e Tagliavia, principe di Castelvetrano, in cambio di tale diritto, dotò la chiesa di un beneficio di 35 ducati d’oro annuali. Successivamente, essendo aumentato il numero degli abitanti della città, i principi accrebbero la dote della chiesa a condizione che vi si recitassero le ore canoniche e si amministrassero gratuitamente i sacramenti al popolo. Lo stesso Carlo, per migliorare il servizio divino provvide alla nomina e al beneficio di quattro cappellani perpetui.

                Per quanto riguarda il governo temporale, l’arciprete era coadiuvato da due deputati, pur essi di nomina baronale.

                La famiglia Tagliavia, che riceve nel 1299 l’investitura della baronia di Castelvetrano, è quindi strettamente legata alla vicenda della fabbrica. Nel 1520 Giovan Vincenzo Tagliavia, primo conte di Castelvetrano, avvia la ristrutturazione della chiesa e nel 1538, nel suo testamento, ordina al figlio ed erede Giovanni di erigere la tribuna e il coro della Chiesa Maggiore a proprie spese.

                I lavori proseguirono con estrema lentezza nei decenni successivi. Nel 1559 si convocò un consiglio civico per procurare 200 once pri putirisi di cursa compliri lu titulo di detta matri ecclesia... in fabrica et incomplita per mancamento di denaru. Il completamento della Maggior Chiesa veniva sentito dal popolo quasi come un dovere a sostegno del proprio orgoglio cittadino: Una università come quista di castello vitrano si ritrova senza matri ecclesia per trovarsi la matri ecclesia in fabrica et incomplita per mancamento di denaru si havi restato et resta di potirsi compliri et est cosa molto disconvenienti.

                A procurare i fondi concorse in parte la gabella della foglia (tassa sull’acquisto delle verdure) che sarà utilizzata in avvenire anche per soddisfare la prebenda dell’arciprete, mantenere i quattro cappellani perpetui e far fronte alle altre spese di culto.

                Un secondo consiglio, congregato il 25 agosto 1572, istituiva, su proposta del capitano di città, magnifico Petro di Giglio, la gabella della primizia di tarì uno e grani dieci per foco (ossia per famiglia) ogn’anno  che, unitamente ai contributi di famiglie illustri, consentiva di realizzare 206 once annue pri farisi finiri li beni alla Matri Chiesa di detta città, ed essere ben compita...

La gabella della foglia e quella della primizia saranno abolite soltanto nel 1842.

                La fabbrica poteva dirsi completata, almeno dal  punto di vista strutturale, nel 1585 allorquando il consiglio civico, riunitosi il 19 novembre, provvedeva al reperimento di onze 120, da pagarsi in tre anni, al fine di realizzare gli scanni del coro per il servizio divino.

     Nel 1625, per pubblico voto, fu eretto un altare onde impetrare la fine della peste, come leggiamo agli atti di notar Vincenzo Graffeo al 12 luglio di quell’anno. Sull’altare, oltre all’immagine della Vergine, sub titulo Conceptione, furono poste quelle di S. Rosalia e di S. Rocco.

                A motivo della grande devozione venne realizzata una quarta apertura fra la cappella del Giglio e l’attuale altare dell’Immacolata. Il vano di accesso in seguito fu trasformato in ripostiglio ed è stato opportunamente recuperato nel prospetto esterno durante il recente intervento che ha interessato soprattutto il campanile.

 

 

 

LA STRUTTURA

 

 

                L’impianto della chiesa è basilicale normanno: tre navate con doppio transetto corto e presbiterio successivamente rialzato.

                Nonostante lo schema classico, il portale, con i suoi artigianali arabeschi, i motivi vegetali e allegorici, presenta un aspetto medievaleggiante.

                La facciata, inquadrata da paraste, è incompiuta. Il campanile, nel sito dell’antica chiesa di S. Giorgio, fu ampliato nel 1552 dall’architetto Giovanni Gandolfo, come si legge dall’iscrizione sulla porta d’ingresso: ILL.S D.NI D. CAROLI ARAGONE ET TAGLIAVIE COMITIS CASTRIVETERANI ET MARCHIONIS  ERACLEE NEC NO. ET HUIUS POPULI IMPENSA FACTA EST HEC TURRIS AMPLIARI A MANU MAGISTRI JO. GANDOLFI ARCHITECTI A. D. 1552.

                Il portale con archivolto inflesso e le cornici marcapiano ad un solo ordine di bifore danno leggiadria ed eleganza alla massiccia volumetria della fabbrica.

                Nel 1530, come si rileva da atto presso notar Antonino Bonanno al 18 settembre, furono collocate nuove campane fuse dal maestro Antonino Sanfilippo da Tortorici. Delle attuali tre campane, la più antica è quella di mezzogiorno rifusa nel 1713; quella di levante vi fu posta mentre era arciprete Benedetto Lombardo (1765-1785); la campana maggiore di ponente fu rifusa nel 1902, come si legge nell’incisione: Antiquae nolae ex metallo confectum oblatione civium Gaspare Di Simone archipresbytero anno Domini 1902.

                Tra campanile e chiesa una costruzione intermedia collega i due complessi monumentali, dando alla fabbrica continuità spaziale se non stilistica. Palmette greche ne adornano il fregio terminale, mentre al centro domina lo scudo con la palma, arma dei Tagliavia ed emblema della città.

                La cappella della Maddalena, il campanile, l’abside della cappella dei Gentiluomini e di quella del Giglio creano un gioco di volumi percepibile dalla via Militello che, unitamente ai balconi ed ai portali delle antiche case prospettanti sulla via, creano uno degli ambienti più suggestivi della Castelvetrano antica.

                La facciata della canonica, severa e lineare, continua fino in fondo e sviluppa con più ampio respiro il motivo ornamentale della doppia merlatura, già percepibile nella parte anteriore della chiesa.

                Il ripristino della merlatura esterna del cappellone, tuttora visibile nonostante l’incastrarsi fra i merli delle superfetazioni successive, consentirebbe il recupero di maggiore uniformità stilistica della chiesa anche in questa sua parte.

                Turbano la tematica architettonica del monumento il locale in Piazza Cavour, di fronte via dei Vespri, e la cabina dell’ENEL in via Geraci.

                L’interno della chiesa si presenta con tre navate divise da cinque grandi archi, sorretti da pilastri di pietra successivamente rivestiti; i capitelli, di stile composito e di forma diversa, sono stati probabilmente riutilizzati da una più antica costruzione.

                Recenti lavori di ripulitura hanno riportato sia negli archi sia nelle finestre il calore della pietra a faccia vista che era occultato da stuccature ottocentesche.

                Un grande arco trionfale divide la nave dal primo transetto; un secondo arco separa il cappellone dal coro.

                Nel 1600 l’arciprete Nicolò Ciambra fece collocare a spese del popolo una grossa trave dorata e decorata fra i pilastri del primo arco di trionfo. Essa sostiene nel suo mezzo un grande Crocifisso, che un tempo veniva annualmente portato in processione collocato sull’artistica vara ancora esistente. Nella stessa trave leggiamo la seguente iscrizione: ISTE CRUOR SUPERAS ADITUS CONCEDIT AD AURAS - MORS VITAM TENEBRAE DANT SINE FINE DIES (Questo sangue concede l’ingresso alle sfere celesti; la morte dà la vita, le tenebre danno giorni senza fine). Nella parte posteriore si legge: NICOLAUS CIAMBRA SACRAE THEOLOGIAE DOCTOR PROTHONOTARIUS APOSTOLICUS ET ARCHIPRESBITER - POPULI SUMPTU CRUCIFIXUM HUNC EFFIGIANDUM  LOCANDUMVE  HIC DILIGENTER CURAVIT.

                Nel corso del generale restauro della chiesa, alla fine del secolo scorso, sono stati eliminati gli altari che sorgevano lungo le navate laterali, è stato rialzato il transetto e il coro, chiusa la cappella dei SS. Crispino e Crispiniano e ivi collocato il fonte battesimale, che prima si trovava in fondo alla navatella australe, vicino all’ingresso. Sono stati alleggeriti gli stucchi del cappellone conferendo alla chiesa un aspetto classico rinascimentale.

