 |
COSTITUZIONE DOGMATICA LUMEN GENTIUM
SULLA CHIESA
CAPITOLO I
IL MISTERO DELLA CHIESA
La Chiesa è sacramento in Cristo
1. Cristo è la luce delle genti: questo santo Concilio, adunato nello
Spirito Santo, desidera dunque ardentemente, annunciando il Vangelo ad ogni
creatura (cfr. Mc 16,15), illuminare tutti gli uomini con la luce del Cristo che
risplende sul volto della Chiesa. E siccome la Chiesa è, in Cristo, in
qualche modo il sacramento, ossia il segno e lo strumento dell'intima unione con
Dio e dell'unità di tutto il genere umano, continuando il tema dei
precedenti Concili, intende con maggiore chiarezza illustrare ai suoi fedeli e
al mondo intero la propria natura e la propria missione universale. Le presenti
condizioni del mondo rendono più urgente questo dovere della Chiesa,
affinché tutti gli uomini, oggi più strettamente congiunti dai
vari vincoli sociali, tecnici e culturali, possano anche conseguire la piena
unità in Cristo.
Disegno salvifico universale del Padre
2. L'eterno Padre, con liberissimo e arcano disegno di sapienza e di bontà,
creò l'universo; decise di elevare gli uomini alla partecipazione della
sua vita divina; dopo la loro caduta in Adamo non li abbandonò, ma sempre
prestò loro gli aiuti per salvarsi, in considerazione di Cristo
redentore, « il quale è l'immagine dell'invisibile Dio, generato
prima di ogni creatura » (Col 1,15). Tutti infatti quelli che ha scelto, il
Padre fino dall'eternità « li ha distinti e li ha predestinati a
essere conformi all'immagine del Figlio suo, affinché egli sia il
primogenito tra molti fratelli » (Rm 8,29). I credenti in Cristo, li ha
voluti chiamare a formare la santa Chiesa, la quale, già annunciata in
figure sino dal principio del mondo, mirabilmente preparata nella storia del
popolo d'Israele e nell'antica Alleanza, stabilita infine « negli ultimi
tempi », è stata manifestata dall'effusione dello Spirito e avrà
glorioso compimento alla fine dei secoli. Allora, infatti, come si legge nei
santi Padri, tutti i giusti, a partire da Adamo, « dal giusto Abele fino
all'ultimo eletto », saranno riuniti presso il Padre nella Chiesa
universale.
Missione del Figlio
3. È venuto quindi il Figlio, mandato dal Padre, il quale ci ha
scelti in lui prima della fondazione del mondo e ci ha predestinati ad essere
adottati in figli, perché in lui volle accentrare tutte le cose (cfr. Ef
1,4-5 e 10). Perciò Cristo, per adempiere la volontà del Padre, ha
inaugurato in terra il regno dei cieli e ci ha rivelato il mistero di lui, e con
la sua obbedienza ha operato la redenzione. La Chiesa, ossia il regno di Cristo
già presente in mistero, per la potenza di Dio cresce visibilmente nel
mondo. Questo inizio e questa crescita sono significati dal sangue e dall'acqua,
che uscirono dal costato aperto di Gesù crocifisso (cfr. Gv 19,34), e
sono preannunziati dalle parole del Signore circa la sua morte in croce: «
Ed io, quando sarò levato in alto da terra, tutti attirerò a me »
(Gv 12,32). Ogni volta che il sacrificio della croce, col quale Cristo, nostro
agnello pasquale, è stato immolato (cfr. 1 Cor 5,7), viene celebrato
sull'altare, si rinnova l'opera della nostra redenzione. E insieme, col
sacramento del pane eucaristico, viene rappresentata ed effettuata l'unità
dei fedeli, che costituiscono un solo corpo in Cristo (cfr. 1 Cor 10,17). Tutti
gli uomini sono chiamati a questa unione con Cristo, che è la luce del
mondo; da lui veniamo, per mezzo suo viviamo, a lui siamo diretti.
Lo Spirito santificatore della Chiesa
4. Compiuta l'opera che il Padre aveva affidato al Figlio sulla terra (cfr.
Gv 17,4), il giorno di Pentecoste fu inviato lo Spirito Santo per santificare
continuamente la Chiesa e affinché i credenti avessero così
attraverso Cristo accesso al Padre in un solo Spirito (cfr. Ef 2,18). Questi è
lo Spirito che dà la vita, una sorgente di acqua zampillante fino alla
vita eterna (cfr. Gv 4,14; 7,38-39); per mezzo suo il Padre ridà la vita
agli uomini, morti per il peccato, finché un giorno risusciterà in
Cristo i loro corpi mortali (cfr. Rm 8,10-11). Lo Spirito dimora nella Chiesa e
nei cuori dei fedeli come in un tempio (cfr. 1 Cor 3,16; 6,19) e in essi prega e
rende testimonianza della loro condizione di figli di Dio per adozione (cfr. Gal
4,6; Rm 8,15-16 e 26). Egli introduce la Chiesa nella pienezza della verità
(cfr. Gv 16,13), la unifica nella comunione e nel ministero, la provvede e
dirige con diversi doni gerarchici e carismatici, la abbellisce dei suoi frutti
(cfr. Ef 4,11-12; 1 Cor 12,4; Gal 5,22). Con la forza del Vangelo la fa
ringiovanire, continuamente la rinnova e la conduce alla perfetta unione col suo
Sposo. Poiché lo Spirito e la sposa dicono al Signore Gesù: «
Vieni » (cfr. Ap 22,17).
Così la Chiesa universale si presenta come « un popolo che
deriva la sua unità dall'unità del Padre, del Figlio e dello
Spirito Santo ».
Il regno di Dio
5. Il mistero della santa Chiesa si manifesta nella sua stessa fondazione.
Il Signore Gesù, infatti, diede inizio ad essa predicando la buona
novella, cioè l'avvento del regno di Dio da secoli promesso nella
Scrittura: « Poiché il tempo è compiuto, e vicino è il
regno di Dio » (Mc 1,15; cfr. Mt 4,17). Questo regno si manifesta
chiaramente agli uomini nelle parole, nelle opere e nella presenza di Cristo. La
parola del Signore è paragonata appunto al seme che viene seminato nel
campo (cfr. Mc 4,14): quelli che lo ascoltano con fede e appartengono al piccolo
gregge di Cristo (cfr. Lc 12,32), hanno accolto il regno stesso di Dio; poi il
seme per virtù propria germoglia e cresce fino al tempo del raccolto
(cfr. Mc 4,26-29). Anche i miracoli di Gesù provano che il regno è
arrivato sulla terra: « Se con il dito di Dio io scaccio i demoni, allora è
già pervenuto tra voi il regno di Dio » (Lc 11,20; cfr. Mt 12,28).
Ma innanzi tutto il regno si manifesta nella stessa persona di Cristo, figlio di
Dio e figlio dell'uomo, il quale è venuto « a servire, e a dare la
sua vita in riscatto per i molti » (Mc 10,45). Quando poi Gesù, dopo
aver sofferto la morte in croce per gli uomini, risorse, apparve quale Signore e
messia e sacerdote in eterno (cfr. At 2,36; Eb 5,6; 7,17-21), ed effuse sui suoi
discepoli lo Spirito promesso dal Padre (cfr. At 2,33). La Chiesa perciò,
fornita dei doni del suo fondatore e osservando fedelmente i suoi precetti di
carità, umiltà e abnegazione, riceve la missione di annunziare e
instaurare in tutte le genti il regno di Cristo e di Dio, e di questo regno
costituisce in terra il germe e l'inizio. Intanto, mentre va lentamente
crescendo, anela al regno perfetto e con tutte le sue forze spera e brama di
unirsi col suo re nella gloria.
Le immagini della Chiesa
6. Come già nell'Antico Testamento la rivelazione del regno viene
spesso proposta in figure, così anche ora l'intima natura della Chiesa ci
si fa conoscere attraverso immagini varie, desunte sia dalla vita pastorale o
agricola, sia dalla costruzione di edifici o anche dalla famiglia e dagli
sponsali, e che si trovano già abbozzate nei libri dei profeti.
La Chiesa infatti è un ovile, la cui porta unica e necessaria è
Cristo (cfr. Gv 10,1-10). È pure un gregge, di cui Dio stesso ha
preannunziato che ne sarebbe il pastore (cfr. Is 40,11; Ez 34,11 ss), e le cui
pecore, anche se governate da pastori umani, sono però incessantemente
condotte al pascolo e nutrite dallo stesso Cristo, il buon Pastore e principe
dei pastori (cfr. Gv 10,11; 1 Pt 5,4), il quale ha dato la vita per le pecore
(cfr. Gv 10,11-15).
La Chiesa è il podere o campo di Dio (cfr. 1 Cor 3,9). In quel campo
cresce l'antico olivo, la cui santa radice sono stati i patriarchi e nel quale è
avvenuta e avverrà la riconciliazione dei Giudei e delle Genti (cfr. Rm
11,13-26). Essa è stata piantata dal celeste agricoltore come vigna
scelta (Mt 21,33-43, par.; cfr. Is 5,1 ss). Cristo è la vera vite, che dà
vita e fecondità ai tralci, cioè a noi, che per mezzo della Chiesa
rimaniamo in lui, e senza di lui nulla possiamo fare (cfr. Gv 15,1-5).
Più spesso ancora la Chiesa è detta edificio di Dio (cfr. 1
Cor 3,9). Il Signore stesso si paragonò alla pietra che i costruttori
hanno rigettata, ma che è divenuta la pietra angolare (Mt 21,42 par.).
Sopra quel fondamento la Chiesa è costruita dagli apostoli (cfr. 1 Cor
3,11) e da esso riceve stabilità e coesione. Questo edificio viene
chiamato in varie maniere: casa di Dio (cfr. 1 Tm 3,15), nella quale cioè
abita la sua famiglia, la dimora di Dio nello Spirito (cfr. Ef 2,19-22), la
dimora di Dio con gli uomini (cfr. Ap 21,3), e soprattutto tempio santo, il
quale, rappresentato dai santuari di pietra, è l'oggetto della lode dei
santi Padri ed è paragonato a giusto titolo dalla liturgia alla città
santa, la nuova Gerusalemme. In essa infatti quali pietre viventi veniamo a
formare su questa terra un tempio spirituale (cfr. 1 Pt 2,5). E questa città
santa Giovanni la contempla mentre, nel momento in cui si rinnoverà il
mondo, scende dal cielo, da presso Dio, « acconciata come sposa adornatasi
per il suo sposo » (Ap 21,1s).
La Chiesa, chiamata « Gerusalemme celeste » e « madre nostra »
(Gal 4,26; cfr. Ap 12,17), viene pure descritta come l'immacolata sposa
dell'Agnello immacolato (cfr. Ap 19,7; 21,2 e 9; 22,17), sposa che Cristo «
ha amato.. . e per essa ha dato se stesso, al fine di santificarla » (Ef
5,26), che si è associata con patto indissolubile ed incessantemente «
nutre e cura » (Ef 5,29), che dopo averla purificata, volle a sé
congiunta e soggetta nell'amore e nella fedeltà (cfr. Ef 5,24), e che,
infine, ha riempito per sempre di grazie celesti, onde potessimo capire la carità
di Dio e di Cristo verso di noi, carità che sorpassa ogni conoscenza
(cfr. Ef 3,19). Ma mentre la Chiesa compie su questa terra il suo pellegrinaggio
lontana dal Signore (cfr. 2 Cor 5,6), è come un esule, e cerca e pensa
alle cose di lassù, dove Cristo siede alla destra di Dio, dove la vita
della Chiesa è nascosta con Cristo in Dio, fino a che col suo sposo
comparirà rivestita di gloria (cfr. Col 3,1-4).
La Chiesa, corpo mistico di Cristo
7. Il Figlio di Dio, unendo a sé la natura umana e vincendo la morte
con la sua morte e resurrezione, ha redento l'uomo e l'ha trasformato in una
nuova creatura (cfr. Gal 6,15; 2 Cor 5,17). Comunicando infatti il suo Spirito,
costituisce misticamente come suo corpo i suoi fratelli, che raccoglie da tutte
le genti.
In quel corpo la vita di Cristo si diffonde nei credenti che, attraverso i
sacramenti si uniscono in modo arcano e reale a lui sofferente e glorioso. Per
mezzo del battesimo siamo resi conformi a Cristo: « Infatti noi tutti «
fummo battezzati in un solo Spirito per costituire un solo corpo » (1 Cor
12,13). Con questo sacro rito viene rappresentata e prodotta la nostra unione
alla morte e resurrezione di Cristo: « Fummo dunque sepolti con lui per
l'immersione a figura della morte »; ma se, fummo innestati a lui in una
morte simile alla sua, lo saremo anche in una resurrezione simile alla sua »
(Rm 6,4-5). Partecipando realmente del corpo del Signore nella frazione del pane
eucaristico, siamo elevati alla comunione con lui e tra di noi: « Perché
c'è un solo pane, noi tutti non formiamo che un solo corpo, partecipando
noi tutti di uno stesso pane» (1 Cor 10,17). Così noi tutti
diventiamo membri di quel corpo (cfr. 1 Cor 12,27), «e siamo membri gli uni
degli altri» (Rm 12,5).
Ma come tutte le membra del corpo umano, anche se numerose, non formano che
un solo corpo così i fedeli in Cristo (cfr. 1 Cor 12,12). Anche nella
struttura del corpo mistico di Cristo vige una diversità di membri e di
uffici. Uno è lo Spirito, il quale per l'utilità della Chiesa
distribuisce la varietà dei suoi doni con magnificenza proporzionata alla
sua ricchezza e alle necessità dei ministeri (cfr. 1 Cor 12,1-11). Fra
questi doni eccelle quello degli apostoli, alla cui autorità lo stesso
Spirito sottomette anche i carismatici (cfr. 1 Cor 14). Lo Spirito, unificando
il corpo con la sua virtù e con l'interna connessione dei membri, produce
e stimola la carità tra i fedeli. E quindi se un membro soffre, soffrono
con esso tutte le altre membra; se un membro è onorato, ne gioiscono con
esso tutte le altre membra (cfr. 1 Cor 12,26).
Capo di questo corpo è Cristo. Egli è l'immagine
dell'invisibile Dio, e in lui tutto è stato creato. Egli è
anteriore a tutti, e tutte le cose sussistono in lui. È il capo del
corpo, che è la Chiesa. È il principio, il primo nato di tra i
morti, affinché abbia il primato in tutto (cfr. Col 1,15-18). Con la
grandezza della sua potenza domina sulle cose celesti e terrestri, e con la sua
perfezione e azione sovrana riempie delle ricchezze della sua gloria tutto il
suo corpo (cfr. Ef 1,18-23).
Tutti i membri devono a lui conformarsi, fino a che Cristo non sia in essi
formato (cfr. Gal 4,19). Per ciò siamo collegati ai misteri della sua
vita, resi conformi a lui, morti e resuscitati con lui, finché con lui
regneremo (cfr. Fil 3,21; 2 Tm 2,11; Ef 2,6). Ancora peregrinanti in terra,
mentre seguiamo le sue orme nella tribolazione e nella persecuzione, veniamo
associati alle sue sofferenze, come il corpo al capo e soffriamo con lui per
essere con lui glorificati (cfr. Rm 8,17). Da lui « tutto il corpo ben
fornito e ben compaginato, per mezzo di giunture e di legamenti, riceve
l'aumento voluto da Dio » (Col 2,19). Nel suo corpo, che è la
Chiesa, egli continuamente dispensa i doni dei ministeri, con i quali, per virtù
sua, ci aiutiamo vicendevolmente a salvarci e, operando nella carità
conforme a verità, andiamo in ogni modo crescendo verso colui, che è
il nostro capo (cfr. Ef 5,11-16 gr.).
Perché poi ci rinnovassimo continuamente in lui (cfr. Ef 4,23), ci ha
resi partecipi del suo Spirito, il quale, unico e identico nel capo e nelle
membra, dà a tutto il corpo vita, unità e moto, così che i
santi Padri poterono paragonare la sua funzione con quella che il principio
vitale, cioè l'anima, esercita nel corpo umano. Cristo inoltre ama la
Chiesa come sua sposa, facendosi modello del marito che ama la moglie come il
proprio corpo (cfr. Ef 5,25-28); la Chiesa poi è soggetta al suo capo. E
poiché «in lui abita congiunta all'umanità la pienezza della
divinità » (Col 2,9), egli riempie dei suoi doni la Chiesa la quale è
il suo corpo e la sua pienezza (cfr. Ef 1,22-23), affinché essa sia
protesa e pervenga alla pienezza totale di Dio (cfr. Ef 3,19).