                Notevole il tetto a capriata che richiama l’attenzione soprattutto per la lunga trave centrale riccamente decorata. La parte di trave che sovrasta il transetto, su cui leggiamo la data 1564, è ornata con motivi araldici: lo stemma del pontefice Pio IV, del cardinal Tagliavia, degli Aragona, di vescovi e abati. La parte che ricopre la nave centrale, datata 1570, presenta motivi allegorici: capricci, svolazzi, arabeschi, strumenti musicali, figure virili e muliebri, putti, angeli, animali, cartigli; il tema della morte è richiamato da scheletri e dalla scritta FUI ET NON SUM ESTIS ET NON ERITIS. Sempre ricorrente la palma dei Tagliavia.

                In corrispondenza della porta, in mezzo a graziosi adorni, si legge la parola POPULUS. La Madrice era infatti considerata la casa del popolo, dove si riunivano i consigli civici e i giurati avevano il loro banco a sinistra nel coro; e fu il popolo a costruirla a sue spese. Ricordiamo che il secondo titolo della Chiesa fu appunto Santa Maria del Popolo.

 

 

 

 

GLI STUCCHI

 

 

                Fra gli artisti che operarono nella nostra Chiesa Madre dobbiamo ricordare Gaspare Serpotta, il quale, oltre ad essere valente scultore, fu anche stuccatore e progettista di macchine scenografiche.

                Nel 1667 il Serpotta fu incaricato di terminare la decorazione a stucco del presbiterio, che era stata interrotta per la morte, avvenuta sette anni prima, di Antonino Ferraro jr. Abbiamo già detto come, nel secolo scorso, quegli stucchi, giudicati grossolani, furono rimossi.

                La decorazione del cappellone, consistente in arabeschi dorati applicati agli elementi architettonici, rispecchia ancora un gusto cinquecentesco; mentre le statue, ai due lati dell’entrata, lungo le navatelle, pur esse realizzate con stucco, ricordano nello stile quelle dei Martiri gesuiti sulla facciata della secentesca Casa Professa di Palermo: a destra troviamo i santi medici Cosma e Damiano; a sinistra i santi Simone e Giuda.

Sopra le colonne che sostengono il secondo arco del coro si ergono le imponenti statue di S. Pietro e S. Paolo, di chiara impronta ferraresca.

                Anche il vivace ornamento di stucchi sopra i due archi trionfali rischiò di essere alleggerito, giacché ritenuto di cattivo gusto dal Cavallari, il quale, nel 1848, consigliava la Venerabile Fabbrica di mantenere soltanto gli ornamenti a festoni. Tali stucchi - scampati alla furia iconoclastica di chi, rifiutandosi di leggere nel monumento i segni del sovrapporsi dei vari stili, si ostinava a considerarne soltanto gli aspetti classicheggianti - sono stati spesso attribuiti a Gaspare Serpotta. E’ nostra opinione però che essi siano riconducibili al primo Settecento e da ascrivere alla mano di Vincenzo Messina o alla sua bottega. Tale ipotesi è suffragata dalle evidenti analogie con i lavori che il Messina, nel 1702, sicuramente eseguì nella Madrice di Partanna, centro dove il maestro stuccatore, assieme alla sua famiglia, si era trasferito. Notevoli inoltre appaiono le affinità decorative fra gli stucchi del secondo arco della nostra Chiesa Madre e quelli che il Messina realizzò nell’oratorio del SS. Sacramento a Carini.

                Nell’arco che divide la nave dal primo transetto troviamo rappresentato, su un tipico sfondo di manto drappeggiato, tra fregi e conchiglie, l’Eterno Padre, circondato da putti e angeli, simmetricamente disposti, alcuni con strumenti in mano, altri sorreggenti un festone con motivi vegetali incorniciante l’estradosso. Ai lati, sulle reni dell’arco, gli stucchi della Vergine Addolorata e di S. Giovanni Evangelista guardano il grande Crocifisso ligneo, poggiato sulla trave dorata, chiamato un tempo lu Signuri di l’arcu.

                Sul concio di chiave del secondo arco trionfale, delimitante il cappellone, lo spazio è scandito da una grande aquila cavalcata da un putto in atto di sonare il corno; più in alto, due grandi angeli in volo sorreggono uno scudo sormontato da una corona retta da due puttini. Sui conci d’imposta, collocate su mensole, due statue raffigurano S. Agnese, a destra, e S. Agata, a sinistra.

                L’esuberanza e la ricchezza di dettagli rendono inconfondibile l’opera di Vincenzo Messina (o del suo allievo), cui abbiamo attribuito le decorazioni dei due grandi archi. Essa è forse lontana dalla raffinatezza degli oratori serpottiani di Palermo, ma in ogni caso non ci sembra stridere con l’impianto generale della Chiesa, rimanendo testimonianza di quell’arte minore, cosiddetta vernacolare, tanto ampiamente diffusa nei centri periferici della nostra Isola.

 

 

 

 


LE ABSIDI

 

 

Il presbiterio

 

                Di notevole interesse è il cappellone della nostra Maggior Chiesa, la cui volta, come risulta agli atti del notar Marco Sciacca, fu completata nel 1658.

                Pare che l’assetto originario del presbiterio cinquecentesco rispettasse la forma circolare, tipica della pianta basilicale normanna, cui tutta la fabbrica si ispira, e che successivamente sia stato ampliato e modificato nell’attuale struttura quadrangolare. Una conferma di ciò potrebbe essere costituita da una galleria che corre sotto il pavimento e che si interrompe laddove  probabilmente esisteva l’antica abside.                

                Antonino Ferraro jr. ornò le pareti del cappellone, sino al fregio, di stucchi e decorazioni che, come già abbiamo detto, andarono distrutti nel secolo scorso allorquando tutto l’edificio venne restaurato, secondo una impostazione classicheggiante che vedeva in quelle decorazioni un esempio di stravagante gusto ed imperizia artistica.

                Siffatta concezione è alla base del rifacimento dei tetti di S. Giovanni e di S. Nicolò al Carmine, dove l’originaria copertura a capriate, fortunatamente conservata in Madrice, è stata sostituita dalla classica volta a botte.

                Il cappellone fu adornato con pitture di Francesco Casanova e di Giuseppe D’Accardo, mentre al centro, sull’altare maggiore, campeggia la pala di Maria SS. Assunta, titolare della chiesa, opera egregia di un altro Ferraro, Orazio, che la dipinse nel 1619. Sul fronte del sarcofago si leggono la data e la firma dell’autore: MDCXIX Opus Horatii Ferrarii. La Vergine vi è rappresentata sospesa tra cielo e terra al di sopra del sepolcro vuoto circondato dagli Apostoli. La figura dell’Assunta, corteggiata dagli angeli, è sovrastata dalla Trinità. Gli Apostoli in basso sono colti in vari atteggiamenti espressivi: alcuni guardano in alto a godere la visione della Vergine, altri, come San Tommaso, osservano il sepolcro vuoto. La scena, come dice il Marchese, acquista profondità «nella macchia di paesaggio oltre la testa di San Tommaso e nelle diagonali incrociate delle teste degli altri Apostoli».

                Tra la pala e l’occhio dell’abside un cartiglio di stucco reca la seguente iscrizione: CORONATA TRIUMPHAT.  Ai lati del quadro, sui finestroni, i due grandi stemmi dei principi della città definiscono scenograficamente lo spazio.

                Interessante è pure l’altare maggiore con marmi policromi di squisita fattura settecentesca.

                Gli stalli del coro, opera di bravi artigiani palermitani, furono commissionati nel 1868 dall’arciprete Pappalardo, in sostituzione del coro antico non più esistente.

                Sul lato sinistro si ammira infine il bellissimo organo secentesco, della scuola di Della Valle, i cui mantici originali ancora si conservano nel vano del campanile e per il totale recupero del quale è stato già chiesto il finanziamento.

 

 

La cappella del Giglio

 

                Nell’abside a sinistra, guardando verso il cappellone, troviamo l’altare della Madonna delle Grazie, definito nel testamento di Rocco Gambacurta, agli atti di notar Orlando Lo Truglio sotto il 19 febbraio 1598, altare di S. Maria del popolo seu de nive; comunemente però la cappella è chiamata del Giglio, dal nome della famiglia a cui essa fu concessa. Madonna del Giglio

                Il titolo di S. Maria delle Grazie è quello che leggiamo nelle minute di notar Vincenzo Abitabile al 23 gennaio 1567 (1568) laddove si fa cenno alla devozione che il Magnificus Franciscus de Giglio... gessit et praesens gerit erga dictam Virginem Mariam Gratiae (vedi Appendice B II). Con detto atto Francesco Giglio assegna una rendita di 15 onze all’altare della Madonna, accollando a sé a ai suoi eredi il pagamento di altre 15 onze dovute da terzi per censi o interusuri, e precisamente: onze 12 dalla Principessa su metà della rendita di Furuni; onze 1.24 da Giacomo Mannone e Giacinto d’Anna; onze 1.06 da Antonino Manduzo e consorte. Egli prometteva inoltre di far celebrare in detta cappella una messa bassa quotidiana e una messa cantata con organo il sabato e  nelle sette festività della Vergine; il venerdì una messa in memoria del padre Vincenzo; dopo la sua morte una messa in suffragio pro quinque plagis. Francesco Giglio legava ancora un’onza per la cera e si riservava il diritto alla nomina del beneficiale, il cui salario andava pagato in tre rate: il primo settembre, il primo gennaio e il primo maggio.

                Carlo d’Aragona, principe di Castelvetrano e giuspatrono della Madrice, concesse formalmente la cappella con atto ricevuto da notar Vincenzo Abitabile sotto il 6 marzo 1569 (1570).

                Francesco Giglio, concessionario, creava una rendita di altre venticinque onze, confermava in perpetuum le messe quotidiane e settimanali e riservava il diritto per sé et successoribus alla sepoltura nella cripta sotto l’altare del Crocifisso di cui aveva il patronato la stessa famiglia.

                Lo stesso si impegnava al rifacimento dell’altare cum Imagine et Figura dictae Virginis Gratiae.

                Si tratta della magnifica statua marmorea della Vergine con Bambino che troviamo collocata entro una cornice decorata sull’altare di detta cappella.

                L’opera, di squisita fattura per la proporzione e compostezza delle forme, per la spiritualità e l’intensità dello sguardo, per l’abile gioco del drappeggio, si suole attribuire al Gagini o alla sua scuola, ma non porta alcuna firma; sul piedistallo troviamo una formella centrale raffigurante il committente e la moglie in preghiera, ai lati lo stemma di famiglia: un giglio sormontato da cometa; sul bordo la data del 1570.

                L’abside, affrescata da una buona mano, forse quella dello stesso Orazio Ferraro, presenta al primo ordine le figure di S. Francesco d’Assisi, S. Tommaso d’Aquino, S. Vincenzo Ferreri e S. Francesco da Paola; nel secondo ordine fra cariatidi in bianco e in nero (due figure muliebri e due guerrieri) ravvisiamo quattro Padri della Chiesa d’Occidente (S. Agostino, S. Girolamo, S. Gregorio Magno e S. Ambrogio) due per lato, e nel mezzo un Cristo risorto, malamente restaurato negli anni Cinquanta. Il catino è completamente occupato dalla raffigurazione, d’ispirazione michelangiolesca, dell’Eterno Padre. Gli affreschi risalgono al 1591, come si evince dalla data dipinta al rovescio sul libro tenuto in mano dal Dottore Angelico.

                Le colonne laterali, un tempo affrescate con adorni e motivi allegorici, sono state opportunamente riportate a pietra viva; la mostra dell’arco è dipinta con arabeschi e sul concio di chiave notiamo uno scudo di stucco col giglio dorato, arma della famiglia.

                L’archivolto è diviso in piccoli riquadri con storie di santi; in alto si indovina, tra cartigli e fregi, la traccia di un’antica scritta, probabile motto araldico della famiglia Giglio.

                L’umidità e il tempo hanno purtroppo gravemente rovinato le decorazioni e la stessa struttura muraria, compromettendo forse irrimediabilmente la fruizione artistica della cappella.

 

 

La cappella del SS. Crocifisso

 

                Uno dei primi altari ad essere costruiti nella nostra Madre Chiesa fu certamente quello del Crocifisso, nell’abside destra, dove si conserva il SS. Sacramento.

                Abbiamo notizia di detta cappella sin dai primi del XVI sec., trovandola menzionata in un atto ricevuto l’8 ottobre 1509 da notar Giovanni Impastato e, ancora, nelle minute dello stesso al 23 novembre 1523.

                La cappella, per atto di notar Orlando Lo Truglio del 25 dicembre 1575, fu concessa a don Giovanni Andrea Giglio, fratello o cugino di quel Francesco Giglio, concessionario della cappella della Madonna delle Grazie, posta all’altro lato del presbiterio, e di cui ci siamo già occupati.

                Nell’atto di concessione Francesco Giglio richiama il suo diritto ad essere sepolto nella cappella del Crocifisso, riferendosi con ogni probabilità alla cripta sotto l’attuale salone parrocchiale, la cui scala si apre proprio davanti alla suddetta cappella; sepoltura successivamente usata dai confrati della compagnia del SS. Sacramento.

                Notiamo, al di sopra dell’altare, entro una edicola rivestita di assi dipinte con motivi allegorici, un grande Crocifisso ligneo, di pregevole fattura ma di autore ignoto, ritenuto particolarmente miracoloso, soprattutto nei bisogni collettivi e nelle pubbliche calamità: alluvioni, siccità, epidemie, etc.

                Nei primi del ‘500 lavorò in tale cappella Antonello Benevides, pittore di origine spagnola, stabilitosi a Trapani e, per alcuni anni, anche a Castelvetrano, dove prese casa nella via di S. Gandolfo (attuale via Ruggero Settimo).

                Dai registri del notaio Baldassare Dionisio apprendiamo che il 23 novembre XI ind.ne 1523 l’arciprete Antonio Prigulla e i giurati protempore, Raimondo di Luppino, Giacomo di Bianco, Antonio la Palagonia e Andrea de Abitabile, incaricarono il Benevides di dipingere et deorare tabernaculum sanctissimi crocifissi maioris ecclesie... Sul tabernacolo di legno oggi non più esistente vennero raffigurati S. Giovanni Evangelista, due angeli e la Vergine Maria.

                Verso la fine del XVIII sec., a spese del sacerdote Giuseppe Balestreri, l’altare fu completamente rifatto secondo il gusto settecentesco. Dagli atti di notar Giuseppe Sciortino, sotto il 25 marzo I ind.ne 1783, sappiamo che il nuovo altare fu costruito con marmi policromi dall’artista trapanese Giuseppe Artale che vi aggiunse, per pia munificentia di Giovanni Agatino de Paola, un mirabile ciborio.

                Nel medesimo stile settecentesco furono decorati, con stucchi e dorature, l’abside e il catino dove campeggia un affresco dell’ultima cena.

                Le pareti sono dipinte con scene della passione: a destra Cristo sotto la croce incontra le pie donne; a sinistra Gesù deriso e coronato di spine. In quest’ultimo affresco osserviamo un particolare curioso: tra gli sgherri che circondano il Cristo si nota, a destra, un uomo evidentemente estraneo al contesto della scena, anche perché rappresentato con dei vistosi occhiali; l’ignoto pittore ha voluto forse ritrarre se stesso oppure il committente.

                Sulla mostra dell’arco, tra festoni con motivi vegetali, un grande cartiglio di stucco reca la scritta a caratteri d’oro: sic dilexit...

                Nella colonna che divide la cappella dal  presbiterio un recente saggio ha messo in luce, sotto lo strato di rivestimento, alcune decorazioni di genere eucaristico. L’insieme si presenta armonioso, raccolto e in discreto stato di conservazione.

                Tra la cappella del Crocifisso e l’altare del S. Cuore si ammira una bella tavola quattrocentesca da poco restaurata. Vi si rappresenta un tema caro alla iconografia mariana: la Vergine allatta il Bambino e, in basso a sinistra, il popolo partecipa di tale nutrimento. Pare che la tavola si trovasse nell’altare di S. Maria delle Grazie o del Popolo, il primo della piccola nave di sinistra, successivamente eliminato.

 

 


LE CAPPELLE

 

 

La cappella dello Spirito Santo

 

                La parte australe della nostra Madre Chiesa evidenzia un progettato nuovo ordine della fabbrica con una serie di cappelle, di cui furono costruite quella dello Spirito Santo e quella dei santi Crispino e Crispiniano. L’arco tompagnato di quest’ultima dalla parte di ponente e i conci d’invito, visibili dall’esterno, sono la prova sicura dell’idea di ampliamento del nostro Duomo, in seguito non più completato.

                La cappella dello Spirito Santo prende nome dal grande quadro, di buona fattura ma di ignoto autore, che in essa è collocato: vi è rappresentata la discesa del Paraclito sulla Vergine e i discepoli congregati nel Cenacolo. Il dipinto è animato da un doppio movimento circolare: in alto la divina Colomba circondata da angeli, in basso Maria SS. attorniata dagli apostoli e dai primi seguaci di Gesù.