La Chiesa, realtà visibile e spirituale
8. Cristo, unico mediatore, ha costituito sulla terra e incessantemente
sostenta la sua Chiesa santa, comunità di fede, di speranza e di carità,
quale organismo visibile, attraverso il quale diffonde per tutti la verità
e la grazia. Ma la società costituita di organi gerarchici e il corpo
mistico di Cristo, l'assemblea visibile e la comunità spirituale, la
Chiesa terrestre e la Chiesa arricchita di beni celesti, non si devono
considerare come due cose diverse; esse formano piuttosto una sola complessa
realtà risultante di un duplice elemento, umano e divino. Per una
analogia che non è senza valore, quindi, è paragonata al mistero
del Verbo incarnato. Infatti, come la natura assunta serve al Verbo divino da
vivo organo di salvezza, a lui indissolubilmente unito, così in modo non
dissimile l'organismo sociale della Chiesa serve allo Spirito di Cristo che la
vivifica, per la crescita del corpo (cfr. Ef 4,16).
Questa è l'unica Chiesa di Cristo, che nel Simbolo professiamo una,
santa, cattolica e apostolica e che il Salvatore nostro, dopo la sua
resurrezione, diede da pascere a Pietro (cfr. Gv 21,17), affidandone a lui e
agli altri apostoli la diffusione e la guida (cfr. Mt 28,18ss), e costituì
per sempre colonna e sostegno della verità (cfr. 1 Tm 3,15). Questa
Chiesa, in questo mondo costituita e organizzata come società, sussiste
nella Chiesa cattolica, governata dal successore di Pietro e dai vescovi in
comunione con lui, ancorché al di fuori del suo organismo si trovino
parecchi elementi di santificazione e di verità, che, appartenendo
propriamente per dono di Dio alla Chiesa di Cristo, spingono verso l'unità
cattolica. Come Cristo ha compiuto la redenzione attraverso la povertà e
le persecuzioni, così pure la Chiesa e chiamata a prendere la stessa via
per comunicare agli uomini i frutti della salvezza. Gesù Cristo «
che era di condizione divina... spogliò se stesso, prendendo la
condizione di schiavo » (Fil 2,6-7) e per noi « da ricco che era si
fece povero » (2 Cor 8,9): così anche la Chiesa, quantunque per
compiere la sua missione abbia bisogno di mezzi umani, non è costituita
per cercare la gloria terrena, bensì per diffondere, anche col suo
esempio, l'umiltà e l'abnegazione. Come Cristo infatti è stato
inviato dal Padre « ad annunciare la buona novella ai poveri, a guarire
quei che hanno il cuore contrito » (Lc 4,18), « a cercare e salvare ciò
che era perduto» (Lc 19,10), così pure la Chiesa circonda
d'affettuosa cura quanti sono afflitti dalla umana debolezza, anzi riconosce nei
poveri e nei sofferenti l'immagine del suo fondatore, povero e sofferente, si fa
premura di sollevarne la indigenza e in loro cerca di servire il Cristo. Ma
mentre Cristo, « santo, innocente, immacolato » (Eb 7,26), non conobbe
il peccato (cfr. 2 Cor 5,21) e venne solo allo scopo di espiare i peccati del
popolo (cfr. Eb 2,17), la Chiesa, che comprende nel suo seno peccatori ed è
perciò santa e insieme sempre bisognosa di purificazione, avanza
continuamente per il cammino della penitenza e del rinnovamento. La Chiesa «
prosegue il suo pellegrinaggio fra le persecuzioni del mondo e le consolazioni
di Dio », annunziando la passione e la morte del Signore fino a che egli
venga (cfr. 1 Cor 11,26). Dalla virtù del Signore risuscitato trae la
forza per vincere con pazienza e amore le afflizioni e le difficoltà, che
le vengono sia dal di dentro che dal di fuori, e per svelare in mezzo al mondo,
con fedeltà, anche se non perfettamente, il mistero di lui, fino a che
alla fine dei tempi esso sarà manifestato nella pienezza della luce.
CAPITOLO II
IL POPOLO DI DIO
Nuova alleanza e nuovo popolo
9. In ogni tempo e in ogni nazione è accetto a Dio chiunque lo teme e
opera la giustizia (cfr. At 10,35). Tuttavia Dio volle santificare e salvare gli
uomini non individualmente e senza alcun legame tra loro, ma volle costituire di
loro un popolo, che lo riconoscesse secondo la verità e lo servisse nella
santità.
Scelse quindi per sé il popolo israelita, stabilì con lui
un'alleanza e lo formò lentamente, manifestando nella sua storia se
stesso e i suoi disegni e santificandolo per sé. Tutto questo però
avvenne in preparazione e figura di quella nuova e perfetta alleanza da farsi in
Cristo, e di quella più piena rivelazione che doveva essere attuata per
mezzo del Verbo stesso di Dio fattosi uomo. « Ecco venir giorni (parola del
Signore) nei quali io stringerò con Israele e con Giuda un patto nuovo...
Porrò la mia legge nei loro cuori e nelle loro menti l'imprimerò;
essi mi avranno per Dio ed io li avrò per il mio popolo... Tutti essi,
piccoli e grandi, mi riconosceranno, dice il Signore » (Ger 31,31-34).
Cristo istituì questo nuovo patto cioè la nuova alleanza nel suo
sangue (cfr. 1 Cor 11,25), chiamando la folla dai Giudei e dalle nazioni, perché
si fondesse in unità non secondo la carne, ma nello Spirito, e
costituisse il nuovo popolo di Dio. Infatti i credenti in Cristo, essendo stati
rigenerati non di seme corruttibile, ma di uno incorruttibile, che è la
parola del Dio vivo (cfr. 1 Pt 1,23), non dalla carne ma dall'acqua e dallo
Spirito Santo (cfr. Gv 3,5-6), costituiscono « una stirpe eletta, un
sacerdozio regale, una nazione santa, un popolo tratto in salvo... Quello che un
tempo non era neppure popolo, ora invece è popolo di Dio » (1 Pt
2,9-10).
Questo popolo messianico ha per capo Cristo « dato a morte per i nostri
peccati e risuscitato per la nostra giustificazione » (Rm 4,25), e che ora,
dopo essersi acquistato un nome che è al di sopra di ogni altro nome,
regna glorioso in cielo. Ha per condizione la dignità e la libertà
dei figli di Dio, nel cuore dei quali dimora lo Spirito Santo come in un tempio.
Ha per legge il nuovo precetto di amare come lo stesso Cristo ci ha amati (cfr.
Gv 13,34). E finalmente, ha per fine il regno di Dio, incominciato in terra
dallo stesso Dio, e che deve essere ulteriormente dilatato, finché alla
fine dei secoli sia da lui portato a compimento, quando comparirà Cristo,
vita nostra (cfr. Col 3,4) e « anche le stesse creature saranno liberate
dalla schiavitù della corruzione per partecipare alla gloriosa libertà
dei figli di Dio » (Rm 8,21). Perciò il popolo messianico, pur non
comprendendo effettivamente l'universalità degli uomini e apparendo
talora come un piccolo gregge, costituisce tuttavia per tutta l'umanità
il germe più forte di unità, di speranza e di salvezza. Costituito
da Cristo per una comunione di vita, di carità e di verità, è
pure da lui assunto ad essere strumento della redenzione di tutti e, quale luce
del mondo e sale della terra (cfr. Mt 5,13-16), è inviato a tutto il
mondo.
Come già l'Israele secondo la carne peregrinante nel deserto viene
chiamato Chiesa di Dio (Dt 23,1 ss.), così il nuovo Israele dell'era
presente, che cammina alla ricerca della città futura e permanente (cfr.
Eb 13,14), si chiama pure Chiesa di Cristo (cfr. Mt 16,18); è il Cristo
infatti che l'ha acquistata col suo sangue (cfr. At 20,28), riempita del suo
Spirito e fornita di mezzi adatti per l'unione visibile e sociale. Dio ha
convocato tutti coloro che guardano con fede a Gesù, autore della
salvezza e principio di unità e di pace, e ne ha costituito la Chiesa,
perché sia agli occhi di tutti e di ciascuno, il sacramento visibile di
questa unità salvifica. Dovendosi essa estendere a tutta la terra, entra
nella storia degli uomini, benché allo stesso tempo trascenda i tempi e i
confini dei popoli, e nel suo cammino attraverso le tentazioni e le tribolazioni
è sostenuta dalla forza della grazia di Dio che le è stata
promessa dal Signore, affinché per la umana debolezza non venga meno alla
perfetta fedeltà ma permanga degna sposa del suo Signore, e non cessi,
con l'aiuto dello Spirito Santo, di rinnovare se stessa, finché
attraverso la croce giunga alla luce che non conosce tramonto.
Il sacerdozio comune dei fedeli
10. Cristo Signore, pontefice assunto di mezzo agli uomini (cfr. Eb 5,1-5),
fece del nuovo popolo « un regno e sacerdoti per il Dio e il Padre suo »
(Ap 1,6; cfr. 5,9-10). Infatti per la rigenerazione e l'unzione dello Spirito
Santo i battezzati vengono consacrati per formare un tempio spirituale e un
sacerdozio santo, per offrire, mediante tutte le attività del cristiano,
spirituali sacrifici, e far conoscere i prodigi di colui, che dalle tenebre li
chiamò all'ammirabile sua luce (cfr. 1 Pt 2,4-10). Tutti quindi i
discepoli di Cristo, perseverando nella preghiera e lodando insieme Dio (cfr. At
2,42-47), offrano se stessi come vittima viva, santa, gradevole a Dio (cfr. Rm
12,1), rendano dovunque testimonianza di Cristo e, a chi la richieda, rendano
ragione della speranza che è in essi di una vita eterna (cfr. 1 Pt 3,15)
Il sacerdozio comune dei fedeli e il sacerdozio ministeriale o gerarchico,
quantunque differiscano essenzialmente e non solo di grado, sono tuttavia
ordinati l'uno all'altro, poiché l'uno e l'altro, ognuno a suo proprio
modo, partecipano dell'unico sacerdozio di Cristo. Il sacerdote ministeriale,
con la potestà sacra di cui è investito, forma e regge il popolo
sacerdotale, compie il sacrificio eucaristico nel ruolo di Cristo e lo offre a
Dio a nome di tutto il popolo; i fedeli, in virtù del loro regale
sacerdozio, concorrono all'offerta dell'eucaristia, ed esercitano il loro
sacerdozio col ricevere i sacramenti, con la preghiera e il ringraziamento, con
la testimonianza di una vita santa, con l'abnegazione e la carità
operosa.
Il sacerdozio comune esercitato nei sacramenti
11. Il carattere sacro e organico della comunità sacerdotale viene
attuato per mezzo dei sacramenti e delle virtù. I fedeli, incorporati
nella Chiesa col battesimo, sono destinati al culto della religione cristiana
dal carattere sacramentale; rigenerati quali figli di Dio, sono tenuti a
professare pubblicamente la fede ricevuta da Dio mediante la Chiesa. Col
sacramento della confermazione vengono vincolati più perfettamente alla
Chiesa, sono arricchiti di una speciale forza dallo Spirito Santo e in questo
modo sono più strettamente obbligati a diffondere e a difendere la fede
con la parola e con l'opera, come veri testimoni di Cristo. Partecipando al
sacrificio eucaristico, fonte e apice di tutta la vita cristiana, offrono a Dio
la vittima divina e se stessi con essa così tutti, sia con l'offerta che
con la santa comunione, compiono la propria parte nell'azione liturgica, non però
in maniera indifferenziata, bensì ciascuno a modo suo. Cibandosi poi del
corpo di Cristo nella santa comunione, mostrano concretamente la unità
del popolo di Dio, che da questo augustissimo sacramento è adeguatamente
espressa e mirabilmente effettuata.
Quelli che si accostano al sacramento della penitenza, ricevono dalla
misericordia di Dio il perdono delle offese fatte a lui; allo stesso tempo si
riconciliano con la Chiesa, alla quale hanno inflitto una ferita col peccato e
che coopera alla loro conversione con la carità, l'esempio e la
preghiera. Con la sacra unzione degli infermi e la preghiera dei sacerdoti,
tutta la Chiesa raccomanda gli ammalati al Signore sofferente e glorificato,
perché alleggerisca le loro pene e li salvi (cfr. Gc 5,14-16), anzi li
esorta a unirsi spontaneamente alla passione e morte di Cristo (cfr. Rm 8,17;
Col 1,24), per contribuire così al bene del popolo di Dio. Inoltre,
quelli tra i fedeli che vengono insigniti dell'ordine sacro sono posti in nome
di Cristo a pascere la Chiesa colla parola e la grazia di Dio. E infine i
coniugi cristiani, in virtù del sacramento del matrimonio, col quale
significano e partecipano il mistero di unità e di fecondo amore che
intercorre tra Cristo e la Chiesa (cfr. Ef 5,32), si aiutano a vicenda per
raggiungere la santità nella vita coniugale; accettando ed educando la
prole essi hanno così, nel loro stato di vita e nella loro funzione, il
proprio dono in mezzo al popolo di Dio (cfr. 1 Cor 7,7). Da questa missione,
infatti, procede la famiglia, nella quale nascono i nuovi cittadini della società
umana, i quali per la grazia dello Spirito Santo diventano col battesimo figli
di Dio e perpetuano attraverso i secoli il suo popolo. In questa che si potrebbe
chiamare Chiesa domestica, i genitori devono essere per i loro figli i primi
maestri della fede e secondare la vocazione propria di ognuno, quella sacra in
modo speciale.
Muniti di salutari mezzi di una tale abbondanza e d'una tale grandezza,
tutti i fedeli d'ogni stato e condizione sono chiamati dal Signore, ognuno per
la sua via, a una santità, la cui perfezione è quella stessa del
Padre celeste.
Il senso della fede e i carismi nel popolo di Dio
12. Il popolo santo di Dio partecipa pure dell'ufficio profetico di Cristo
col diffondere dovunque la viva testimonianza di lui, soprattutto per mezzo di
una vita di fede e di carità, e coll'offrire a Dio un sacrificio di lode,
cioè frutto di labbra acclamanti al nome suo (cfr. Eb 13,15). La totalità
dei fedeli, avendo l'unzione che viene dal Santo, (cfr. 1 Gv 2,20 e 27), non può
sbagliarsi nel credere, e manifesta questa sua proprietà mediante il
senso soprannaturale della fede di tutto il popolo, quando « dai vescovi
fino agli ultimi fedeli laici » mostra l'universale suo consenso in cose di
fede e di morale. E invero, per quel senso della fede, che è suscitato e
sorretto dallo Spirito di verità, e sotto la guida del sacro magistero,
il quale permette, se gli si obbedisce fedelmente, di ricevere non più
una parola umana, ma veramente la parola di Dio (cfr. 1 Ts 2,13), il popolo di
Dio aderisce indefettibilmente alla fede trasmessa ai santi una volta per tutte
(cfr. Gdc 3), con retto giudizio penetra in essa più a fondo e più
pienamente l'applica nella vita.
Inoltre lo Spirito Santo non si limita a santificare e a guidare il popolo
di Dio per mezzo dei sacramenti e dei ministeri, e ad adornarlo di virtù,
ma « distribuendo a ciascuno i propri doni come piace a lui » (1 Cor
12,11), dispensa pure tra i fedeli di ogni ordine grazie speciali, con le quali
li rende adatti e pronti ad assumersi vari incarichi e uffici utili al
rinnovamento e alla maggiore espansione della Chiesa secondo quelle parole: «
A ciascuno la manifestazione dello Spirito è data perché torni a
comune vantaggio » (1 Cor 12,7). E questi carismi, dai più
straordinari a quelli più semplici e più largamente diffusi,
siccome sono soprattutto adatti alle necessità della Chiesa e destinati a
rispondervi, vanno accolti con gratitudine e consolazione. Non bisogna però
chiedere imprudentemente i doni straordinari, né sperare da essi con
presunzione i frutti del lavoro apostolico. Il giudizio sulla loro genuinità
e sul loro uso ordinato appartiene a coloro che detengono l'autorità
nella Chiesa; ad essi spetta soprattutto di non estinguere lo Spirito, ma di
esaminare tutto e ritenere ciò che è buono (cfr. 1 Ts 5,12 e
19-21).