                La costruzione della cappella si può collocare nella seconda metà del XVI sec., giacché la troviamo concessa a don Marcello Gambacorta, esponente di illustre famiglia d’origine messinese insediatasi a Castelvetrano, dove un Rocco Gambacorta esercitava l’ufficio di giudice.

                Nel nostro archivio notarile abbiamo ritrovato il predetto atto fra le minute di notar Leonardo Militello al 28 settembre XV ind.ne 1571; mentre un beneficio fondato da tal Giacomo Scirè, giusto beneplacito dell’arciprete e dei deputati della Chiesa, risulta agli atti di notar Giovanni La Gatta al 10 gennaio II ind.ne 1589 (1590).

                Gli affreschi che ornavano la cappella sono in gran parte rovinati; ai lati del quadro centrale sono state recuperate, alcuni anni fa, le figure allegoriche della Fede e della Carità, mentre nella parete sinistra, in alto, si vedono ancora degli angeli che probabilmente incorniciavano uno scudo araldico.

                Lo spessore di tale parete, nella quale è inscritto un portico con tre fornici, lascia pensare che qui fosse l’ingresso dell’antica chiesetta di S. Chiara, inglobata poi nella fabbrica della Madrice.

                Davanti al quadro dello Spirito Santo è stato collocato, circa vent’anni fa, il fonte battesimale, che in origine era sistemato nella piccola nave a destra della porta principale e successivamente posto nella vicina cappella dei santi Crispino e Crispiniano. Il coperchio, di legno scolpito, è un vero gioiello di arte barocca; ha una base ottagonale con  pannelli divisi da colonnine e cariatidi su cui si erge una elegante cupola a spicchi e cordoni, sormontata dalle figure, a tutto tondo, del Battista e di Gesù. Uno sportello reca incisa, attorno al simbolo della palma, la firma dell’autore e la data: Pietro di Giato 1610. Il notar Vincenzo Graffeo così scriveva nel suo repertorio: Nota come a li 29 maggio XIII ind.ne 1610 si misi lu funti novo del battesimo e lo cappello di questo fatto per maestro Pietro di Giato in la maggiore ecclesia e lo primo che si battizzao in detto funti fu Pietro Lu Presti e lu cumpari e cummari foro maestro Francesco et Elisabetta Lombardo giugali. Nel 1892 l’arciprete Giovan Battista Riggio affidò l’opera d’arte alle esperte mani di Pietro Mangialomini, detto lu curatulu, il cui nome troviamo inciso sul coperchio da lui restaurato.

                Pietro di Giato nacque nel 1569, risultando battezzato nella Madrice Chiesa il giorno 31 maggio di quell’anno; morì il 13 agosto 1632, come si evince dai registri dell’archivio parrocchiale di S. Giovanni, e fu sepolto sotto la cappella dei santi Filippo e Giacomo nella chiesa di Maria SS. della Catena.

                Ritroviamo il suo nome agli atti di notar Pietro Catanzaro, sotto il 25 marzo III ind.ne 1624, tra i fondatori della confraternita di S. Giuseppe, costituita dai falegnami ed ebanisti di Castelvetrano.

                Oltre al citato coperchio, Pietro di Giato costruì una varetta la quale servio per riporci le reliquie di santa Rosalia durante la peste del 1625; l’affusto del cannone della torre di Polluce; una portantina per il trasporto degli appestati e un tabernacolo per amministrare i sacramenti dentro il lazzaretto.

                Ma l’opera più importante fu il soffitto ligneo di S. Giovanni, distrutto nell’incendio del 5 luglio 1898, che il di Giato completò pochi giorni prima della sua morte. Scrive infatti il notar Francesco di Simone: A sette di augusto XV ind.ne 1632 si fenio di commigliari la Ecclesia di S. Giovanni Battista et si spararono molti archibuxati. Il lavoro non gli fu del tutto pagato, come risulta dal  testamento nel quale Pietro di Giato destina la somma di cui è creditore alla cassa dei mali oblati.

                Il coperchio del fonte della nostra Madre Chiesa, unica opera rimasta di sì valente artista, necessita, come tante altre, di un urgente intervento conservativo che la preservi dal tempo e dal tarlo.

                Nella cappella dello Spirito Santo, entrando a destra, si trova il quadro di Santa Chiara, originariamente collocato nell’antica omonima cappella, ora adibita a salone parrocchiale. Il quadro, giudicato dal Di Marzo e dal Bellafiore dipinto di scuola fiamminga, fu attribuito dall’Ingoglia, dopo il restauro eseguito nel 1872 da Francesco Ciriesi, al pennello di Orazio Ferraro.

                Molteplici sono in effetti gli elementi stilistici e le analogie con altre opere certe del Ferraro, che confermerebbero la validità dell’attribuzione: i riccioli dell’angelo reggicorona, la posizione orizzontale del medesimo, lo sfondo di paesaggio - vero quadro nel quadro - incorniciato dalla finestra. La Santa vi è rappresentata nell’atto di sorreggere l’ostensorio a ricordo della cacciata dalla chiesa di San Damiano della soldatesca di Vitale d’Aversa che assediava Assisi. Notevole è la soluzione prospettica del tappeto riquadrato con vivaci colori che danno senso di profondità alla scena.

                La stessa cappella ospita un altro mirabile dipinto attribuito al Ferraro: il quadro di S. Agata, commissionato dalla famiglia Presti nel 1586 e che originariamente era posto su uno degli altari soppressi lungo la navatella di sinistra, dove ora è collocato il busto dell’arciprete Geraci. Attualmente il dipinto si trova presso la Soprintendenza per il restauro.

               

 

La cappella dei SS. Crispino e Crispiniano

 

                Accanto a quella dello Spirito Santo, nel lato meridionale della Chiesa, troviamo la cappella dei SS. Crispino e Crispiniano.

                Il 29 ottobre 1573, con atto ricevuto da notar Vincenzo Abitabile, la corporazione dei calzolai chiese a don Carlo d’Aragona e Tagliavia il permesso di erigere nella nostra Maggior Chiesa un altare con edicola dove collocare un quadro dei Santi protettori.

                Il principe di Castelvetrano incaricò don Marcello Gambacorta ed il notaio Leonardo Militello, deputati pro-tempore della Venerabile Fabbrica, di concedere ai rettori della confraternita dei calzolai, tali Nicolò Mangiapane, Paolo Draghetta, Antonio Maniscale e Pietro Perconte, il luogo richiesto, nella piccola nave australe, dove ora sorge il busto marmoreo dell’arciprete Pappalardo.

                Ivi fu eretto un altare di pietra da taglio e un’edicola in cui fu collocato il predetto quadro, dove venivano celebrate due messe settimanali, il venerdì e il sabato.

                Da un atto ricevuto da notar Vincenzo Abitabile il 26 settembre 1583 sappiamo che la confraternita dei SS. Crispino e Crispiniano, nel giorno festivo dei titolari, pagava alla Madre Chiesa, in compenso della cessione, la somma di onze 10 e tarì 24.

                Essendo cresciuta la compagnia dei calzolai e nonostante essa avesse già un oratorio vicino la Madrice, i confrati chiesero a don Giovanni d’Aragona il permesso di erigere una cappella. E così, con atto rogato il 15 novembre 1622 alle minute di notar Vito Mangiapane, il principe concedeva ai mastri Giacomo Titone, Giuseppe Anello e Pietro D’Elia, ufficiali della confraternita, un pezzo di terra dietro l’altare a ponente della cappella dello Spirito Santo ad affectum in eo fabricandi et construendi capellam dictorum sanctorum Chrispini et Chrispiniani et non pro alio effectu et non aliter nec alio modo et hoc gratis absque aliquo onere juris census proprietatis. Ma un’intesa verbale doveva essere stata già raggiunta, tant’è che un mese prima di quell’atto formale il murifabbro Vincenzo La Sparacia, a tenore di contratto stipulato presso notar Vincenzo Graffeo il 25 ottobre dello stesso anno, aveva convenuto coi deputati della confraternita di costruire una cappella nel terreno dietro l’altare con una sacrestia, su progetto eseguito dal secreto del principe, tal Pietro Pizzitola.

                Il 1 febbraio 1624, alla presenza dei giurati Lucio Scaglione, Vincenzo D’Adamo, Antonio Mangiapane e Giuseppe Di Maio, fu benedetta e posta la prima pietra della cappella ad opera dell’arciprete don Francesco Cossentino, assistito dal cerimoniere don Colantoni Mangiapane. Quest’ultimo era il beneficiale dell’altare ed anche della chiesetta di Nostra Signora di Porto Salvo, come apprendiamo dal testamento di Filippo Zumbardo, agli atti di notar Vito Mangiapane sotto il 16 settembre 1619, che istituisce come erede universale proprio la confraternita dei SS. Crispino e Crispiniano, nominando esecutore testamentario il predetto sacerdote.