L'unico popolo di Dio è universale
13. Tutti gli uomini sono chiamati a formare il popolo di Dio. Perciò
questo popolo, pur restando uno e unico, si deve estendere a tutto il mondo e a
tutti i secoli, affinché si adempia l'intenzione della volontà di
Dio, il quale in principio creò la natura umana una e volle infine
radunare insieme i suoi figli dispersi (cfr. Gv 11,52). A questo scopo Dio mandò
il Figlio suo, al quale conferì il dominio di tutte le cose (cfr. Eb
1,2), perché fosse maestro, re e sacerdote di tutti, capo del nuovo e
universale popolo dei figli di Dio. Per questo infine Dio mandò lo
Spirito del Figlio suo, Signore e vivificatore, il quale per tutta la Chiesa e
per tutti e singoli i credenti è principio di associazione e di unità,
nell'insegnamento degli apostoli e nella comunione fraterna, nella frazione del
pane e nelle preghiere (cfr. At 2,42).
In tutte quindi le nazioni della terra è radicato un solo popolo di
Dio, poiché di mezzo a tutte le stirpi egli prende i cittadini del suo
regno non terreno ma celeste. E infatti tutti i fedeli sparsi per il mondo sono
in comunione con gli altri nello Spirito Santo, e così « chi sta in
Roma sa che gli Indi sono sue membra ». Siccome dunque il regno di Cristo
non è di questo mondo (cfr. Gv 18,36), la Chiesa, cioè il popolo
di Dio, introducendo questo regno nulla sottrae al bene temporale di qualsiasi
popolo, ma al contrario favorisce e accoglie tutte le ricchezze, le risorse e le
forme di vita dei popoli in ciò che esse hanno di buono e accogliendole
le purifica, le consolida ed eleva. Essa si ricorda infatti di dover far opera
di raccolta con quel Re, al quale sono state date in eredità le genti
(cfr. Sal 2,8), e nella cui città queste portano i loro doni e offerte
(cfr. Sal 71 (72),10; Is 60,4-7). Questo carattere di universalità, che
adorna e distingue il popolo di Dio è dono dello stesso Signore, e con
esso la Chiesa cattolica efficacemente e senza soste tende a ricapitolare tutta
l'umanità, con tutti i suoi beni, in Cristo capo, nell'unità dello
Spirito di lui.
In virtù di questa cattolicità, le singole parti portano i
propri doni alle altre parti e a tutta la Chiesa, in modo che il tutto e le
singole parti si accrescono per uno scambio mutuo universale e per uno sforzo
comune verso la pienezza nell'unità. Ne consegue che il popolo di Dio non
solo si raccoglie da diversi popoli, ma nel suo stesso interno si compone di
funzioni diverse. Poiché fra i suoi membri c'è diversità
sia per ufficio, essendo alcuni impegnati nel sacro ministero per il bene dei
loro fratelli, sia per la condizione e modo di vita, dato che molti nello stato
religioso, tendendo alla santità per una via più stretta, sono un
esempio stimolante per i loro fratelli. Così pure esistono legittimamente
in seno alla comunione della Chiesa, le Chiese particolari, con proprie
tradizioni, rimanendo però integro il primato della cattedra di Pietro,
la quale presiede alla comunione universale di carità, tutela le varietà
legittime e insieme veglia affinché ciò che è particolare,
non solo non pregiudichi l'unità, ma piuttosto la serva. E infine ne
derivano, tra le diverse parti della Chiesa, vincoli di intima comunione circa i
tesori spirituali, gli operai apostolici e le risorse materiali. I membri del
popolo di Dio sono chiamati infatti a condividere i beni e anche alle singole
Chiese si applicano le parole dell'Apostolo: « Da bravi amministratori
della multiforme grazia di Dio, ognuno di voi metta a servizio degli altri il
dono che ha ricevuto» (1 Pt 4,10).
Tutti gli uomini sono quindi chiamati a questa cattolica unità del
popolo di Dio, che prefigura e promuove la pace universale; a questa unità
in vario modo appartengono o sono ordinati sia i fedeli cattolici, sia gli altri
credenti in Cristo, sia infine tutti gli uomini senza eccezione, che la grazia
di Dio chiama alla salvezza.
I fedeli cattolici
14. Il santo Concilio si rivolge quindi prima di tutto ai fedeli cattolici.
Esso, basandosi sulla sacra Scrittura e sulla tradizione, insegna che questa
Chiesa peregrinante è necessaria alla salvezza. Solo il Cristo, infatti,
presente in mezzo a noi nel suo corpo che è la Chiesa, è il
mediatore e la via della salvezza; ora egli stesso, inculcando espressamente la
necessità della fede e del battesimo (cfr. Gv 3,5), ha nello stesso tempo
confermato la necessità della Chiesa, nella quale gli uomini entrano per
il battesimo come per una porta. Perciò non possono salvarsi quegli
uomini, i quali, pur non ignorando che la Chiesa cattolica è stata
fondata da Dio per mezzo di Gesù Cristo come necessaria, non vorranno
entrare in essa o in essa perseverare. Sono pienamente incorporati nella società
della Chiesa quelli che, avendo lo Spirito di Cristo, accettano integralmente la
sua organizzazione e tutti i mezzi di salvezza in essa istituiti, e che inoltre,
grazie ai legami costituiti dalla professione di fede, dai sacramenti, dal
governo ecclesiastico e dalla comunione, sono uniti, nell'assemblea visibile
della Chiesa, con il Cristo che la dirige mediante il sommo Pontefice e i
vescovi. Non si salva, però, anche se incorporato alla Chiesa, colui che,
non perseverando nella carità, rimane sì in seno alla Chiesa col «corpo»,
ma non col «cuore». Si ricordino bene tutti i figli della Chiesa che
la loro privilegiata condizione non va ascritta ai loro meriti, ma ad una
speciale grazia di Cristo; per cui, se non vi corrispondono col pensiero, con le
parole e con le opere, non solo non si salveranno, ma anzi saranno più
severamente giudicati.
I catecumeni che per impulso dello Spirito Santo desiderano ed
espressamente vogliono essere incorporati alla Chiesa, vengono ad essa congiunti
da questo stesso desiderio, e la madre Chiesa li avvolge come già suoi
con il proprio amore e con le proprie cure.
I cristiani non cattolici e la Chiesa
15. La Chiesa sa di essere per più ragioni congiunta con coloro che,
essendo battezzati, sono insigniti del nome cristiano, ma non professano
integralmente la fede o non conservano l'unità di comunione sotto il
successore di Pietro. Ci sono infatti molti che hanno in onore la sacra
Scrittura come norma di fede e di vita, manifestano un sincero zelo religioso,
credono amorosamente in Dio Padre onnipotente e in Cristo, figlio di Dio e
salvatore, sono segnati dal battesimo, col quale vengono congiunti con Cristo,
anzi riconoscono e accettano nelle proprie Chiese o comunità ecclesiali
anche altri sacramenti. Molti fra loro hanno anche l'episcopato, celebrano la
sacra eucaristia e coltivano la devozione alla vergine Madre di Dio. A questo si
aggiunge la comunione di preghiere e di altri benefici spirituali; anzi, una
certa vera unione nello Spirito Santo, poiché anche in loro egli opera
con la sua virtù santificante per mezzo di doni e grazie e ha dato ad
alcuni la forza di giungere fino allo spargimento del sangue. Così lo
Spirito suscita in tutti i discepoli di Cristo desiderio e attività,
affinché tutti, nel modo da Cristo stabilito, pacificamente si uniscano
in un solo gregge sotto un solo Pastore. E per ottenere questo la madre Chiesa
non cessa di pregare, sperare e operare, esortando i figli a purificarsi e
rinnovarsi perché l'immagine di Cristo risplenda più chiara sul
volto della Chiesa.
I non cristiani e la Chiesa
16. Infine, quanto a quelli che non hanno ancora ricevuto il Vangelo,
anch'essi in vari modi sono ordinati al popolo di Dio. In primo luogo quel
popolo al quale furono-dati i testamenti e le promesse e dal quale Cristo è
nato secondo la carne (cfr. Rm 9,4-5), popolo molto amato in ragione della
elezione, a causa dei padri, perché i doni e la chiamata di Dio sono
irrevocabili (cfr. Rm 11,28-29). Ma il disegno di salvezza abbraccia anche
coloro che riconoscono il Creatore, e tra questi in particolare i musulmani, i
quali, professando di avere la fede di Abramo, adorano con noi un Dio unico,
misericordioso che giudicherà gli uomini nel giorno finale. Dio non e
neppure lontano dagli altri che cercano il Dio ignoto nelle ombre e sotto le
immagini, poiché egli dà a tutti la vita e il respiro e ogni cosa
(cfr At 1,7,25-26), e come Salvatore vuole che tutti gli uomini si salvino (cfr.
1 Tm 2,4). Infatti, quelli che senza colpa ignorano il Vangelo di Cristo e la
sua Chiesa ma che tuttavia cercano sinceramente Dio e coll'aiuto della grazia si
sforzano di compiere con le opere la volontà di lui, conosciuta
attraverso il dettame della coscienza, possono conseguire la salvezza eterna. Né
la divina Provvidenza nega gli aiuti necessari alla salvezza a coloro che non
sono ancora arrivati alla chiara cognizione e riconoscimento di Dio, ma si
sforzano, non senza la grazia divina, di condurre una vita retta. Poiché
tutto ciò che di buono e di vero si trova in loro è ritenuto dalla
Chiesa come una preparazione ad accogliere il Vangelo e come dato da colui che
illumina ogni uomo, affinché abbia finalmente la vita. Ma molto spesso
gli uomini, ingannati dal maligno, hanno errato nei loro ragionamenti e hanno
scambiato la verità divina con la menzogna, servendo la creatura
piuttosto che il Creatore (cfr. Rm 1,21 e 25), oppure, vivendo e morendo senza
Dio in questo mondo, sono esposti alla disperazione finale. Perciò la
Chiesa per promuovere la gloria di Dio e la salute di tutti costoro, memore del
comando del Signore che dice: « Predicate il Vangelo ad ogni creatura»
(Mc 16,15), mette ogni cura nell'incoraggiare e sostenere le missioni.
Carattere missionario della Chiesa
17. Come infatti il Figlio è stato mandato dal Padre, così ha
mandato egli stesso gli apostoli (cfr. Gv 20,21) dicendo: «Andate dunque e
ammaestrate tutte le genti, battezzandole nel nome del Padre e del Figlio e
dello Spirito Santo, insegnando loro ad osservare tutto quanto vi ho comandato.
Ed ecco, io sono con voi tutti i giorni, sino alla fine del mondo » (Mt
28,18-20). E questo solenne comando di Cristo di annunziare la verità
salvifica, la Chiesa l'ha ricevuto dagli apostoli per proseguirne l'adempimento
sino all'ultimo confine della terra (cfr. At 1,8). Essa fa quindi sue le parole
dell'apostolo: « Guai... a me se non predicassi! » (l Cor 9,16) e
continua a mandare araldi del Vangelo, fino a che le nuove Chiese siano
pienamente costituite e continuino a loro volta l'opera di evangelizzazione. È
spinta infatti dallo Spirito Santo a cooperare perché sia compiuto il
piano di Dio, il quale ha costituito Cristo principio della salvezza per il
mondo intero. Predicando il Vangelo, la Chiesa dispone coloro che l'ascoltano a
credere e a professare la fede, li dispone al battesimo, li toglie dalla
schiavitù dell'errore e li incorpora a Cristo per crescere in lui
mediante la carità finché sia raggiunta la pienezza. Procura poi
che quanto di buono si trova seminato nel cuore e nella mente degli uomini o nei
riti e culture proprie dei popoli, non solo non vada perduto, ma sia purificato,
elevato e perfezionato a gloria di Dio, confusione del demonio e felicità
dell'uomo. Ad ogni discepolo di Cristo incombe il dovere di disseminare, per
quanto gli è possibile, la fede. Ma se ognuno può conferire il
battesimo ai credenti, è tuttavia ufficio del sacerdote di completare
l'edificazione del corpo col sacrificio eucaristico, adempiendo le parole dette
da Dio per mezzo del profeta: « Da dove sorge il sole fin dove tramonta,
grande è il mio Nome tra le genti e in ogni luogo si offre al mio Nome un
sacrificio e un'offerta pura ». Così la Chiesa unisce preghiera e
lavoro, affinché il mondo intero in tutto il suo essere sia trasformato
in popolo di Dio, corpo mistico di Cristo e tempio dello Spirito Santo, e in
Cristo, centro di tutte le cose, sia reso ogni onore e gloria al Creatore e
Padre dell'universo.
CAPITOLO III
COSTITUZIONE GERARCHICA DELLA CHIESA E IN PARTICOLARE
DELL'EPISCOPATO
Proemio
18. Cristo Signore, per pascere e sempre più accrescere il popolo di
Dio, ha stabilito nella sua Chiesa vari ministeri, che tendono al bene di tutto
il corpo. I ministri infatti che sono rivestiti di sacra potestà, servono
i loro fratelli, perché tutti coloro che appartengono al popolo di Dio, e
perciò hanno una vera dignità cristiana, tendano liberamente e
ordinatamente allo stesso fine e arrivino alla salvezza. Questo santo Sinodo,
sull'esempio del Concilio Vaticano primo, insegna e dichiara che Gesù
Cristo, pastore eterno, ha edificato la santa Chiesa e ha mandato gli apostoli,
come egli stesso era stato mandato dal Padre (cfr. Gv 20,21), e ha voluto che i
loro successori, cioè i vescovi, fossero nella sua Chiesa pastori fino
alla fine dei secoli. Affinché poi lo stesso episcopato fosse uno e
indiviso, prepose agli altri apostoli il beato Pietro e in lui stabilì il
principio e il fondamento perpetuo e visibile dell'unità di fede e di
comunione. Questa dottrina della istituzione, della perpetuità, del
valore e della natura del sacro primato del romano Pontefice e del suo
infallibile magistero, il santo Concilio la propone di nuovo a tutti i fedeli
come oggetto certo di fede. Di più proseguendo nel disegno incominciato,
ha stabilito di enunciare ed esplicitare la dottrina sui vescovi, successori
degli apostoli, i quali col successore di Pietro, vicario di Cristo e capo
visibile di tutta la Chiesa, reggono la casa del Dio vivente.
L'istituzione dei dodici
19. Il Signore Gesù, dopo aver pregato il Padre, chiamò a sé
quelli che egli volle, e ne costituì dodici perché stessero con
lui e per mandarli a predicare il regno di Dio (cfr. Mc 3,13-19; Mt 10,1-42); ne
fece i suoi apostoli (cfr. Lc 6,13) dando loro la forma di collegio, cioè
di un gruppo stabile, del quale mise a capo Pietro, scelto di mezzo a loro (cfr.
Gv 21 15-17). Li mandò prima ai figli d'Israele e poi a tutte le genti
(cfr. Rm 1,16) affinché, partecipi del suo potere, rendessero tutti i
popoli suoi discepoli, li santificassero e governassero (cfr. Mt 28,16-20; Mc
16,15; Lc 24,45-48), diffondendo così la Chiesa e, sotto la guida del
Signore, ne fossero i ministri e i pastori, tutti i giorni sino alla fine del
mondo (cfr. Mt 28,20). In questa missione furono pienamente confermati il giorno
di Pentecoste (cfr. At 2,1-36) secondo la promessa del Signore: «
Riceverete una forza, quella dello Spirito Santo che discenderà su di
voi, e mi sarete testimoni a Gerusalemme, in tutta la Giudea e la Samaria, e
sino alle estremità della terra » (At 1,8). Gli apostoli, quindi,
predicando dovunque il Vangelo (cfr. Mc 16,20), accolto dagli uditori grazie
all'azione dello Spirito Santo, radunano la Chiesa universale che il Signore ha
fondato su di essi e edificato sul beato Pietro, loro capo, con Gesù
Cristo stesso come pietra maestra angolare (cfr. Ap 21,14; Mt 16,18; Ef 2,20).