                La cappella quindi si apriva lungo la navatella, attraverso un grande arco sul cui vertice fu posta una targa di stucco con la seguente iscrizione: Nomina eorum vivent in aeternum.

                Nel 1892, essendo arciprete Giovan Battista Riggio, l’arco fu chiuso, l’altare demolito e così pure furono distrutti gli stucchi, di ignoto autore, che ornavano la cappella.

                Come si è già detto, vi si trasportò il fonte battesimale che ivi rimase fino a qualche anno fa.

                Dell’antica cappella dei calzolai oggi non rimane se non il grande quadro raffigurante la Madonna col Bambino tra i SS. Crispino e Crispiniano. La tela è tradizionalmente ritenuta di Orazio Ferraro, lo stesso crede il Polizzi e - senza troppa convinzione - il Ferrigno.

                Conoscendo oggi la data di nascita dell’artista, 1561, e ammesso che sia esatta la data di esecuzione della tela fornita dal Ferrigno, 1573, sarebbe da escludere la paternità del Ferraro se non altro per incongruenza di natura cronologica, oltre che per le dissonanze stilistiche da opere documentate dello stesso.

 

 

La cappella della Maddalena

 

                Lungo la navata sinistra, a fianco dell’ala del transetto, si apre la cappella di S. Maria Maddalena che, così come oggi appare, costituisce l’unica opera firmata di Tommaso Ferraro.

                L’artista, infatti, come attesta una epigrafe sul pennacchio della parete destra della cappella, ne ideò e realizzò il progetto architettonico e decorativo.

                La presenza di un arco, successivamente rialzato, di chiara fattura gotico-catalana fa pensare che una cappella o un portico preesistesse all’intervento del Ferraro che, comunque, vi creò un organismo architettonico in cui è possibile ravvisare agganci con la tradizione locale siciliana, ma anche influenze della cultura mediterranea, soprattutto nord-africana.

                Lo stesso artista così puntualizza il suo lavoro nella lapide autografa: HIC QUICQUID PICTURA SCULPTURA ET SIMUL ARCHITECTURA EXSTAT ET CERNTUR THOMAS FERRARUS ADHUC ENIM ADOLESENS PARITER IN ARTE PINGENDI SCULPENDI AC EXTRUENDI NEOTERICUS ANTONINI FERRARI JULIANENSIS PICTORIS SCULTORISQUE INSIGNIS FILI A VERTICE AD CALCEM STUDIO INGENIO MANUQUE SUA GRAPHICE PINXIT SCULSIT ATQUE EXTRUXIT.

                Circa l’anno in cui il Ferraro compì la sua opera, scartata l’opinione del Di Marzo, pedissequamente seguita da molti altri studiosi, che ravvisa nella citata epigrafe l’inesistente data del 1588, dobbiamo ritenere che i lavori furono eseguiti tra il 1573 e il 1579, anni dell’episcopato di mons. Lombardo, il quale cita nella relazione della sua Sacra Visita l’esitenza di tale cappella. Essa era sottoposta al patronato di un  ramo cadetto della famiglia Tagliavia, i quali la dotarono di metà delle decime provenienti dalla baronia di Pietra Belice e di una rendita di dieci onze annuali (vedi Appendice B I).

                Difficilmente nel 1588 il Ferraro, nato tra il 1555 e il 1560, avrebbe potuto definirsi adolesens (sic!). D'altra parte sappiamo con certezza che Tommaso morì proprio nel 1588; pertanto è da pensare che l'incarico di ristrutturare la cappella gli fu dato da Giorgio Tagliavia appunto negli anni '70. Che fra l'artista e il committente esistesse poi un preciso rapporto è dimostrato dal loro legame di comparato: i coniugi Tagliavia, Giorgio e Caterinella, tennero a battesimo Giovan Battista Ferraro, primogenito di Tommaso, come risulta negli atti dell'archivio della Chiesa Madre.

                La relazione della Sacra Visita condotta nel 1596 da mons. Luciano De Rossi, vescovo di Mazara, menziona la cappella, accennando a un tal don Vincenzo Passananti, suo beneficiale.

                Di maggiore interesse è la nota del vescovo Marco La Cava, il quale, visitando la Chiesa Madre il 2 agosto 1613, parla di una sacrestia separata a servizio della cappella, e fa nota di alcuni legati per messe in suffragio di Giorgio Tagliavia che il suo erede non aveva fatto celebrare.

                In quegli anni la carica di beneficiale fu affidata dai Tagliavia a don Alessandro Ferraro, che era il fratello minore di Tommaso; poi il giuspatronato passò dai Tagliavia a don Gerardo Giglio e Lombardo, come attesta il can. Noto nella sua Platea.

                La cappella della Maddalena conobbe in seguito un degrado lento ma inarrestabile, avvertito per la prima volta nel 1849 dagli architetti Cavallari e Viviani, nel 1855 dall’architetto Riga, e successivamente dal Di Marzo, il quale nel 1883 lamentava che «il tempo e l’umidità finiranno per fare perire del tutto quell’insigne opera che di Tommaso Ferraro sola fin qui si conosce». Nonostante questi autorevoli richiami, la situazione si è ulteriormente aggravata, cosicché sono andati distrutti gli affreschi della parete sinistra, in parte quelli della parete destra e della calotta, le due statue di stucco poste entro le nicchie dei pilastroni d’ingresso e, parzialmente, il tondo centrale.

                La cappella di S. Maria Maddalena si presenta a pianta quadrangolare con una copertura a cupola emisferica che si imposta su un tamburo di forma ottagonale con nicchie angolari.

                Mentre le pareti laterali risultano definite da due archi a pieno centro impostati su pilastri a sezione rettangolare, l’arco del fondale è incorniciato da una cariatide e da un talamone di stucco; la mostra dell’arco, che racchiude la nicchia della santa, evidenzia un leggiadro movimento di genietti alati disposti in simmetria ai lati della palma, simbolo dei Tagliavia e stemma della città.

                Di sicuro interesse è l’arco di ingresso alla cappella, la cui particolare articolazione su pilastri più alti rispetto alle pareti laterali, genera la singolare forma “a pennacchio” delle nicchie angolari.

                Questa osservazione ci fa collocare la cappella - contrariamente all’opinione del Cavallari e del Viviani che vi ravvisarono addirittura forme bramantesche - nella tradizione arabo-normanna siciliana che predilige la pianta centrica e il sistema di copertura a cupola impostata su nicchie, di cui, tra l’altro, non mancano esempi in tutto il trapanese.

                La ricca decorazione plastico-pittorica si ispira sia al racconto evangelico concernente le “tre Marie”, confuso a leggende medievali e alla storia di un’altra Santa Maddalena, suora provenzale dell’VIII secolo.

                La parete dell’altare custodisce il simulacro della Santa titolare e ai lati, poggiate su mensole, le statue più piccole di S. Lazaro e di S. Marta.

                Nella parte sottostante l’arco d’altare sono raffigurate scene della vita di S. Maria Maddalena, il cui discorso iconografico si conclude, anche se in modo frammentario, nei sette riquadri del sottarco d’ingresso.

                Di notevole interesse è la decorazione della calotta, ripartita in otto vele, ognuna delle quali, suddivisa in ovoli e riquadri, culmina in un tondo, parzialmente distrutto a seguito del crollo del 12 marzo 1994, raffigurante plasticamente l’Incoronazione della Vergine.

                Le scene dipinte nella calotta propongono le storie dell’infanzia di Gesù e, nella zona intermedia delle vele, la raffigurazione delle quattro virtù cardinali.

                Nel tamburo che sostiene la calotta troviamo rappresentati, entro quattro nicchie angolari, gli evangelisti; e in due freschi rettangolari Gesù al calvario e un vescovo benedicente (S. Nicola?).

                La parete destra della cappella presenta un fresco lacerato con S. Francesco d’Assisi che riceve le stimmate; mentre totalmente distrutta è, purtroppo, la decorazione della parete sinistra, fatta eccezione per la traccia di un motivo a grottesche.

                Interessanti, infine, i laterali del vano dell’altare, dove, oltre a figure di angeli, troviamo, in due nicchie laterali conchigliate, i freschi di un chierico con fiaccola, a sinistra, e di un chierico offerente, a destra.

                In questa cappella furono seppelliti, secondo il testamento di Giorgio Tagliavia, barone di Pietra Belice, i discendenti di questo ramo cadetto dei feudatari di Castelvetrano, i quali ne furono i committenti e ne ebbero, per un certo tempo, il patronato.

                Attraverso una porticina a destra si accede alla cappella dei Gentiluomini, così chiamata dal nome della compagnia  che vi ebbe per qualche tempo la sua sede.

                In essa è stato sistemato un piccolo museo del Duomo. Tra le opere di maggiore pregio va segnalata una bella portantina, interessante esempio di stile roccocò. L’artistico oggetto, che serviva per trasportare il viatico ai malati o ai moribondi, è di legno scolpito e intagliato con volute e fogliame, ed internamente si presenta imbottita di raso. Sul fianco destro vi è dipinto il sacrificio di Isacco; su quello sinistro è rappresentato l’olocausto di Mosè; nel retro è scolpito un ostensorio e vi è ritratto Mosè che indica agli Ebrei la manna nel deserto; nella parte anteriore è raffigurato l’Agnello dell’Apocalisse con i simboli dei quattro evangelisti.

               

 

 

 

 


LE CRIPTE

 

 

                Recenti lavori di manutenzione al pavimento hanno messo in luce ben quattordici cripte; di alcune si conosceva l’esistenza, mentre di altre si era perduta ogni memoria.

                Come si evince da molti testamenti rinvenuti in atti notarili dei secoli scorsi, alcune cripte costituivano la sepoltura degli ascritti alle varie confraternite, come quella del SS.mo Sacramento o dei S. Crispino e Crispiniano, sotto le omonime cappelle.

                La prima, cui si accede attraverso un’ampia scala, si apre sotto l’antica chiesa di S. Chiara, sede della compagnia. Essa ha pianta quadrata con volta a vela e apertura oggi tompagnata, sull’attuale piazza Cavour. Frontalmente all’accesso, su cui è incisa la data del 1745, una nicchia, dove rimangono tracce di un fresco rappresentante la Crocifissione, racchiude un grezzo altare; la parete di destra accoglie un essiccatoio e alcuni loculi con nicchie intermedie, altri loculi semidistrutti si aprono su quella di sinistra.

                Alla seconda si accede attraverso una botola, posta davanti l’antico ingresso alla cappella e, come le altre sparse sotto le navate, non presenta particolare interesse artistico.

                Notevole è invece la cripta del clero, al centro, sotto il transetto. Essa è stata scoperta, quasi casualmente abbattendo un muro divisorio di un’altra sepoltura che si apre sotto il presbiterio, in posizione simmetrica rispetto alla cripta del Sacramento. Una serie di piccoli stalli di gesso, sormontati da una cornice, corre lungo le pareti del vano rettangolare; ogni stallo è fornito di uno scolmatoio, collegato ad una canaletta, destinato all’essiccazione dei cadaveri. Sulla parete frontale alla scala di accesso, oggi chiusa, sei nicchie contenevano dei teschi; al centro una cornice di gesso con una testina d’angelo custodiva un quadro o un affresco non più esistente. In appositi incavi, alcune targhette di terracotta tramandano i nomi dei sacerdoti ivi sepolti. Due botole danno accesso ad una enorme fossa centrale, scavata nel tufo, utilizzata come ossario. Sul pavimento si legge questa iscrizione di maiolica: HIC ADEST CEMETERIUM CLERI IN QUO IACENT MULTA CORPO-RA SACERDOTUM SACRORUMQUE MINISTRORUM AC ETIAM CLERICORUM 1708. Attorno alla prima botola si legge: DIGNITAS NON MIHI SUBDITA; mentre sulla seconda è scritto: 1708  EXPECTO RESURRECTIONEM ET VOCA-BIS ME ET RESPONDEBO TIBI. Alle spalle della cripta, in direzione dell’altare maggiore, si apre una galleria scavata nella roccia, con volta a botte, che però si interrompe.

                Per quanto riguarda le altre sepolture, ricordiamo una grande cripta sotto la navata mediana al centro delle due porte laterali con loculi scavati nella roccia tufacea; due cripte poste rispettivamente in corrispondenza delle cappelle della Maddalena e dello Spirito Santo. La prima doveva appartenere alla famiglia Tagliavia - forse è quella cui accenna don Giorgio Tagliavia nel suo testamento del 1587 agli atti del notar Simone de Maio - giacché in essa è stato rinvenuto un angelo acefalo di pietra, sormontante un teschio e sorreggente uno scudo di pietra con la palma, stemma della famiglia.

                Altre piccole sepolture, scavate tutte nella roccia e con volta a conci di tufo, si aprono sotto le navate laterali, in corrispondenza degli antichi altari; mentre un grande ossario è stato rinvenuto sotto la parte sinistra del transetto, davanti all’altare dell’Immacolata.

                La Venerabile Fabbrica auspica che tale patrimonio, storico e artistico, possa essere, con l’aiuto di enti pubblici o privati e degli stessi fedeli, recuperato e reso fruibile.

 

 


ALTRE OPERE

 

 

                Le committenze di famiglie illustri - i Tagliavia, i Giglio, i Gambacorta, i Parisi, etc.; - di Maestranze; di Confraternite - SS. Sacramento, Maria SS. del Pianto e dei Sette Dolori, Gentiluomini -;  nonché della stessa Università (cioè del Comune) hanno fatto sì che la Chiesa si ornasse di quadri, statue, monumenti funerari, decorazioni riferibili ad artisti di notevole livello; fra i tanti ricordiamo la generazione dei Ferraro - Antonino, Orazio, Tommaso, Antonino junior - che, trapiantatisi da Giuliana a Castelvetrano, ne divennero cittadini e da qui irradiarono la loro arte e la loro versatilità in tutta la Sicilia occidentale.

                La nostra Madrice ha inoltre accolto parte del corredo iconografico proveniente da chiese distrutte o chiuse al culto.

                Oltre a quelle già menzionate, meritano un breve richiamo anche le seguenti opere.

                Fra la cappella del Giglio e l’altare dell’Immacolata troviamo due tele: una rappresenta S. Caterina d’Alessandria, l’altra, attribuita dall’Amico a Pietro Novelli, raffigura S. Gregorio Taumaturgo.

                Lungo la navatella settentrionale fra la porta laterale e la cappella della Maddalena è stato collocato, scolpito da Mario Occhipinti nel 1988, il busto dell’arciprete Geraci. Sulla colonnina che lo regge leggiamo la seguente epigrafe: ALLA MEMORIA DI DON MELCHIORRE GERACI ARCIPRETE DAL 1937 AL 1973 - ORATORE DOCENTE ANIMA DI PENSATORE ASSETATA DI ETERNO ASSERTORE DI VITA LIETAMENTE OPEROSA NELLA LUCE DI DIO - LA CITTADINANZA 1988.

                In alto si ammira una bella tela di S. Luigi Gonzaga, di ignoto autore.

                Sulla porta settentrionale è collocata un’altra tela, pur essa di autore sconosciuto, raffigurante S.Francesco Saverio e S.Ignazio sotto una Vergine con Bambino e stendardo.

                Più avanti, dove prima era l’altare della Madonna del Popolo, sorge il monumento marmoreo ad Antonio Parisi, su cui si legge: AD ANTONIO PARISI - DELLE SCIENZE GIURIDICHE SAPIENTE CULTORE - DI LIBERA E FECONDA PAROLA - NEL FORO - AFFETTUOSO PADRE DI FAMIGLIA - CUI DIEDE NOME E LUSTRO - COL SUO INGEGNO - MORTO A 28 APRILE 1878 DI ANNI 65 - LE FIGLIE E LA CONSORTE DOLENTISSIME - Q.M.P.

                La controfacciata  accoglie due  grandi tele, provenienti dalla chiesa di S.Giuseppe e attribuite al pennello di Borremans o alla sua bottega: a sinistra della porta centrale è rappresentata una Madonna del Carmelo; a destra S.Teresa d’Avila con la Vergine Maria.

                Lungo la navatella destra, sulla porta laterale, troviamo un quadro di S. Filippo Neri in ginocchio davanti alla Madonna.

                Davanti l’antico ingresso della cappella dei Santi Crispino e Crispiniano si erge il busto dell’arciprete Paolo Pappalardo, sulla cui base troviamo incise queste parole: A PAOLO PAPPALARDO - ARCIPRETE - ILLUMINATO MODESTO SUBLIME - DI VIRTU’ RELIGIOSA E CIVILE - IL POPOLO RICONOSCENTE - 1879. Il monumentino fu realizzato nel 1878 dallo scultore palermitano Benedetto Civiletti. In alto, una tela con un S. Nicola.