I vescovi, successori degli apostoli
20. La missione divina affidata da Cristo agli apostoli durerà fino
alla fine dei secoli (cfr. Mt 28,20), poiché il Vangelo che essi devono
predicare è per la Chiesa il principio di tutta la sua vita in ogni
tempo. Per questo gli apostoli, in questa società gerarchicamente
ordinata, ebbero cura di istituire dei successori.
Infatti, non solo ebbero vari collaboratori nel ministero ma perché
la missione loro affidata venisse continuata dopo la loro morte, affidarono,
quasi per testamento, ai loro immediati cooperatori l'ufficio di completare e
consolidare l'opera da essi incominciata raccomandando loro di attendere a tutto
il gregge nel quale lo Spirito Santo li aveva posti a pascere la Chiesa di Dio
(cfr. At 20,28). Perciò si scelsero di questi uomini e in seguito diedero
disposizione che dopo la loro morte altri uomini subentrassero al loro posto Fra
i vari ministeri che fin dai primi tempi si esercitano nella Chiesa, secondo la
testimonianza della tradizione, tiene il primo posto l'ufficio di quelli che
costituiti nell'episcopato, per successione che decorre ininterrotta fin dalle
origini sono i sacramenti attraverso i quali si trasmette il seme apostolico.
Così, come attesta S. Ireneo, per mezzo di coloro che gli apostoli
costituirono vescovi e dei loro successori fino a noi, la tradizione apostolica
in tutto il mondo è manifestata e custodita .
I vescovi dunque hanno ricevuto il ministero della comunità per
esercitarlo con i loro collaboratori, sacerdoti e diaconi. Presiedono in luogo
di Dio al gregge di cui sono pastori quali maestri di dottrina, sacerdoti del
sacro culto, ministri del governo della Chiesa. Come quindi è permanente
l'ufficio dal Signore concesso singolarmente a Pietro, il primo degli apostoli,
e da trasmettersi ai suoi successori, cosi è permanente l'ufficio degli
apostoli di pascere la Chiesa, da esercitarsi in perpetuo dal sacro ordine dei
vescovi. Perciò il sacro Concilio insegna che i vescovi per divina
istituzione sono succeduti al posto degli apostoli quali pastori della Chiesa, e
che chi li ascolta, ascolta Cristo, chi li disprezza, disprezza Cristo e colui
che ha mandato Cristo (cfr. Lc 10,16).
Sacramentalità dell'episcopato
21. Nella persona quindi dei vescovi, assistiti dai sacerdoti, è
presente in mezzo ai credenti il Signore Gesù Cristo, pontefice sommo.
Pur sedendo infatti alla destra di Dio Padre, egli non cessa di essere presente
alla comunità dei suoi pontefici in primo luogo, per mezzo dell'eccelso
loro ministero, predica la parola di Dio a tutte le genti e continuamente
amministra ai credenti i sacramenti della fede; per mezzo del loro ufficio
paterno (cfr. 1 Cor 4,15) integra nuove membra al suo corpo con la rigenerazione
soprannaturale; e infine, con la loro sapienza e prudenza, dirige e ordina il
popolo del Nuovo Testamento nella sua peregrinazione verso l'eterna beatitudine.
Questi pastori, scelti a pascere il gregge del Signore, sono ministri di Cristo
e dispensatori dei misteri di Dio (cfr. 1 Cor 4,1). Ad essi è stata
affidata la testimonianza al Vangelo della grazia di Dio (cfr. Rm 15,16; At
20,24) e il glorioso ministero dello Spirito e della giustizia (cfr. 2 Cor
3,8-9).
Per compiere cosi grandi uffici, gli apostoli sono stati arricchiti da
Cristo con una effusione speciale dello Spirito Santo disceso su loro (cfr. At
1,8; 2,4; Gv 20,22-23), ed essi stessi con la imposizione delle mani diedero
questo dono spirituale ai loro collaboratori (cfr. 1 Tm 4,14; 2 Tm 1,6-7), dono
che è stato trasmesso fino a noi nella consacrazione episcopale. Il santo
Concilio insegna quindi che con la consacrazione episcopale viene conferita la
pienezza del sacramento dell'ordine, quella cioè che dalla consuetudine
liturgica della Chiesa e dalla voce dei santi Padri viene chiamata sommo
sacerdozio, realtà totale del sacro ministero. La consacrazione
episcopale conferisce pure, con l'ufficio di santificare, gli uffici di
insegnare e governare; questi però, per loro natura, non possono essere
esercitati se non nella comunione gerarchica col capo e con le membra del
collegio. Dalla tradizione infatti, quale risulta specialmente dai riti
liturgici e dall'uso della Chiesa sia d'Oriente che d'Occidente, consta
chiaramente che dall'imposizione delle mani e dalle parole della consacrazione è
conferita la grazia dello Spirito Santo ed è impresso il sacro carattere
in maniera tale che i vescovi, in modo eminente e visibile, tengono il posto
dello stesso Cristo maestro, pastore e pontefice, e agiscono in sua vece. È
proprio dei vescovi assumere col sacramento dell'ordine nuovi eletti nel corpo
episcopale.
Il collegio dei vescovi e il suo capo
22. Come san Pietro e gli altri apostoli costituiscono, per volontà
del Signore, un unico collegio apostolico, similmente il romano Pontefice,
successore di Pietro, e i vescovi, successori degli apostoli, sono uniti tra
loro. Già l'antichissima disciplina, in virtù della quale i
vescovi di tutto il mondo vivevano in comunione tra loro e col vescovo di Roma
nel vincolo dell'unità, della carità e della pace e parimenti la
convocazione dei Concili per decidere in comune di tutte le questioni più
importanti mediante una decisione che l'opinione dell'insieme permetteva di
equilibrare significano il carattere e la natura collegiale dell'ordine
episcopale, che risulta manifestamente confermata dal fatto dei Concili
ecumenici tenuti lungo i secoli. La stessa è pure suggerita dall'antico
uso di convocare più vescovi per partecipare all elevazione del nuovo
eletto al ministero del sommo sacerdozio. Uno è costituito membro del
corpo episcopale in virtù della consacrazione sacramentale e mediante la
comunione gerarchica col capo del collegio e con le sue membra.
Il collegio o corpo episcopale non ha però autorità, se non lo
si concepisce unito al Pontefice romano, successore di Pietro, quale suo capo, e
senza pregiudizio per la sua potestà di primato su tutti, sia pastori che
fedeli. Infatti il romano Pontefice, in forza tutta la Chiesa, ha su questa una
potestà piena, suprema e universale, che può sempre esercitare
liberamente. D'altra parte, l'ordine dei vescovi, il quale succede al collegio
degli apostoli nel magistero e nel governo pastorale, anzi, nel quale si
perpetua il corpo apostolico, è anch'esso insieme col suo capo il romano
Pontefice, e mai senza questo capo, il soggetto di una suprema e piena potestà
su tutta la Chiesa sebbene tale potestà non possa essere esercitata se
non col consenso del romano Pontefice. Il Signore ha posto solo Simone come
pietra e clavigero della Chiesa (cfr. Mt 16,18-19), e lo ha costituito pastore
di tutto il suo gregge (cfr. Gv 21,15 ss); ma l'ufficio di legare e di
sciogliere, che è stato dato a Pietro (cfr. Mt 16,19), è noto
essere stato pure concesso al collegio degli apostoli, congiunto col suo capo
(cfr. Mt 18,18; 28,16-20). Questo collegio, in quanto composto da molti, esprime
la varietà e l'universalità del popolo di Dio; in quanto poi è
raccolto sotto un solo capo, significa l'unità del gregge di Cristo. In
esso i vescovi, rispettando fedelmente il primato e la preminenza del loro capo,
esercitano la propria potestà per il bene dei loro fedeli, anzi di tutta
la Chiesa, mente lo Spirito Santo costantemente consolida la sua struttura
organica e la sua concordia. La suprema potestà che questo collegio
possiede su tutta la Chiesa, è esercitata in modo solenne nel Concilio
ecumenico. Mai può esserci Concilio ecumenico, che come tale non sia
confermato o almeno accettato dal successore di Pietro; ed è prerogativa
del romano Pontefice convocare questi Concili, presiederli e confermarli. La
stessa potestà collegiale insieme col papa può essere esercitata
dai vescovi sparsi per il mondo, purché il capo del collegio li chiami ad
agire collegialmente, o almeno approvi o liberamente accetti l'azione congiunta
dei vescovi dispersi, così da risultare un vero atto collegiale.
Le relazioni all'interno del collegio episcopale
23. L'unità collegiale appare anche nelle mutue relazioni dei singoli
vescovi con Chiese particolari e con la Chiesa universale. Il romano Pontefice,
quale successore di Pietro, è il perpetuo e visibile principio e
fondamento dell'unità sia dei vescovi sia della massa dei fedeli. I
singoli vescovi, invece, sono il visibile principio e fondamento di unità
nelle loro Chiese particolari queste sono formate ad immagine della Chiesa
universale, ed è in esse e a partire da esse che esiste la Chiesa
cattolica una e unica. Perciò i singoli vescovi rappresentano la propria
Chiesa, e tutti insieme col Papa rappresentano la Chiesa universale in un
vincolo di pace, di amore e di unità. I singoli vescovi, che sono
preposti a Chiese particolari, esercitano il loro pastorale governo sopra la
porzione del popolo di Dio che è stata loro affidata, non sopra le altre
Chiese né sopra la Chiesa universale. Ma in quanto membri del collegio
episcopale e legittimi successori degli apostoli, per istituzione e precetto di
Cristo sono tenuti ad avere per tutta la Chiesa una sollecitudine che, sebbene
non sia esercitata con atti di giurisdizione, contribuisce sommamente al bene
della Chiesa universale. Tutti i vescovi, infatti, devono promuovere e difendere
l'unità della fede e la disciplina comune all'insieme della Chiesa,
formare i fedeli all'amore per tutto il corpo mistico di Cristo, specialmente
delle membra povere, sofferenti e di quelle che sono perseguitate a causa della
giustizia (cfr. Mt 5,10), e infine promuovere ogni attività comune alla
Chiesa, specialmente nel procurare che la fede cresca e sorga per tutti gli
uomini la luce della piena verità. Del resto è certo che, reggendo
bene la propria Chiesa come una porzione della Chiesa universale, contribuiscono
essi stessi efficacemente al bene di tutto il corpo mistico, che è pure
il corpo delle Chiese.
La cura di annunziare il Vangelo in ogni parte della terra appartiene al
corpo dei pastori, ai quali tutti, in comune, Cristo diede il mandato, imponendo
un comune dovere, come già papa Celestino ricordava ai Padri del Concilio
Efesino. Quindi i singoli vescovi, per quanto lo permette l'esercizio del
particolare loro dovere, sono tenuti a collaborare tra di loro e col successore
di Pietro, al quale in modo speciale fu affidato l'altissimo ufficio di
propagare il nome cristiano. Con tutte le forze devono fornire alle missioni non
solo gli operai della messe, ma anche aiuti spirituali e materiali, sia da sé
direttamente, sia suscitando la fervida cooperazione dei fedeli. I vescovi,
infine, in universale comunione di carità, offrano volentieri il loro
fraterno aiuto alle altre Chiese, specialmente alle più vicine e più
povere, seguendo in questo il venerando esempio dell'antica Chiesa.
Per divina Provvidenza è avvenuto che varie Chiese, in vari luoghi
stabilite dagli apostoli e dai loro successori, durante i secoli si sono
costituite in vari raggruppamenti, organicamente congiunti, i quali, salva
restando l'unità della fede e l'unica costituzione divina della Chiesa
universale, godono di una propria disciplina, di un proprio uso liturgico, di un
proprio patrimonio teologico e spirituale. Alcune fra esse, soprattutto le
antiche Chiese patriarcali, quasi matrici della fede, ne hanno generate altre a
modo di figlie, colle quali restano fino ai nostri tempi legate da un più
stretto vincolo di carità nella vita sacramentale e nel mutuo rispetto
dei diritti e dei doveri. Questa varietà di Chiese locali tendenti
all'unità dimostra con maggiore evidenza la cattolicità della
Chiesa indivisa. In modo simile le Conferenze episcopali possono oggi portare un
molteplice e fecondo contributo acciocché il senso di collegialità
si realizzi concretamente.
Il ministero episcopale
24. I vescovi, quali successori degli apostoli, ricevono dal Signore, cui è
data ogni potestà in cielo e in terra, la missione d'insegnare a tutte le
genti e di predicare il Vangelo ad ogni creatura, affinché tutti gli
uomini, per mezzo della fede, del battesimo e dell'osservanza dei comandamenti,
ottengano la salvezza (cfr. Mt 28,18-20; Mc 16,15-16; At 26,17 ss). Per compiere
questa missione, Cristo Signore promise agli apostoli lo Spirito Santo e il
giorno di Pentecoste lo mandò dal cielo, perché con la sua forza
essi gli fossero testimoni fino alla estremità della terra, davanti alle
nazioni e ai popoli e ai re (cfr. At 1,8; 2,1 ss; 9,15). L'ufficio poi che il
Signore affidò ai pastori del suo popolo, è un vero servizio, che
nella sacra Scrittura è chiamato significativamente « diaconia »,
cioè ministero (cfr. At 1,17 e 25; 21,19; Rm 11,13; 1 Tm 1,12).
La missione canonica dei vescovi può essere data per mezzo delle
legittime consuetudini, non revocate dalla suprema e universale potestà
della Chiesa, o per mezzo delle leggi fatte dalla stessa autorità o da
essa riconosciute, oppure direttamente dallo stesso successore di Pietro; se
questi rifiuta o nega la comunione apostolica, i vescovi non possono essere
assunti all'ufficio.
La funzione d'insegnamento dei vescovi
25. Tra i principali doveri dei vescovi eccelle la predicazione del Vangelo.
I vescovi, infatti, sono gli araldi della fede che portano a Cristo nuovi
discepoli; sono dottori autentici, cioè rivestiti dell'autorità di
Cristo, che predicano al popolo loro affidato la fede da credere e da applicare
nella pratica della vita, la illustrano alla luce dello Spirito Santo, traendo
fuori dal tesoro della Rivelazione cose nuove e vecchie (cfr. Mt 13,52), la
fanno fruttificare e vegliano per tenere lontano dal loro gregge gli errori che
lo minacciano (cfr. 2 Tm 4,1-4) . I vescovi che insegnano in comunione col
romano Pontefice devono essere da tutti ascoltati con venerazione quali
testimoni della divina e cattolica verità; e i fedeli devono accettare il
giudizio dal loro vescovo dato a nome di Cristo in cose di fede e morale, e
dargli l'assenso religioso del loro spirito. Ma questo assenso religioso della
volontà e della intelligenza lo si deve in modo particolare prestare al
magistero autentico del romano Pontefice, anche quando non parla « ex
cathedra ». Ciò implica che il suo supremo magistero sia accettato
con riverenza, e che con sincerità si aderisca alle sue affermazioni in
conformità al pensiero e in conformità alla volontà di lui
manifestatasi che si possono dedurre in particolare dal carattere dei documenti,
o dall'insistenza nel proporre una certa dottrina, o dalla maniera di
esprimersi.
Quantunque i vescovi, presi a uno a uno, non godano della prerogativa
dell'infallibilità, quando tuttavia, anche dispersi per il mondo, ma
conservando il vincolo della comunione tra di loro e col successore di Pietro,
si accordano per insegnare autenticamente che una dottrina concernente la fede e
i costumi si impone in maniera assoluta, allora esprimono infallibilmente la
dottrina di Cristo. La cosa è ancora più manifesta quando,
radunati in Concilio ecumenico, sono per tutta la Chiesa dottori e giudici della
fede e della morale; allora bisogna aderire alle loro definizioni con l'ossequio
della fede.
Questa infallibilità, della quale il divino Redentore volle
provveduta la sua Chiesa nel definire la dottrina della fede e della morale, si
estende tanto, quanto il deposito della divina Rivelazione, che deve essere
gelosamente custodito e fedelmente esposto. Di questa infallibilità il
romano Pontefice, capo del collegio dei vescovi, fruisce in virtù del suo
ufficio, quando, quale supremo pastore e dottore di tutti i fedeli che conferma
nella fede i suoi fratelli (cfr. Lc 22,32), sancisce con atto definitivo una
dottrina riguardante la fede e la morale. Perciò le sue definizioni
giustamente sono dette irreformabili per se stesse e non in virtù del
consenso della Chiesa, essendo esse pronunziate con l'assistenza dello Spirito
Santo a lui promessa nella persona di san Pietro, per cui non hanno bisogno di
una approvazione di altri, né ammettono appello alcuno ad altro giudizio.