                Sulla parete destra della cappella del Crocifisso una targa marmorea dello scultore Giovanni Fiorentino ricorda l’arciprete Riggio. In essa si legge: ALL’ANIMA - DEL SACERDOTE GIAMBATTISTA RIGGIO - PREGATE REQUIE E PACE - NATO IL 14 APRILE 1820 - FU ARCIPRETE A 23 DICEMBRE 1877 - MORI’ IL 2 AGOSTO 1900. La lapide fu commissionata due anni prima della morte del Riggio, lasciando in bianco la data del decesso.

                Nell’antica cappella di S.Chiara si ammira un grande Crocifisso ligneo di squisita fattura, databile alla seconda metà del sec. XVIII, proveniente dalla chiesa del Crocifissello.

                Nel locale della sagrestia un mediocre quadro ad olio raffigura Simone Tagliavia, primo arciprete di nomina baronale.

                Nella cappella dei Santi Crispino e Crispiniano, oggi archivio con documenti a partire dal 1500, si trova qualche altra buona tela; mentre nell’ufficio parrocchiale si conservano alcuni bozzetti del pittore castelvetranese Gennaro Pardo.

 

 

 

CONCLUSIONI

 

 

                Alla fine del presente lavoro una riflessione si impone. Beati gli antichi che non avevano antichità, diceva ironicamente Diderot. E come dargli torto, se appena consideriamo le difficoltà, spesso insormontabili, che si incontrano nella tutela di un patrimonio storico-monumentale, in progressivo e spesso irrimediabile deterioramento?

                Per quanto riguarda la Madrice, oltre al degrado di alcune cappelle - ricordiamo il recente crollo del tondo del Ferraro nella cappella della Maddalena - dobbiamo sottolineare le precarie condizioni in cui versa l’abside sinistra, dove sono quasi perduti gli affreschi e una lunga crepa fa filtrare liberamente l’acqua nei giorni di pioggia.

                Tutta la fabbrica, comunque, andrebbe sottoposta a un’opera di generale recupero: dalle coperture lignee dove qualche pannello mostra segni di cedimento, alla calotta su cui grava pericolosamente una superfetazione che nasconde, tra l’altro, l’originaria merlatura; dalla facciata dove molti elementi sono perduti o logorati dal tempo, al pavimento avvallato e con vistose sbrecciature.

                Non basta, dunque, mettere vincoli e divieti a tutela di un monumento se poi non si è in grado di preservarlo dalla rovina.

                La Venerabile Fabbrica intende profondere ogni sforzo affinché al Duomo sia risparmiata la sorte di altre chiese castelvetranesi, consapevole di dover preservare un bene, patrimonio di tutti, cui è indissolubilmente legata la storia della città.

 

    

 


APPENDICE A

 

 

Serie cronologica degli Arcipreti attestati

 

1.       NICCOLO’ MESSANA                                                  1430 - 1435?

2.       BARTOLOMEO BRUNO                                              1436 - 1484?

3.       DIEGO LEONE                                                                1485 - 1494

4.       ANDREA DE CAVALLERIO                                        1495 - 1510

5.       LORENZO TAMBURELLO                                          1510 - 1516

6.       ANTONIO PRIGULLA                                                  1516 - 1536

7.       FRANCESCO VENTO                                                    1537 - 1539

8.       ANTONINO RENDA                                                     1539 - 1557?

9.       FILIPPO DI STEFANO                                                  1557 - 1558

10.     GIOVANNI OSORIO DE SYLVA                                 1558 - 1558

11.     SIMONE TAGLIAVIA                                                   1558 - 1580

12.     ANTONINO MANUELI                                                1580 - 1590

13.     NICOLO’ CIAMBRA                                                     1591 - 1600

14.     VINCENZO LA MANNINA                                         1601 - 1614

15.     FRANCESCO COSSENTINO                                        1614 - 1674

16.     ANTONINO CARLINO                                                 1674 - 1684

17.     FRANCESCO DI BLASI                                                1684 - 1696

18.     PIETRO GUIDO                                                              1697 - 1703

19.     FRANCESCO GIGLIO                                                    1703 - 1727

20.     ANDREA DE GREGORIO                                             1727 - 1754

21.     VITO MARIA LENTINI                                                1754 - 1756

22.     NICOLO’ VITA                                                               1756 - 1760

23.     FRANCESCO BLASCO                                                 1760 - 1764

24.     BENEDETTO LOMBARDO                                          1765 - 1785

25.     FRANCESCO PICCIONE                                               1788 - 1805

26.     GIOVANNI MAURICI                                                   1805 - 1828

27.     PIETRO RIGGIO                                                              1829 - 1862

28.     PAOLO PAPPALARDO                                                1862 - 1877

29.     GIOVAN BATTISTA RIGGIO                                      1877 - 1900

30.     GASPARE DE SIMONE                                                1900 - 1905

31.     ANTONINO MESSINA                                                 1906 - 1935

32.     MELCHIORRE GERACI                                                1937 - 1973

33.     SALVATORE BASILE                                                   1973 - 1987

34.     SALVATORE CIPRI                                                       1987 - 1993

35.     GIUSEPPE BIONDO                                                       1993 -

 

 


APPENDICE B

 

 

I

TESTAMENTO DI GIORGIO TAGLIAVIA

Fascicolo separato in atti di notar Simone de Maio al 18 agosto XI ind.ne 1587 - Regesto

 

                Dispositione fatta per me Giorgio Tagliavia in tempo di mia vita et bona salute, la quale vaglia et serva per mio vero sollenne et legitimo test.to et ultima mia volontà di mia propria mano scritto in Cast.no allo I di Gennaro XI Ind.ne 1587. Il quale mio test.to voglio che vaglia per test.to sollenne....

                A prima supplico l’Onnipotente e grande Iddio padre figlio et sp.to santo me conceda lume et gratia che questa mia dispositione venga fatta conforme al suo santo volere et servizio, usando con la mia anima la sua santissima pietà et misericordia non guardando alla innumerabilità et enormità di mei peccati delli quali gliene ricerco et supplico perdono con quanta humiltà et reverenza posso. Così anche supplico nostra signora padrona et avvocata di tutti i cristiani et di me indegno più che ogn’altro che me conceda la sua santa intercessione et così al glorioso san Francesco appresso la SS.ma Trinità che nella vita faccia penitenza di mei peccati et nel mio transito ajuto et favore et riposo dell’anima mia.

 

1. Voglio che il mio corpo sia sepellito in Cast.no et nella cappella della casa Tagliavia titolata la Madalena alla quale supp.co interceda per l’anima mia, et lascio ad essa cappella onze dodeci l’anno per obligo d’haversi a celebrare ogni giorno una messa nello altare di d.a cappella... le quali onze dodeci siano et se intendano aggregate con le altre onze deci lasciati per il... di Simone Tagliavia mio zio et la mezza decima della baronia della pietra di belici spettante a detta cappella dalla sua prima fondatione et se intendano dette onze dodeci date per dote et in beneficio perpetuo di detta cappella eligendone però io il cappellano o vero il mio Herede universale...

2. Voglio che il mio Her. Un.le et succ. ogni anno perpetuamente ni lo giorno della festa della Madalena paghi onze due per spendersi per la elemosina del vespro fondi messe et altri bisogni per la festa...

3. Voglio che morendo in viduità D. Caterina mia moglie si possi sepellire nella mia stessa sepoltura nella quale si sepelliscano anchor tutti li mei figli et suces. et per li altri parenti è fatta l’altra sepoltura sotto la fenestra.

4. Voglio che ogni anno il mio Her. un.le in ogni primo di mese fazzi spendere... tumina otto di frumento alli poveri notati in lo libro di mia despenza a lode di SS.mi apostoli....

5. Voglio che ogni anno in la festa della Madalena si casi una orfana seu povera nata o abitatrice di Cast.no: di anni quattordici compliti donandoci per dota onze dodeci cioè una casa... et lo complemento in denari contanti.

 

      Seguono altri legati al convento dei Miracoli, alla chiesa di San Domenico, di San Nicolò al Carmine, di S. Francesco (seu S. Lucia).

      ...

12.   Alla Compagnia del SS.mo Sacramento onze deci una volta tanto

         Alla Compagnia del Rosario onze quattro una volta tanto

         Alla Comp.a di Santo Iacobo onze quattro una volta tanto

         Alla Comp.a di Santo Nicolò onze quattro come sopra

         Alla Comp.a di n.ra si.ra della catina onze quattro come sopra

         Alla Comp.a di Santo Gio. onze sei come sopra

         Alla Comp.a delli Bianchi onze venti che portino il mio corpo li fratelli alli quali priego che nelli loro agiontamenti supplichino al S.re mi perdoni li mancamenti che ho fatto come fr.llo in d.a Comp.a.

13. Voglio che si paghino una volta tanto onze cento, cioè onze sessanta al monastero della badia grande a Sacca et onze quaranta al Mon.ro a Cast.no...

14. Priego mia moglie et comando a tutti li mei figli et in particolareal mio herede universale che mantenghino viva la devotione... (al convento dei cappuccini?) aiutando in tutte le loro occorrenze alli frati capuccini non dimancando in cosa alcuna nelle loro necessità et bisogni...

 

Il testamento prosegue fino al punto 68 con minuziose disposizioni di carattere patrimoniale.

 

 

II

CONCESSIO CAPPELLAE D. FRANCISCO GIGLIO

In atti di notar Vincenzo Abitabile a 6 marzo X ind.ne 1569 Regesto

 

                Notum facimus et testamur quod cum Mag.cus Fran.cus de Giglio de C.te Cast.ni ob devotionem quam semper gessit, et presens gerit, et domino concedente dev.ne eius vita gerere... pretendit ergo Glor. Virginem Matrem Gratie iam sunt  anni tres, ut circa deliberavit obtinere et habere q.dam locum intus Maiorem Eccl. hiuis predicte Civ.is Cast.ni pro Fabricare in ea faciendo unam cappellam cum suo Altare et in eodem Altare celebrare faciendo unam missam singulo die in perpetuum ad honorem et gloriam Virginis Gratie Marie et pro remissione eius peccatorum et tandem requisiverit infra.m Ill. et Rev.m Dom.m Archipresb. dicte Maioris Ecc. infrascr. Ill.mo et Ecc.mo D.o  Princ. dicte Civitatis ius Patronatus d.e Maiori Ecc. pro beneficio predicto dignaretur sibi aliquem locum concedere in d.a Maiori Ec.a pro construendo et fabricari faciendo dictam cappellam pro se suis heredibus et succ.bus et aliis  quibusqumque in perpetuum, et in ea eiusque altari celebrari faciendo qualibet die infr.am missam perpetuam offerendo solvere...

 

 

III

 

SOCIETA’ DEI SS. CRISPINO E CRISPINIANO

In atti di notar Giacinto Giglio a 4 agosto VIII ind.ne 1625

 Regesto

 

Magister Franciscus la Sala, tanquam gubernator, mag. Vincentius lo Calbo et mag. Petrus de Argumento, consiliarii Societatis et Mastranzie SS. Chrispini et Chrispiniani huius Civ.tis Cast.ni... omnes magistri cerdones... sponte durante eorum vita tantum dare et solvere promiserunt seque obligant quilibet eorum granum unum pro qualibet ebdomada... Et hoc ad effectum ut dicta elemosina per eos promissa aumentandi in beneficium dictorum magistrorum et suorum heredum et pro faciendo infrascriptis piis operibus videlicet. In primis che li mastri di detta mastranza ogni anno habiano di eligersi tre officiali... et che detti deputati sieno obligati havere cura delli mastri di detta arte li quali si retrovassero amalati et in necessità, presi di turchi o altri nostri inimici della santa fede e carcerati cossì per civili come per criminali...

 

L’atto prosegue con disposizioni che riguardano i lavoranti, il maritaggio delle figlie e delle orfane, il soccorso pei figli inabili.

 

Item che li figli di detti mastri che staranno alla potia di loro patri e che siano lavoranti che sappiano cusere habiano di dari ogni sabbato lo grano come l’altri mastri... Iuraverunt... Testes Dr. Don Antonius de Maio, magister Ioannes Maurici et Baldassar Calcara.

 

 

BIBLIOGRAFIA

 

 

Fonti

 

Archivio Defunti Notai, Castelvetrano, passim.

Archivio Ecclesiastico della Chiesa Madre, Castelvetrano, passim.

Archivio Ecclesiastico della Parrocchia S. Giovanni Battista, Castelvetrano, passim.

Archivio Storico Comunale “Virgilio Titone”, Castelvetrano, passim.

Archivio Storico Diocesano, Mazara del Vallo, passim.

 

 

Opere

 

AMICO VITO, Dizionario Topografico della Sicilia, Trad. e note di G. DI MARZO, Palermo, 1855.

AYMARD MAURICE, Une famille de l’aristocratie sicilienne aux XVI et XVII siècles: les ducs de Terranove, Revue Historique 96 (1972) tome CCXLVII.

CAVALLARI FRANCESCO SAVERIO - VIVIANI GASPARE, Rapporto e regolamento da servire per lo ristauro da eseguirsi nella chiesa madre di Castelvetrano, Palermo, 1849.

CORRENTI SANTI, La Sicilia del Cinquecento. Il nazionalismo isolano, Milano, 1980.

DIECIDUE GIOVANNI, I Consigli civici a Castelvetrano nei secoli XVI-XVIII, Archivio Storico Siciliano 16 (1967) 89-151.

FERRIGNO GIOVAN BATTISTA, Antonello Benevides, un pittore sconosciuto della rinascenza, Trapani, 1920.

   -        Castelvetrano, monografia, Palermo, 1909.

   -        Il culto di S. Agata V. e M. nella diocesi di Mazara, La  Siciliana (Agosto, 1929) 150-151.

   -        La peste a Castelvetrano negli anni 1624-1626, Trani, 1905

   -        L’arte di fondere le campane in Sicilia, Palermo, 1929.

GENCO ANNA MARIA, La Chiesa Madre di Castelvetrano nella storia e nell’arte (Tesi di Laurea), Palermo, 1948-1949.

GIARDINA AURELIO, Il palazzo Pignatelli nella storia di Castelvetrano, Castelvetrano, 1991.

    -       I Tagliavia Aragona e la Chiesa di S. Domenico in Castelvetrano, Castelvetrano, 1985.

MARCHESE ANTONINO GIUSEPPE, I Ferraro da Giuliana 1-2, Palermo, 1982.

NOTO GIOVAN BATTISTA, Platea Della Palmosa Città di Castelvetrano, Suo Stato, Giurisdizione, Baronie e Contea del Borgetto aggregati (Pro manuscripto), Castelvetrano, 1732.

POLIZZI GIUSEPPE, I monumenti d’antichità e d’arte nella provincia di Trapani, Trapani, 1879.

 

 


INDICE

 

 

 

Premessa                                                                                                               5

Note storiche                                                                                                        9

La struttura                                                                                                     13

Gli stucchi                                                                                                       17

Le absidi                                                                                                           21

             Il presbiterio                                                                                        21

             La cappella del Giglio                                                                         22

             La cappella del SS. Crocifisso                                                           24

Le cappelle                                                                                                       29

             La cappella della Spirito Santo                                                         29

             La cappella dei SS. Crispino e Crispiniano                                     32

             La cappella della Maddalena                                                            34

Le cripte                                                                                                           39

Altre opere                                                                                                       41

Conclusioni                                                                                                      45

Appendici                                                                                                         47

Bibliografia                                                                                                       53

 

 

 

 


Francesco Saverio Calcara, nato a Palermo, vive ed opera a Castelvetrano. Animatore di gruppi giovanili di ispirazione cristiana, è stato, negli anni '70, tra i promotori dell'associazione "Don Primo Mazzolari" e del periodico "Teorema". Laureatosi in filosofia all'Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano con una tesi su Benedetto Croce, pubblicata da Vita e Pensiero nel 1976, ha insegnato per diversi anni italiano, latino e storia al Liceo Scientifico di Luino (Varese). Rientrato a Castelvetrano nel 1985, ha collaborato a diverse compagnie teatrali, fra cui l'associazione "Voci della Sicilia" di Anna Cuticchio, "La Ribalta", "Le maschere di Selinunte", "Piccolo Teatro Circolo della Gioventù". Ha collaborato al trasferimento e al riordino dell'archivio notarile di Castelvetrano presso la Collegiata di S. Pietro. Autore di saggi di storia locale, ha pubblicato nel 1992 "La Rota dei Proietti" e nel 1994 "Il Convento di San Domenico. Breve saggio sulla presenza dei frati predicatori a Castelvetrano".