In effetti allora il romano Pontefice pronunzia sentenza non come persona
privata, ma espone o difende la dottrina della fede cattolica quale supremo
maestro della Chiesa universale, singolarmente insignito del carisma
dell'infallibilità della Chiesa stessa. L'infallibilità promessa
alla Chiesa risiede pure nel corpo episcopale quando esercita il supremo
magistero col successore di Pietro. A queste definizioni non può mai
mancare l'assenso della Chiesa, data l'azione dello stesso Spirito Santo che
conserva e fa progredire nell'unità della fede tutto il gregge di Cristo.
Quando poi il romano Pontefice o il corpo dei vescovi con lui esprimono una
sentenza, la emettono secondo la stessa Rivelazione, cui tutti devono attenersi
e conformarsi, Rivelazione che è integralmente trasmessa per scritto o
per tradizione dalla legittima successione dei vescovi e specialmente a cura
dello stesso Pontefice romano, e viene nella Chiesa gelosamente conservata e
fedelmente esposta sotto la luce dello Spirito di verità. Perché
poi sia debitamente indagata ed enunziata in modo adatto, il romano Pontefice e
i vescovi nella coscienza del loro ufficio e della gravità della cosa,
prestano la loro vigile opera usando i mezzi convenienti però non
ricevono alcuna nuova rivelazione pubblica come appartenente al deposito divino
della fede.
La funzione di santificazione
26. Il vescovo, insignito della pienezza del sacramento dell'ordine, è
« l'economo della grazia del supremo sacerdozio» specialmente
nell'eucaristia, che offre egli stesso o fa offrire e della quale la Chiesa
continuamente vive e cresce. Questa Chiesa di Cristo è veramente presente
nelle legittime comunità locali di fedeli, le quali, unite ai loro
pastori, sono anch'esse chiamate Chiese nel Nuovo Testamento. Esse infatti sono,
ciascuna nel proprio territorio, il popolo nuovo chiamato da Dio nello Spirito
Santo e in una grande fiducia (cfr. 1 Ts 1,5). In esse con la predicazione del
Vangelo di Cristo vengono radunati i fedeli e si celebra il mistero della Cena
del Signore, « affinché per mezzo della carne e del sangue del
Signore siano strettamente uniti tutti i fratelli della comunità».
In ogni comunità che partecipa all'altare, sotto la sacra presidenza del
vescovo viene offerto il simbolo di quella carità e « unità
del corpo mistico, senza la quale non può esserci salvezza». In
queste comunità, sebbene spesso piccole e povere e disperse, è
presente Cristo, per virtù del quale si costituisce la Chiesa una, santa,
cattolica e apostolica. Infatti « la partecipazione del corpo e del sangue
di Cristo altro non fa, se non che ci mutiamo in ciò che riceviamo ».
Ogni legittima celebrazione dell'eucaristia è diretta dal vescovo, al
quale è demandato il compito di prestare e regolare il culto della
religione cristiana alla divina Maestà, secondo i precetti del Signore e
le leggi della Chiesa, dal suo particolare giudizio ulteriormente determinante
per la propria diocesi. In questo modo i vescovi, con la preghiera e il lavoro
per il popolo, in varie forme effondono abbondantemente la pienezza della santità
di Cristo. Col ministero della parola comunicano la forza di Dio per la salvezza
dei credenti (cfr. Rm 1,16), e con i sacramenti, dei quali con la loro autorità
organizzano la regolare e fruttuosa distribuzione santificano i fedeli. Regolano
l'amministrazione del battesimo, col quale è concesso partecipare al
regale sacerdozio di Cristo. Sono i ministri originari della confermazione,
dispensatori degli ordini sacri e moderatori della disciplina penitenziale, e
con sollecitudine esortano e istruiscono le loro popolazioni, affinché
nella liturgia e specialmente nel santo sacrificio della messa compiano la loro
parte con fede e devozione. Devono, infine, coll'esempio della loro vita aiutare
quelli a cui presiedono, serbando i loro costumi immuni da ogni male, e per
quanto possono, con l'aiuto di Dio mutandoli in bene, onde possano, insieme col
gregge loro affidato, giungere alla vita eterna.
La funzione di governo
27. I vescovi reggono le Chiese particolari a loro affidate come vicari e
legati di Cristo, col consiglio, la persuasione, l'esempio, ma anche con
l'autorità e la sacra potestà, della quale però non si
servono se non per edificare il proprio gregge nella verità e nella
santità, ricordandosi che chi è più grande si deve fare
come il più piccolo, e chi è il capo, come chi serve (cfr. Lc
22,26-27). Questa potestà, che personalmente esercitano in nome di
Cristo, è propria, ordinaria e immediata, quantunque il suo esercizio sia
in ultima istanza sottoposto alla suprema autorità della Chiesa e, entro
certi limiti, in vista dell'utilità della Chiesa o dei fedeli, possa
essere ristretto. In virtù di questa potestà i vescovi hanno il
sacro diritto e davanti al Signore il dovere di dare leggi ai loro sudditi, di
giudicare e di regolare tutto quanto appartiene al culto e all'apostolato.
Ad essi è pienamente affidato l'ufficio pastorale ossia l'abituale e
quotidiana cura del loro gregge; né devono essere considerati vicari dei
romani Pontefici, perché sono rivestiti di autorità propria e con
tutta verità sono detti « sovrintendenti delle popolazioni »
che governano. La loro potestà quindi non è annullata dalla potestà
suprema e universale, ma anzi è da essa affermata, corroborata e
rivendicata, poiché è lo Spirito Santo che conserva invariata la
forma di governo da Cristo Signore stabilita nella sua Chiesa.
Il vescovo, mandato dal padre di famiglia a governare la sua famiglia,
tenga innanzi agli occhi l'esempio del buon Pastore, che è venuto non per
essere servito ma per servire (cfr. Mt 20,28; Mc 10,45) e dare la sua vita per
le pecore (cfr. Gv 10,11). Preso di mezzo agli uomini e soggetto a debolezza, può
benignamente compatire gli ignoranti o gli sviati (cfr. Eb 5,1-2). Non rifugga
dall'ascoltare quelli che dipendono da lui, curandoli come veri figli suoi ed
esortandoli a cooperare alacremente con lui. Dovendo render conto a Dio delle
loro anime (cfr. Eb 13,17), abbia cura di loro con la preghiera, la predicazione
e ogni opera di carità; la sua sollecitudine si estenda anche a quelli
che non fanno ancor parte dell'unico gregge e li consideri come affidatigli dal
Signore. Essendo egli, come l'apostolo Paolo, debitore a tutti, sia pronto ad
annunziare il Vangelo a tutti (cfr. Rrn 1,14-15) e ad esortare i suoi fedeli
all'attività apostolica e missionaria. I fedeli poi devono aderire al
vescovo come la Chiesa a Gesù Cristo e come Gesù Cristo al Padre,
affinché tutte le cose siano concordi e unite 61 e siano feconde per la
gloria di Dio (cfr. 2 Cor 4,15).
I sacerdoti e i loro rapporti con Cristo, con i vescovi, con i
confratelli e con il popolo cristiano
28. Cristo, santificato e mandato nel mondo dal Padre (cfr. Gv 10,36), per
mezzo degli apostoli ha reso partecipi della sua consacrazione e della sua
missione i loro successori, cioè i vescovi a loro volta i vescovi hanno
legittimamente affidato a vari membri della Chiesa, in vario grado, l'ufficio
del loro ministero. Così il ministero ecclesiastico di istituzione divina
viene esercitato in diversi ordini, da quelli che già anticamente sono
chiamati vescovi, presbiteri, diaconi. I presbiteri, pur non possedendo l'apice
del sacerdozio e dipendendo dai vescovi nell'esercizio della loro potestà,
sono tuttavia a loro congiunti nella dignità sacerdotale e in virtù
del sacramento dell'ordine ad immagine di Cristo, sommo ed eterno sacerdote
(cfr. Eb 5,1-10; 7,24; 9,11-28), sono consacrati per predicare il Vangelo,
essere i pastori fedeli e celebrare il culto divino, quali veri sacerdoti del
Nuovo Testamento. Partecipi, nel loro grado di ministero, dell'ufficio
dell'unico mediatore, che è il Cristo (cfr. 1 Tm 2,5) annunziano a tutti
la parola di Dio. Esercitano il loro sacro ministero soprattutto nel culto
eucaristico o sinassi, dove, agendo in persona di Cristo e proclamando il suo
mistero, uniscono le preghiere dei fedeli al sacrificio del loro capo e nel
sacrificio della messa rendono presente e applicano fino alla venuta del Signore
(cfr. 1 Cor 11,26), l'unico sacrificio del Nuovo Testamento, quello cioè
di Cristo, il quale una volta per tutte offrì se stesso al Padre quale
vittima immacolata (cfr. Eb 9,11-28). Esercitano inoltre il ministero della
riconciliazione e del conforto a favore dei fedeli penitenti o ammalati e
portano a Dio Padre le necessità e le preghiere dei fedeli (cfr. Eb
5,1-4). Esercitando, secondo la loro parte di autorità, l'ufficio di
Cristo, pastore e capo, raccolgono la famiglia di Dio, quale insieme di fratelli
animati da un solo spirito, per mezzo di Cristo nello Spirito li portano al
Padre e in mezzo al loro gregge lo adorano in spirito e verità (cfr. Gv
4,24). Si affaticano inoltre nella predicazione e nell'insegnamento (cfr. 1 Tm
5,17), credendo ciò che hanno letto e meditato nella legge del Signore,
insegnando ciò che credono, vivendo ciò che insegnano.
I sacerdoti, saggi collaboratori dell'ordine episcopale e suo aiuto e
strumento, chiamati a servire il popolo di Dio, costituiscono col loro vescovo
un solo presbiterio sebbene destinato a uffici diversi. Nelle singole comunità
locali di fedeli rendono in certo modo presente il vescovo, cui sono uniti con
cuore confidente e generoso, ne assumono secondo il loro grado, gli uffici e la
sollecitudine e li esercitano con dedizione quotidiana. Essi, sotto l'autorità
del vescovo, santificano e governano la porzione di gregge del Signore loro
affidata, nella loro sede rendono visibile la Chiesa universale e portano un
grande contributo all'edificazione di tutto il corpo mistico di Cristo (cfr. Ef
4,12). Sempre intenti al bene dei figli di Dio, devono mettere il loro zelo nel
contribuire al lavoro pastorale di tutta la diocesi, anzi di tutta la Chiesa. In
ragione di questa loro partecipazione nel sacerdozio e nel lavoro apostolico del
vescovo, i sacerdoti riconoscano in lui il loro padre e gli obbediscano con
rispettoso amore. Il vescovo, poi, consideri i sacerdoti, i suoi cooperatori,
come figli e amici così come il Cristo chiama i suoi discepoli non servi,
ma amici (cfr. Gv 15,15). Per ragione quindi dell'ordine e del ministero, tutti
i sacerdoti sia diocesani che religiosi, sono associati al corpo episcopale e,
secondo la loro vocazione e grazia, servono al bene di tutta la Chiesa.
In virtù della comunità di ordinazione e missione tutti i
sacerdoti sono fra loro legati da un'intima fraternità, che deve
spontaneamente e volentieri manifestarsi nel mutuo aiuto, spirituale e
materiale, pastorale e personale, nelle riunioni e nella comunione di vita, di
lavoro e di carità.
Abbiano poi cura, come padri in Cristo, dei fedeli che hanno spiritualmente
generato col battesimo e l'insegnamento (cfr. 1 Cor 4,15; 1 Pt 1,23). Divenuti
spontaneamente modelli del gregge (cfr. 1 Pt 5,3) presiedano e servano la loro
comunità locale, in modo che questa possa degnamente esser chiamata col
nome di cui è insignito l'unico popolo di Dio nella sua totalità,
cioè Chiesa di Dio (cfr. 1 Cor 1,2; 2 Cor 1,1). Si ricordino che devono,
con la loro quotidiana condotta e con la loro sollecitudine, presentare ai
fedeli e infedeli, cattolici e non cattolici, l'immagine di un ministero
veramente sacerdotale e pastorale, e rendere a tutti la testimonianza della
verità e della vita; e come buoni pastori ricercare anche quelli (cfr. Lc
15,4-7) che, sebbene battezzati nella Chiesa cattolica, hanno abbandonato la
pratica dei sacramenti o persino la fede.
Siccome oggigiorno l'umanità va sempre più organizzandosi in
una unità civile, economica e sociale, tanto più bisogna che i
sacerdoti, consociando il loro zelo e il loro lavoro sotto la guida dei vescovi
e del sommo Pontefice, eliminino ogni causa di dispersione, affinché
tutto il genere umano sia ricondotto all'unità della famiglia di Dio.
I diaconi
29. In un grado inferiore della gerarchia stanno i diaconi, ai quali sono
imposte le mani « non per il sacerdozio, ma per il servizio ».
Infatti, sostenuti dalla grazia sacramentale, nella « diaconia » della
liturgia, della predicazione e della carità servono il popolo di Dio, in
comunione col vescovo e con il suo presbiterio. È ufficio del diacono,
secondo le disposizioni della competente autorità, amministrare
solennemente il battesimo, conservare e distribuire l'eucaristia, assistere e
benedire il matrimonio in nome della Chiesa, portare il viatico ai moribondi,
leggere la sacra Scrittura ai fedeli, istruire ed esortare il popolo, presiedere
al culto e alla preghiera dei fedeli, amministrare i sacramentali, presiedere al
rito funebre e alla sepoltura. Essendo dedicati agli uffici di carità e
di assistenza, i diaconi si ricordino del monito di S. Policarpo: « Essere
misericordiosi, attivi, camminare secondo la verità del Signore, il quale
si è fatto servo di tutti ».
E siccome questi uffici, sommamente necessari alla vita della Chiesa, nella
disciplina oggi vigente della Chiesa latina in molte regioni difficilmente
possono essere esercitati, il diaconato potrà in futuro essere
ristabilito come proprio e permanente grado della gerarchia. Spetterà poi
alla competenza dei raggruppamenti territoriali dei vescovi, nelle loro diverse
forme, di decidere, con l'approvazione dello stesso sommo Pontefice, se e dove
sia opportuno che tali diaconi siano istituiti per la cura delle anime. Col
consenso del romano Pontefice questo diaconato potrà essere conferito a
uomini di età matura anche viventi nel matrimonio, e così pure a
dei giovani idonei, per i quali però deve rimanere ferma la legge del
celibato.
CAPITOLO IV
I LAICI
I laici nella Chiesa
30. Il santo Concilio, dopo aver illustrati gli uffici della gerarchia, con
piacere rivolge il pensiero allo stato di quei fedeli che si chiamano laici.
Sebbene quanto fu detto del popolo di Dio sia ugualmente diretto ai laici, ai
religiosi e al clero, ai laici tuttavia, sia uomini che donne, per la loro
condizione e missione, appartengono in particolare alcune cose, i fondamenti
delle quali, a motivo delle speciali circostanze del nostro tempo, devono essere
più accuratamente ponderati. I sacri pastori, infatti, sanno benissimo
quanto i laici contribuiscano al bene di tutta la Chiesa. Sanno di non essere
stati istituiti da Cristo per assumersi da soli tutto il peso della missione
salvifica della Chiesa verso il mondo, ma che il loro eccelso ufficio consiste
nel comprendere la loro missione di pastori nei confronti dei fedeli e nel
riconoscere i ministeri e i carismi propri a questi, in maniera tale che tutti
concordemente cooperino, nella loro misura, al bene comune. Bisogna infatti che
tutti « mediante la pratica di una carità sincera, cresciamo in ogni
modo verso colui che è il capo, Cristo; da lui tutto il corpo, ben
connesso e solidamente collegato, attraverso tutte le giunture di comunicazione,
secondo l'attività proporzionata a ciascun membro, opera il suo
accrescimento e si va edificando nella carità» (Ef 4,15-16).
Natura e missione dei laici
31. Col nome di laici si intende qui l'insieme dei cristiani ad esclusione
dei membri dell'ordine sacro e dello stato religioso sancito nella Chiesa, i
fedeli cioè, che, dopo essere stati incorporati a Cristo col battesimo e
costituiti popolo di Dio e, nella loro misura, resi partecipi dell'ufficio
sacerdotale, profetico e regale di Cristo, per la loro parte compiono, nella
Chiesa e nel mondo, la missione propria di tutto il popolo cristiano.
Il carattere secolare è proprio e peculiare dei laici. Infatti, i
membri dell'ordine sacro, sebbene talora possano essere impegnati nelle cose del
secolo, anche esercitando una professione secolare, tuttavia per la loro
speciale vocazione sono destinati principalmente e propriamente al sacro
ministero, mentre i religiosi col loro stato testimoniano in modo splendido ed
esimio che il mondo non può essere trasfigurato e offerto a Dio senza lo
spirito delle beatitudini. Per loro vocazione è proprio dei laici cercare
il regno di Dio trattando le cose temporali e ordinandole secondo Dio. Vivono
nel secolo, cioè implicati in tutti i diversi doveri e lavori del mondo e
nelle ordinarie condizioni della vita familiare e sociale, di cui la loro
esistenza è come intessuta. Ivi sono da Dio chiamati a contribuire, quasi
dall'interno a modo di fermento, alla santificazione del mondo esercitando il
proprio ufficio sotto la guida dello spirito evangelico, e in questo modo a
manifestare Cristo agli altri principalmente con la testimonianza della loro
stessa vita e col fulgore della loro fede, della loro speranza e carità.
A loro quindi particolarmente spetta di illuminare e ordinare tutte le cose
temporali, alle quali sono strettamente legati, in modo che siano fatte e
crescano costantemente secondo il Cristo e siano di lode al Creatore e
Redentore.
Dignità dei laici nel popolo di Dio
32. La santa Chiesa è, per divina istituzione, organizzata e diretta
con mirabile varietà. «A quel modo, infatti, che in uno- stesso
corpo abbiamo molte membra, e le membra non hanno tutte le stessa funzione, così
tutti insieme formiamo un solo corpo in Cristo, e individualmente siano membri
gli uni degli altri » (Rm 12,4-5).
Non c'è quindi che un popolo di Dio scelto da lui: « un solo
Signore, una sola fede, un solo battesimo » (Ef 4,5); comune è la
dignità dei membri per la loro rigenerazione in Cristo, comune la grazia
di adozione filiale, comune la vocazione alla perfezione; non c'è che una
sola salvezza, una sola speranza e una carità senza divisioni. Nessuna
ineguaglianza quindi in Cristo e nella Chiesa per riguardo alla stirpe o
nazione, alla condizione sociale o al sesso, poiché « non c'è
né Giudeo né Gentile, non c'è né schiavo né
libero, non c'è né uomo né donna: tutti voi siete uno in
Cristo Gesù» (Gal 3,28 gr.; cfr. Col 3,11).
Se quindi nella Chiesa non tutti camminano per la stessa via, tutti però
sono chiamati alla santità e hanno ricevuto a titolo uguale la fede che
introduce nella giustizia di Dio (cfr. 2 Pt 1,1). Quantunque alcuni per volontà
di Cristo siano costituiti dottori, dispensatori dei misteri e pastori per gli
altri, tuttavia vige fra tutti una vera uguaglianza riguardo alla dignità
e all'azione comune a tutti i fedeli nell'edificare il corpo di Cristo. La
distinzione infatti posta dal Signore tra i sacri ministri e il resto del popolo
di Dio comporta in sé unione, essendo i pastori e gli altri fedeli legati
tra di loro da una comunità di rapporto: che i pastori della Chiesa
sull'esempio di Cristo sono a servizio gli uni degli altri e a servizio degli
altri fedeli, e questi a loro volta prestano volenterosi la loro collaborazione
ai pastori e ai maestri. Così, nella diversità stessa, tutti danno
testimonianza della mirabile unità nel corpo di Cristo: poiché la
stessa diversità di grazie, di ministeri e di operazioni raccoglie in un
tutto i figli di Dio, dato che « tutte queste cose opera... un unico e
medesimo Spirito» (1 Cor 12,11).
I laici quindi, come per benevolenza divina hanno per fratello Cristo, il
quale, pur essendo Signore di tutte le cose, non è venuto per essere
servito, ma per servire (cfr. Mt 20,28), così anche hanno per fratelli
coloro che, posti nel sacro ministero, insegnando e santificando e reggendo per
autorità di Cristo, svolgono presso la famiglia di Dio l'ufficio di
pastori, in modo che sia da tutti adempito il nuovo precetto della carità.
A questo proposito dice molto bene sant'Agostino: « Se mi spaventa l'essere
per voi, mi rassicura l'essere con voi. Perché per voi sono vescovo, con
voi sono cristiano. Quello è nome di ufficio, questo di grazia; quello è
nome di pericolo, questo di salvezza ».
L'apostolato dei laici
33. I laici, radunati nel popolo di Dio e costituiti nell'unico corpo di
Cristo sotto un solo capo, sono chiamati chiunque essi siano, a contribuire come
membra vive, con tutte le forze ricevute dalla bontà del Creatore e dalla
grazia del Redentore, all'incremento della Chiesa e alla sua santificazione
permanente.
L'apostolato dei laici è quindi partecipazione alla missione
salvifica stessa della Chiesa; a questo apostolato sono tutti destinati dal
Signore stesso per mezzo del battesimo e della confermazione. Dai sacramenti
poi, e specialmente dalla sacra eucaristia, viene comunicata e alimentata quella
carità verso Dio e gli uomini che è l'anima di tutto l'apostolato.
Ma i laici sono soprattutto chiamati a rendere presente e operosa la Chiesa in
quei luoghi e in quelle circostanze, in cui essa non può diventare sale
della terra se non per loro mezzo. Così ogni laico, in virtù dei
doni che gli sono stati fatti, è testimonio e insieme vivo strumento
della stessa missione della Chiesa « secondo la misura del dono del Cristo »
(Ef 4,7).
Oltre a questo apostolato, che spetta a tutti i fedeli senza eccezione, i
laici possono anche essere chiamati in diversi modi a collaborare più
immediatamente con l'apostolato della gerarchia a somiglianza di quegli uomini e
donne che aiutavano l'apostolo Paolo nell'evangelizzazione, faticando molto per
il Signore (cfr. Fil 4,3; Rm 16,3 ss). Hanno inoltre la capacità per
essere assunti dalla gerarchia ad esercitare, per un fine spirituale, alcuni
uffici ecclesiastici.
Grava quindi su tutti i laici il glorioso peso di lavorare, perché il
disegno divino di salvezza raggiunga ogni giorno più tutti gli uomini di
tutti i tempi e di tutta la terra. Sia perciò loro aperta qualunque via
affinché, secondo le loro forze e le necessità dei tempi,
anch'essi attivamente partecipino all'opera salvifica della Chiesa.
Partecipazione dei laici al sacerdozio comune
34. Il sommo ed eterno sacerdote Gesù Cristo, volendo continuare la
sua testimonianza e il suo ministero anche attraverso i laici, li vivifica col
suo Spirito e incessantemente li spinge ad ogni opera buona e perfetta.
A coloro infatti che intimamente congiunge alla sua vita e alla sua
missione, concede anche di aver parte al suo ufficio sacerdotale per esercitare
un culto spirituale, in vista della glorificazione di Dio e della salvezza degli
uomini. Perciò i laici, essendo dedicati a Cristo e consacrati dallo
Spirito Santo, sono in modo mirabile chiamati e istruiti per produrre frutti
dello Spirito sempre più abbondanti. Tutte infatti le loro attività,
preghiere e iniziative apostoliche, la vita coniugale e familiare, il lavoro
giornaliero, il sollievo spirituale e corporale, se sono compiute nello Spirito,
e anche le molestie della vita, se sono sopportate con pazienza, diventano
offerte spirituali gradite a Dio attraverso Gesù Cristo (cfr. 1 Pt 2,5);
nella celebrazione dell'eucaristia sono in tutta pietà presentate al
Padre insieme all'oblazione del Corpo del Signore. Così anche i laici, in
quanto adoratori dovunque santamente operanti, consacrano a Dio il mondo stesso.
Partecipazione dei laici alla funzione profetica del Cristo
35. Cristo, il grande profeta, il quale con la testimonianza della sua vita
e con la potenza della sua parola ha proclamato il regno del Padre, adempie il
suo ufficio profetico fino alla piena manifestazione della gloria, non solo per
mezzo della gerarchia, che insegna in nome e con la potestà di lui, ma
anche per mezzo dei laici, che perciò costituisce suoi testimoni
provvedendoli del senso della fede e della grazia della parola (cfr. At 2,17-18;
Ap 19,10), perché la forza del Vangelo risplenda nella vita quotidiana,
familiare e sociale. Essi si mostrano figli della promessa quando, forti nella
fede e nella speranza, mettono a profitto il tempo presente (cfr. Ef 5,16; Col
4,5) e con pazienza aspettano la gloria futura (cfr. Rm 8,25). E questa speranza
non devono nasconderla nel segreto del loro cuore, ma con una continua
conversione e lotta «contro i dominatori di questo mondo tenebroso e contro
gli spiriti maligni» (Ef 6,12), devono esprimerla anche attraverso le
strutture della vita secolare.
Come i sacramenti della nuova legge, alimento della vita e dell'apostolato
dei fedeli, prefigurano un cielo nuovo e una nuova terra (cfr. Ap 21,1), così
i laici diventano araldi efficaci della fede in ciò che si spera (cfr. Eb
11,1), se senza incertezze congiungono a una vita di fede la professione di
questa stessa fede. Questa evangelizzazione o annunzio di Cristo fatto con la
testimonianza della vita e con la parola acquista una certa nota specifica e una
particolare efficacia dal fatto che viene compiuta nelle comuni condizioni del
secolo.
In questo ordine di funzioni appare di grande valore quello stato di vita
che è santificato da uno speciale sacramento: la vita matrimoniale e
familiare. L'esercizio e scuola per eccellenza di apostolato dei laici si ha là
dove la religione cristiana permea tutta l'organizzazione della vita e ogni
giorno più la trasforma. Là i coniugi hanno la propria vocazione:
essere l'uno all'altro e ai figli testimoni della fede e dell'amore di Cristo.
La famiglia cristiana proclama ad alta voce allo stesso tempo le virtù
presenti del regno di Dio e la speranza della vita beata. Così, col suo
esempio e con la sua testimonianza, accusa il mondo di peccato e illumina quelli
che cercano la verità.
I laici quindi, anche quando sono occupati in cure temporali, possono e
devono esercitare una preziosa azione per l'evangelizzazione del mondo. Alcuni
di loro, in mancanza di sacri ministri o essendo questi impediti in regime di
persecuzione, suppliscono alcuni uffici sacri secondo le proprie possibilità;
altri, più numerosi, spendono tutte le loro forze nel lavoro apostolico:
bisogna tuttavia che tutti cooperino all estensione e al progresso del regno di
Cristo nel mondo. Perciò i laici si applichino con diligenza all
approfondimento della verità rivelata e domandino insistentemente a Dio
il dono della sapienza.
Partecipazione dei laici al servizio regale
36. Cristo, fattosi obbediente fino alla morte e perciò esaltato dal
Padre (cfr. Fil 2,8-9), è entrato nella gloria del suo regno; a lui sono
sottomesse tutte le cose, fino a che egli sottometta al Padre se stesso e tutte
le creature, affinché Dio sia tutto in tutti (cfr. 1 Cor 15,27-28).
Questa potestà egli l'ha comunicata ai discepoli, perché anch'essi
siano costituiti nella libertà regale e con l'abnegazione di sé e
la vita santa vincano in se stessi il regno del peccato anzi, servendo il Cristo
anche negli altri, con umiltà e pazienza conducano i loro fratelli al Re,
servire i1 quale è regnare. Il Signore infatti desidera estendere il suo
regno anche per mezzo dei fedeli laici: i1 suo regno che è regno «
di verità e di vita, regno di santità e di grazia, regno di
giustizia, di amore e di pace » e in questo regno anche le stesse creature
saranno liberate dalla schiavitù della corruzione per partecipare alla
gloriosa libertà dei figli di Dio (cfr. Rm 8,21). Grande veramente è
la promessa, grande il comandamento dato ai discepoli: « Tutto è
vostro, ma voi siete di Cristo, e Cristo è di Dio » (1 Cor 3,23).
I fedeli perciò devono riconoscere la natura profonda di tutta la
creazione, il suo valore e la sua ordinazione alla lode di Dio, e aiutarsi a
vicenda a una vita più santa anche con opere propriamente secolari,
affinché il mondo si impregni dello spirito di Cristo e raggiunga più
efficacemente il suo fine nella giustizia, nella carità e nella pace. Nel
compimento universale di questo ufficio, i laici hanno il posto di primo piano.
Con la loro competenza quindi nelle discipline profane e con la loro attività,
elevata intrinsecamente dalla grazia di Cristo, portino efficacemente l'opera
loro, affinché i beni creati, secondo i fini del Creatore e la luce del
suo Verbo, siano fatti progredire dal lavoro umano, dalla tecnica e dalla
cultura civile per l'utilità di tutti gli uomini senza eccezione, e siano
tra loro più convenientemente distribuiti e, secondo la loro natura,
portino al progresso universale nella libertà umana e cristiana. Così
Cristo per mezzo dei membri della Chiesa illuminerà sempre di più
l'intera società umana con la sua luce che salva.
Inoltre i laici, anche consociando le forze, risanino le istituzioni e le
condizioni del mondo, se ve ne siano che provocano al peccato, così che
tutte siano rese conformi alle norme della giustizia e, anziché
ostacolare, favoriscano l'esercizio delle virtù. Così agendo
impregneranno di valore morale la cultura e le opere umane. In questo modo il
campo del mondo si trova meglio preparato per accogliere il seme della parola
divina, e insieme le porte della Chiesa si aprono più larghe, per
permettere che l'annunzio della pace entri nel mondo.
Per l'economia stessa della salvezza imparino i fedeli a ben distinguere tra
i diritti e i doveri, che loro incombono in quanto membri della Chiesa, e quelli
che competono loro in quanto membri della società umana. cerchino di
metterli in armonia fra loro, ricordandosi che in ogni cosa temporale devono
essere guidati dalla coscienza cristiana, poiché nessuna attività
umana, neanche nelle cose temporali, può essere sottratta al comando di
Dio. Nel nostro tempo è sommamente necessario che questa distinzione e
questa armonia risplendano nel modo più chiaro possibile nella maniera di
agire dei fedeli, affinché la missione della Chiesa possa più
pienamente rispondere alle particolari condizioni del mondo moderno. Come
infatti si deve riconoscere che la città terrena, legittimamente dedicata
alle cure secolari, è retta da propri principi, così a ragione è
rigettata 1 infausta dottrina che pretende di costruire la società senza
alcuna considerazione per la religione e impugna ed elimina la libertà
religiosa dei cittadini.
I laici e la gerarchia
37. I laici, come tutti i fedeli, hanno il diritto di ricevere
abbondantemente dai sacri pastori i beni spirituali della Chiesa, soprattutto
gli aiuti della parola di Dio e dei sacramenti; ad essi quindi manifestino le
loro necessità e i loro desideri con quella libertà e fiducia che
si addice ai figli di Dio e ai fratelli in Cristo. Secondo la scienza,
competenza e prestigio di cui godono, hanno la facoltà, anzi talora anche
il dovere, di far conoscere il loro parere su cose concernenti il bene della
Chiesa. Se occorre, lo facciano attraverso gli organi stabiliti a questo scopo
dalla Chiesa, e sempre con verità, fortezza e prudenza, con rispetto e
carità verso coloro che, per ragione del loro sacro ufficio,
rappresentano Cristo. I laici, come tutti i fedeli, con cristiana obbedienza
prontamente abbraccino ciò che i pastori, quali rappresentanti di Cristo,
stabiliscono in nome del loro magistero e della loro autorità nella
Chiesa, seguendo in ciò l'esempio di Cristo, il quale con la sua
obbedienza fino alla morte ha aperto a tutti gli uomini la via beata della
libertà dei figli di Dio. Né tralascino di raccomandare a Dio con
le preghiere i loro superiori, affinché, dovendo questi vegliare sopra le
nostre anime come persone che ne dovranno rendere conto, lo facciano con gioia e
non gemendo (cfr. Eb 13,17).
I pastori, da parte loro, riconoscano e promuovano la dignità e la
responsabilità dei laici nella Chiesa; si servano volentieri del loro
prudente consiglio, con fiducia affidino loro degli uffici in servizio della
Chiesa e lascino loro libertà e margine di azione, anzi li incoraggino
perché intraprendano delle opere anche di propria iniziativa. Considerino
attentamente e con paterno affetto in Cristo le iniziative, le richieste e i
desideri proposti dai laici e, infine, rispettino e riconoscano quella giusta
libertà, che a tutti compete nella città terrestre.
Da questi familiari rapporti tra i laici e i pastori si devono attendere
molti vantaggi per la Chiesa: in questo modo infatti si afferma nei laici il
senso della propria responsabilità, ne è favorito lo slancio e le
loro forze più facilmente vengono associate all'opera dei pastori. E
questi, aiutati dall'esperienza dei laici, possono giudicare con più
chiarezza e opportunità sia in cose spirituali che temporali; e così
tutta la Chiesa, forte di tutti i suoi membri, compie con maggiore efficacia la
sua missione per la vita del mondo.
Conclusione
38. Ogni laico deve essere davanti al mondo un testimone della risurrezione
e della vita del Signore Gesù e un segno del Dio vivo. Tutti insieme, e
ognuno per la sua parte, devono nutrire il mondo con i frutti spirituali (cfr.
Gal 5,22) e in esso diffondere lo spirito che anima i poveri, miti e pacifici,
che il Signore nel Vangelo proclamò beati (cfr. Mt 5,3-9). In una parola:
« ciò che l'anima è nel corpo, questo siano i cristiani nel
mondo ».
CAPITOLO V
UNIVERSALE VOCAZIONE ALLA SANTITÀ NELLA CHIESA
La santità nella Chiesa
39. La Chiesa, il cui mistero è esposto dal sacro Concilio, è
agli occhi della fede indefettibilmente santa. Infatti Cristo, Figlio di Dio, il
quale col Padre e lo Spirito è proclamato « il solo Santo », amò
la Chiesa come sua sposa e diede se stesso per essa, al fine di santificarla
(cfr. Ef 5,25-26), l'ha unita a sé come suo corpo e l'ha riempita col
dono dello Spirito Santo, per la gloria di Dio. Perciò tutti nella
Chiesa, sia che appartengano alla gerarchia, sia che siano retti da essa, sono
chiamati alla santità, secondo le parole dell'Apostolo: « Sì,
ciò che Dio vuole è la vostra santificazione » (1 Ts 4,3;
cfr. Ef 1,4). Orbene, questa santità della Chiesa costantemente si
manifesta e si deve manifestare nei frutti della grazia che lo Spirito produce
nei fedeli; si esprime in varie forme in ciascuno di quelli che tendono alla
carità perfetta nella linea propria di vita ed edificano gli altri; e in
un modo tutto suo proprio si manifesta nella pratica dei consigli che si
sogliono chiamare evangelici. Questa pratica dei consigli, abbracciata da molti
cristiani per impulso dello Spirito Santo, sia a titolo privato, sia in una
condizione o stato sanciti nella Chiesa, porta e deve portare nel mondo una
luminosa testimonianza e un esempio di questa santità.
Vocazione universale alla santità
40. Il Signore Gesù, maestro e modello divino di ogni perfezione, a
tutti e a ciascuno dei suoi discepoli di qualsiasi condizione ha predicato
quella santità di vita, di cui egli stesso è autore e
perfezionatore: «Siate dunque perfetti come è perfetto il vostro
Padre celeste» (Mt 5,48). Mandò infatti a tutti lo Spirito Santo,
che li muova internamente ad amare Dio con tutto il cuore, con tutta l'anima,
con tutta la mente, con tutte le forze (cfr Mc 12,30), e ad amarsi a vicenda
come Cristo ha amato loro (cfr. Gv 13,34; 15,12). I seguaci di Cristo, chiamati
da Dio, non a titolo delle loro opere, ma a titolo del suo disegno e della
grazia, giustificati in Gesù nostro Signore, nel battesimo della fede
sono stati fatti veramente figli di Dio e compartecipi della natura divina, e
perciò realmente santi. Essi quindi devono, con l'aiuto di Dio, mantenere
e perfezionare con la loro vita la santità che hanno ricevuto. Li
ammonisce l'Apostolo che vivano « come si conviene a santi » (Ef 5,3),
si rivestano «come si conviene a eletti di Dio, santi e prediletti, di
sentimenti di misericordia, di bontà, di umiltà, di dolcezza e di
pazienza » (Col 3,12) e portino i frutti dello Spirito per la loro
santificazione (cfr. Gal 5,22; Rm 6,22). E poiché tutti commettiamo molti
sbagli (cfr. Gc 3,2), abbiamo continuamente bisogno della misericordia di Dio e
dobbiamo ogni giorno pregare: « Rimetti a noi i nostri debiti » (Mt
6,12).
È dunque evidente per tutti, che tutti coloro che credono nel Cristo
di qualsiasi stato o rango, sono chiamati alla pienezza della vita cristiana e
alla perfezione della carità e che tale santità promuove nella
stessa società terrena un tenore di vita più umano. Per
raggiungere questa perfezione i fedeli usino le forze ricevute secondo la misura
con cui Cristo volle donarle, affinché, seguendo l'esempio di lui e
diventati conformi alla sua immagine, in tutto obbedienti alla volontà
del Padre, con piena generosità si consacrino alla gloria di Dio e al
servizio del prossimo. Così la santità del popolo di Dio crescerà
in frutti abbondanti, come è splendidamente dimostrato nella storia della
Chiesa dalla vita di tanti santi.
Esercizio multiforme della santità
41. Nei vari generi di vita e nei vari compiti una unica santità è
coltivata da quanti sono mossi dallo Spirito di Dio e, obbedienti alla voce del
Padre e adorando in spirito e verità Dio Padre, camminano al seguito del
Cristo povero, umile e carico della croce, per meritare di essere partecipi
della sua gloria. Ognuno secondo i propri doni e uffici deve senza indugi
avanzare per la via della fede viva, la quale accende la speranza e opera per
mezzo della carità. In primo luogo i pastori del gregge di Cristo devono,
a immagine del sommo ed eterno sacerdote, pastore e vescovo delle anime nostre,
compiere con santità e slancio, umiltà e forza il proprio
ministero: esso, così adempiuto, sarà anche per loro un eccellente
mezzo di santificazione. Chiamati per ricevere la pienezza del sacerdozio, è
loro data la grazia sacramentale affinché, mediante la preghiera, il
sacrificio e la predicazione, mediante ogni forma di cura e di servizio
episcopale, esercitino un perfetto ufficio di carità pastorale non temano
di dare la propria vita per le pecorelle e, fattisi modello del gregge (cfr. 1
Pt 5,3), aiutino infine con l'esempio la Chiesa ad avanzare verso una santità
ogni giorno più grande.
I sacerdoti, a somiglianza dell'ordine dei vescovi, dei quali formano la
corona spirituale partecipando alla grazia dell'ufficio di quelli per mezzo di
Cristo, eterno ed unico mediatore, mediante il quotidiano esercizio del proprio
ufficio crescano nell'amore di Dio e del prossimo, conservino il vincolo della
comunione sacerdotale, abbondino in ogni bene spirituale e diano a tutti la viva
testimonianza di Dio emuli di quei sacerdoti che nel corso dei secoli, in un
servizio spesso umile e nascosto, hanno lasciato uno splendido esempio di santità.
La loro lode risuona nella Chiesa di Dio. Pregando e offrendo il sacrificio,
com'è loro dovere, per il loro popolo e per tutto il popolo di Dio,
cosciente di ciò che fanno e confermandosi ai misteri che compiono anziché
essere ostacolati dalle cure apostoliche, dai pericoli e dalle tribolazioni,
ascendano piuttosto per mezzo dì esse ad una maggiore santità,
nutrendo e dando slancio con l'abbondanza della contemplazione alla propria
attività, per il conforto di tutta la Chiesa di Dio. Tutti i sacerdoti e
specialmente quelli che, a titolo particolare della loro ordinazione, portano il
nome di sacerdoti diocesani, ricordino quanto contribuiscano alla loro
santificazione la fedele unione e la generosa cooperazione col loro vescovo.
Alla missione e alla grazia del supremo Sacerdote partecipano in modo
proprio anche i ministri di ordine inferiore; e prima di tutto i diaconi, i
quali, servendo i misteri di Dio e della Chiesa devono mantenersi puri da ogni
vizio, piacere a Dio e studiarsi di fare ogni genere di opere buone davanti agli
uomini (cfr. 1 Tm 3,8-10; e 12-13). I chierici che, chiamati dal Signore e
separati per aver parte con lui, sotto la vigilanza dei pastori si preparano
alle funzioni di sacri ministri, sono tenuti a conformare le loro menti e i loro
cuori a una così eccelsa vocazione; assidui nell'orazione, ferventi nella
carità, intenti a quanto è vero, giusto e onorevole, facendo tutto
per la gloria e l'onore di Dio. A questi bisogna aggiungere quei laici scelti da
Dio, i quali sono chiamati dal vescovo, perché si diano più
completamente alle opere apostoliche, e nel campo del Signore lavorano con molto
frutto.
I coniugi e i genitori cristiani, seguendo la loro propria via, devono
sostenersi a vicenda nella fedeltà dell'amore con l'aiuto della grazia
per tutta la vita, e istruire nella dottrina cristiana e nelle virtù
evangeliche la prole, che hanno amorosamente accettata da Dio. Così
infatti offrono a tutti l'esempio di un amore instancabile e generoso,
edificando la carità fraterna e diventano testimoni e cooperatori della
fecondità della madre Chiesa, in segno e partecipazione di quell'amore,
col quale Cristo amò la sua sposa e si è dato per lei. Un simile
esempio è offerto in altro modo dalle persone vedove e celibatarie, le
quali pure possono contribuire non poco alla santità e alla operosità
della Chiesa. Quelli poi che sono dediti a lavori spesso faticosi, devono con le
opere umane perfezionare se stessi, aiutare i concittadini e far progredire
tutta la società e la creazione verso uno stato migliore; devono infine,
con carità operosa, imitare Cristo, le cui mani si esercitarono in lavori
manuali e il quale sempre opera col Padre alla salvezza di tutti, in ciò
animati da una gioiosa speranza, aiutandosi gli uni gli altri a portare i propri
fardelli, ascendendo mediante il lavoro quotidiano a una santità sempre
più alta, santità che sarà anche apostolica.
Sappiano che sono pure uniti in modo speciale a Cristo sofferente per la
salute del mondo quelli che sono oppressi dalla povertà, dalla infermità,
dalla malattia e dalle varie tribolazioni, o soffrono persecuzioni per la
giustizia: il Signore nel Vangelo li ha proclamati beati, e « il Dio... di
ogni grazia, che ci ha chiamati all'eterna sua gloria in Cristo Gesù,
dopo un po' di patire, li condurrà egli stesso a perfezione e li renderà
stabili e sicuri» (1 Pt 5,10).
Tutti quelli che credono in Cristo saranno quindi ogni giorno più
santificati nelle condizioni, nei doveri o circostanze che sono quelle della
loro vita, e per mezzo di tutte queste cose, se le ricevono con fede dalla mano
del Padre celeste e cooperano con la volontà divina, manifestando a
tutti, nello stesso servizio temporale, la carità con la quale Dio ha
amato il mondo.
Vie e mezzi di santità
42. « Dio è amore e chi rimane nell'amore, rimane in Dio e Dio
in lui » (1 Gv 4,16). Dio ha diffuso il suo amore nei nostri cuori per
mezzo dello Spirito Santo, che ci fu dato (cfr. Rm 5,5); perciò il dono
primo e più necessario è la carità, con la quale amiamo Dio
sopra ogni cosa e il prossimo per amore di lui. Ma perché la carità,
come buon seme, cresca e nidifichi, ogni fedele deve ascoltare volentieri la
parola di Dio e con l'aiuto della sua grazia compiere con le opere la sua volontà,
partecipare frequentemente ai sacramenti, soprattutto all'eucaristia, e alle
azioni liturgiche; applicarsi costantemente alla preghiera, all'abnegazione di
se stesso, all'attivo servizio dei fratelli e all'esercizio di tutte le virtù.
La carità infatti, quale vincolo della perfezione e compimento della
legge (cfr. Col 3,14; Rm 13,10), regola tutti i mezzi di santificazione, dà
loro forma e li conduce al loro fine. Perciò il vero discepolo di Cristo è
contrassegnato dalla carità verso Dio e verso il prossimo.
Avendo Gesù, Figlio di Dio, manifestato la sua carità dando
per noi la vita, nessuno ha più grande amore di colui che dà la
vita per lui e per i fratelli (cfr. 1 Gv 3,16; Gv 15,13). Già fin dai
primi tempi quindi, alcuni cristiani sono stati chiamati, e altri lo saranno
sempre, a rendere questa massima testimonianza d'amore davanti agli uomini, e
specialmente davanti ai persecutori. Perciò il martirio, col quale il
discepolo è reso simile al suo maestro che liberamente accetta la morte
per la salute del mondo, e col quale diventa simile a lui nella effusione del
sangue, è stimato dalla Chiesa come dono insigne e suprema prova di carità.
Ché se a pochi è concesso, tutti però devono essere pronti
a confessare Cristo davanti agli uomini e a seguirlo sulla via della croce
durante le persecuzioni, che non mancano mai alla Chiesa.
Parimenti la santità della Chiesa è favorita in modo speciale
dai molteplici consigli che il Signore nel Vangelo propone all'osservanza dei
suoi discepoli. Tra essi eccelle il prezioso dono della grazia divina, dato dal
Padre ad alcuni (cfr, Mt 19,11; 1 Cor 7,7), di consacrarsi, più
facilmente e senza divisione del cuore (cfr. 1 Cor 7,7), a Dio solo nella
verginità o nel celibato. Questa perfetta continenza per il regno dei
cieli è sempre stata tenuta in singolare onore dalla Chiesa, quale segno
e stimolo della carità e speciale sorgente di fecondità spirituale
nel mondo.
La Chiesa ripensa anche al monito dell'Apostolo, il quale incitando i fede]i
alla carità, ]i esorta ad avere in sé gli stessi sentimenti che
furono in Cristo Gesù, il quale « spogliò se stesso,
prendendo la natura di un servo... facendosi obbediente fino alla morte »
(Fil 2,7-8), e per noi «da ricco che era si fece povero » (2 Cor 8,9).
L'imitazione e la testimonianza di questa carità e umiltà del
Cristo si impongono ai discepoli in permanenza; per questo la Chiesa, nostra
madre, si rallegra di trovare nel suo seno molti uomini e donne che seguono più
da vicino questo annientamento del Salvatore e più chiaramente lo
mostrano, abbracciando, nella libertà dei figli di Dio, la povertà
e rinunziando alla propria volontà: essi cioè per amore di Dio, in
ciò che riguarda la perfezione, si sottomettono a una creatura umana al
di là della stretta misura del precetto, al fine di conformarsi più
pienamente a Cristo obbediente.
Tutti i fedeli del Cristo quindi sono invitati e tenuti a perseguire la
santità e la perfezione del proprio stato. Perciò tutti si
sforzino di dirigere rettamente i propri affetti, affinché dall'uso delle
cose di questo mondo e da un attaccamento alle ricchezze contrario allo spirito
della povertà evangelica non siano impediti di tendere alla carità
perfetta; ammonisce infatti l'Apostolo: Quelli che usano di questo mondo, non vi
ci si arrestino, perché passa la scena di questo mondo (cfr. 1 Cor 7,31
gr.).
CAPITOLO VI
I RELIGIOSI
I consigli evangelici nella Chiesa
43. I consigli evangelici della castità consacrata a Dio, della
povertà e dell'obbedienza, essendo fondati sulle parole e sugli esempi
del Signore e raccomandati dagli apostoli, dai Padri e dai dottori e pastori
della Chiesa, sono un dono divino che la Chiesa ha ricevuto dal suo Signore e
con la sua grazia sempre conserva. La stessa autorità della Chiesa, sotto
la guida dello Spirito Santo, si è data cura di interpretarli, di
regolarne la pratica e anche di stabilire sulla loro base delle forme stabili di
vita. Avvenne quindi che, come un albero che si ramifica in modi mirabili e
molteplici nel campo del Signore a partire da un germe seminato da Dio, si
sviluppassero varie forme di vita solitaria o comune e varie famiglie, il cui
capitale spirituale contribuisce al bene sia dei membri di quelle famiglie, sia
di tutto il corpo di Cristo. Quelle famiglie infatti forniscono ai loro membri
gli aiuti di una maggiore stabilità nella loro forma di vita, di una
dottrina provata per il conseguimento della perfezione, della comunione fraterna
nella milizia di Cristo, di una libertà corroborata dall'obbedienza, così
che possano adempiere con sicurezza e custodire con fedeltà la loro
professione religiosa, avanzando nella gioia spirituale sul cammino della carità.
Un simile stato, se si riguardi la divina e gerarchica costituzione della
Chiesa, non è intermedio tra la condizione clericale e laicale, ma da
entrambe le parti alcuni fedeli sono chiamati da Dio a fruire di questo speciale
dono nella vita della Chiesa e ad aiutare, ciascuno a suo modo, la sua missione
salvifica.
Natura e importanza dello stato religioso
44. Con i voti o altri impegni sacri simili ai voti secondo il modo loro
proprio, il fedele si obbliga all'osservanza dei tre predetti consigli
evangelici; egli si dona totalmente a Dio amato al di sopra di tutto, così
da essere con nuovo e speciale titolo destinato al servizio e all'onore di Dio.
Già col battesimo è morto al peccato e consacrato a Dio; ma per
poter raccogliere in più grande abbondanza i frutti della grazia
battesimale, con la professione dei consigli evangelici nella Chiesa intende
liberarsi dagli impedimenti che potrebbero distoglierlo dal fervore della carità
e dalla perfezione del culto divino, e si consacra più intimamente al
servizio di Dio. La consacrazione poi sarà più perfetta, in quanto
legami più solidi e stabili riproducono di più l'immagine del
Cristo unito alla Chiesa sua sposa da un legame indissolubile.
Siccome quindi i consigli evangelici, per mezzo della carità alla
quale conducono congiungono in modo speciale coloro che li praticano alla Chiesa
e al suo mistero, la loro vita spirituale deve pure essere consacrata al bene di
tutta la Chiesa. Di qui deriva il dovere di lavorare, secondo le forze e la
forma della propria vocazione, sia con la preghiera, sia anche con l'attività
effettiva, a radicare e consolidare negli animi il regno di Cristo e a dilatarlo
in ogni parte della terra. Per questo la Chiesa difende e sostiene l'indole
propria dei vari istituti religiosi. Perciò la professione dei consigli
evangelici appare come un segno, il quale può e deve attirare
efficacemente tutti i membri della Chiesa a compiere con slancio i doveri della
vocazione cristiana. Poiché infatti il popolo di Dio non ha qui città
permanente, ma va in cerca della futura, lo stato religioso, il quale rende più
liberi i suoi seguaci dalle cure terrene, meglio anche manifesta a tutti i
credenti i beni celesti già presenti in questo tempo, meglio testimonia
l'esistenza di una vita nuova ed eterna, acquistata dalla redenzione di Cristo,
e meglio preannunzia la futura resurrezione e la gloria del regno celeste.
Parimenti, lo stato religioso imita più fedelmente e rappresenta
continuamente nella Chiesa la forma di vita che il Figlio di Dio abbracciò
venendo nel mondo per fare la volontà del Padre e che propose ai
discepoli che lo seguivano. Infine, in modo speciale manifesta l'elevazione del
regno di Dio sopra tutte le cose terrestri e le sue esigenze supreme; dimostra
pure a tutti gli uomini la preminente grandezza della potenza di Cristo-Re e la
infinita potenza dello Spirito Santo, mirabilmente operante nella Chiesa.
Lo stato di vita dunque costituito dalla professione dei consigli
evangelici, pur non concernendo la struttura gerarchica della Chiesa, appartiene
tuttavia inseparabilmente alla sua vita e alla sua santità.
La gerarchia e lo stato religioso
45. Essendo ufficio della gerarchia ecclesiastica di pascere il popolo di
Dio e condurlo a pascoli ubertosi (cfr. Ez 34,14), spetta ad essa di regolare
sapientemente con le sue leggi la pratica dei consigli evangelici, strumento
singolare al servizio della carità perfetta verso Dio e verso il prossimo
6, Essa inoltre, seguendo docilmente gli impulsi dello Spirito Santo, accoglie
le regole proposte da uomini e donne esimi, e, infine dopo averle messe a punto
più perfettamente, dà loro una approvazione autentica; con la sua
autorità vigile e protettrice viene pure in aiuto agli istituti, dovunque
eretti per l'edificazione del corpo di Cristo, perché abbiano a crescere
e fiorire secondo lo spirito dei fondatori.
Perché poi sia provveduto il meglio possibile alle necessità
dell'intero gregge del Signore, il sommo Pontefice può, in ragione del
suo primato sulla Chiesa universale e in vista dell'interesse comune esentare
ogni istituto di perfezione e ciascuno dei suoi membri dalla giurisdizione
dell'ordinario del luogo e sottoporli a sé solo. Similmente essi possono
essere lasciati o affidati alle proprie autorità patriarcali. Da parte
loro i membri nel compiere i loro doveri verso la Chiesa secondo la loro forma
particolare di vita, devono, conforme alle leggi canoniche, prestare riverenza e
obbedienza ai vescovi, a causa della loro autorità pastorale nelle Chiese
particolari e per la necessaria unità e concordia nel lavoro apostolico.
La Chiesa non solo erige con la sua sanzione la professione religiosa alla
dignità dello stato canonico, ma con la sua azione liturgica la presenta
pure come stato di consacrazione a Dio. La stessa Chiesa infatti, in nome
dell'autorità affidatagli da Dio, riceve i voti di quelli che fanno la
professione, per loro impetra da Dio gli aiuti e la grazia con la sua preghiera
pubblica, li raccomanda a Dio e impartisce loro una benedizione spirituale,
associando la loro offerta al sacrificio eucaristico.
Grandezza della consacrazione religiosa
46. I religiosi pongano ogni cura, affinché per loro mezzo la Chiesa
abbia ogni giorno meglio da presentare Cristo ai fedeli e agli infedeli: sia
nella sua contemplazione sul monte, sia nel suo annuncio del regno di Dio alle
turbe, sia quando risana i malati e gli infermi e converte a miglior vita i
peccatori, sia quando benedice i fanciulli e fa del bene a tutti, sempre
obbediente alla volontà del Padre che lo ha mandato.
Tutti infine abbiano ben chiaro che la professione dei consigli evangelici,
quantunque comporti la rinunzia di beni certamente molto apprezzabili, non si
oppone al vero progresso della persona umana, ma al contrario per sua natura le
è di grandissimo profitto. Infatti i consigli, volontariamente
abbracciati secondo la personale vocazione di ognuno, contribuiscono
considerevolmente alla purificazione del cuore e alla libertà spirituale,
stimolano in permanenza il fervore della carità e soprattutto come è
comprovato dall'esempio di tanti santi fondatori, sono capaci di assicurare al
cristiano una conformità più grande col genere di vita verginale e
povera che Cristo Signore si scelse per sé e che la vergine Madre sua
abbracciò. Né pensi alcuno che i religiosi con la loro
consacrazione diventino estranei agli uomini o inutili nella città
terrestre. Poiché, se anche talora non sono direttamente presenti a
fianco dei loro contemporanei, li tengono tuttavia presenti in modo più
profondo con la tenerezza di Cristo, e con essi collaborano spiritualmente,
affinché la edificazione della città terrena sia sempre fondata
nel Signore, e a lui diretta, né avvenga che lavorino invano quelli che
la stanno edificando.
Perciò il sacro Concilio conferma e loda quegli uomini e quelle
donne, quei fratelli e quelle sorelle, i quali nei monasteri, nelle scuole,
negli ospedali e nelle missioni, con perseverante e umile fedeltà alla
loro consacrazione, onorano la sposa di Cristo e a tutti gli uomini prestano
generosi e diversissimi servizi.
Esortazione alla perseveranza
47. Ognuno poi che è chiamato alla professione dei consigli, ponga
ogni cura nel perseverare e maggiormente eccellere nella vocazione a cui Dio
l'ha chiamato, per una più grande santità della Chiesa e per la
maggior gloria della Trinità, una e indivisa, la quale in Cristo e per
mezzo di Cristo è la fonte e l'origine di ogni santità.
CAPITOLO VII
INDOLE ESCATOLOGICA DELLA CHIESA PEREGRINANTE E SUA UNIONE CON LA
CHIESA CELESTE
Natura escatologica della nostra vocazione
48. La Chiesa, alla quale tutti siamo chiamati in Cristo Gesù e nella
quale per mezzo della grazia di Dio acquistiamo la santità, non avrà
il suo compimento se non nella gloria celeste, quando verrà il tempo in
cui tutte le cose saranno rinnovate (cfr. Ap 3,21), e col genere umano anche
tutto l'universo, il quale è intimamente congiunto con l'uomo e per mezzo
di lui arriva al suo fine, troverà nel Cristo la sua definitiva
perfezione (cfr. Ef 1,10; Col 1,20).
E invero il Cristo, quando fu levato in alto da terra, attirò tutti a
sé (cfr. Gv 12,32 gr.); risorgendo dai morti (cfr. Rm 6,9) immise negli
apostoli il suo Spirito vivificatore, e per mezzo di lui costituì il suo
corpo, che è la Chiesa, quale sacramento universale della salvezza;
assiso alla destra del Padre, opera continuamente nel mondo per condurre gli
uomini alla Chiesa e attraverso di essa congiungerli più strettamente a sé
e renderli partecipi della sua vita gloriosa col nutrimento del proprio corpo e
del proprio sangue. Quindi la nuova condizione promessa e sperata è già
incominciata con Cristo; l'invio dello Spirito Santo le ha dato il suo slancio e
per mezzo di lui essa continua nella Chiesa, nella quale siamo dalla fede
istruiti anche sul senso della nostra vita temporale, mentre portiamo a termine,
nella speranza dei beni futuri, l'opera a noi affidata nel mondo dal Padre e
attuiamo così la nostra salvezza (cfr. Fil 2,12).
Già dunque è arrivata a noi l'ultima fase dei tempi (cfr. 1
Cor 10,11). La rinnovazione del mondo è irrevocabilmente acquisita e in
certo modo reale è anticipata in questo mondo: difatti la Chiesa già
sulla terra è adornata di vera santità, anche se imperfetta.
Tuttavia, fino a che non vi saranno i nuovi cieli e la terra nuova, nei quali la
giustizia ha la sua dimora (cfr. 2 Pt 3,13), la Chiesa peregrinante nei suoi
sacramenti e nelle sue istituzioni, che appartengono all'età presente,
porta la figura fugace di questo mondo; essa vive tra le creature, le quali
ancora gemono, sono nel travaglio del parto e sospirano la manifestazione dei
figli di Dio (cfr. Rm 8,19-22).
Congiunti dunque con Cristo nella Chiesa e contrassegnati dallo Spirito
Santo « che è il pegno della nostra eredità » (Ef 1,14),
con verità siamo chiamati figli di Dio, e lo siamo veramente (cfr. 1 Gv
3,1), ma non siamo ancora apparsi con Cristo nella gloria (cfr. Col 3,4), nella
quale saremo simili a Dio, perché lo vedremo qual è (cfr. 1 Gv
3,2). Pertanto, « finché abitiamo in questo corpo siamo esuli
lontani dal Signore » (2 Cor 5,6); avendo le primizie dello Spirito,
gemiamo interiormente (cfr. Rm 8,23) e bramiamo di essere con Cristo (cfr. Fil
1,23). Dalla stessa carità siamo spronati a vivere più
intensamente per lui, il quale per noi è morto e risuscitato (cfr. 2 Cor
5,15). E per questo ci sforziamo di essere in tutto graditi al Signore (cfr. 2
Cor 5,9) e indossiamo l'armatura di Dio per potere star saldi contro gli agguati
del diavolo e resistergli nel giorno cattivo (cfr. Ef 6,11-13). Siccome poi non
conosciamo il giorno né l'ora, bisogna che, seguendo l'avvertimento del
Signore, vegliamo assiduamente, per meritare, finito il corso irrepetibile della
nostra vita terrena (cfr.Eb 9,27), di entrare con lui al banchetto nuziale ed
essere annoverati fra i beati (cfr. Mt 25,31-46), e non ci venga comandato, come
a servi cattivi e pigri (cfr. Mt 25,26), di andare al fuoco eterno (cfr Mt
25,41), nelle tenebre esteriori dove «ci sarà pianto e stridore dei
denti » (Mt 22,13 e 25,30). Prima infatti di regnare con Cristo glorioso,
noi tutti compariremo « davanti al tribunale di Cristo, per ricevere
ciascuno il salario della sua vita mortale, secondo quel che avrà fatto
di bene o di male » (2 Cor 5,10), e alla fine del mondo « usciranno
dalla tomba, chi ha operato il bene a risurrezione di vita, e chi ha operato il
male a risurrezione di condanna » (Gv 5,29, cfr Mt 25,46). Stimando quindi
che « le sofferenze dei tempo presente non sono adeguate alla gloria futura
che si dovrà manifestare in noi» (Rm 8,18; cfr 2 Tm 2,11-12), forti
nella fede aspettiamo «la beata speranza e la manifestazione gloriosa del
nostro grande Iddio e Salvatore Gesù Cristo» (Tt 2,13) « il
quale trasformerà allora il nostro misero corpo, rendendolo conforme al
suo corpo glorioso» (Fil 3,21), e verrà «per essere glorificato
nei suoi santi e ammirato in tutti quelli che avranno creduto ».
La Chiesa celeste e la Chiesa peregrinante
49. Fino a che dunque il Signore non verrà nella sua gloria,
accompagnato da tutti i suoi angeli (cfr. Mt 25,31) e, distrutta la morte, non
gli saranno sottomesse tutte le cose (cfr. 1 Cor 15,26-27), alcuni dei suoi
discepoli sono pellegrini sulla terra, altri, compiuta questa vita, si
purificano ancora, altri infine godono della gloria contemplando «
chiaramente Dio uno e trino, qual è ». Tutti però, sebbene in
grado e modo diverso, comunichiamo nella stessa carità verso Dio e verso
il prossimo e cantiamo al nostro Dio lo stesso inno di gloria. Tutti infatti
quelli che sono di Cristo, avendo lo Spirito Santo, formano una sola Chiesa e
sono tra loro uniti in lui (cfr. Ef 4,16). L'unione quindi di quelli che sono
ancora in cammino coi fratelli morti nella pace di Cristo non è
minimamente spezzata; anzi, secondo la perenne fede della Chiesa, è
consolidata dallo scambio dei beni spirituali. A causa infatti della loro più
intima unione con Cristo, gli abitanti del cielo rinsaldano tutta la Chiesa
nella santità, nobilitano il culto che essa rende a Dio qui in terra e in
molteplici maniere contribuiscono ad una più ampia edificazione (cfr. 1
Cor 12,12-27). Ammessi nella patria e presenti al Signore (cfr. 2 Cor 5,8), per
mezzo di lui, con lui e in lui non cessano di intercedere per noi presso il
Padre offrendo i meriti acquistati in terra mediante Gesù Cristo, unico
mediatore tra Dio e gli uomini (cfr. 1 Tm 2,5), servendo al Signore in ogni cosa
e dando compimento nella loro carne a ciò che manca alle tribolazioni di
Cristo a vantaggio del suo corpo che è la Chiesa (cfr. Col 1,24). La
nostra debolezza quindi è molto aiutata dalla loro fraterna
sollecitudine.
Relazioni della Chiesa celeste con la Chiesa peregrinante
50. La Chiesa di coloro che camminano sulla terra, riconoscendo benissimo
questa comunione di tutto il corpo mistico di Gesù Cristo, fino dai primi
tempi della religione cristiana coltivò con grande pietà la
memoria dei defunti e, «poiché santo e salutare è il pensiero
di pregare per i defunti perché siano assolti dai peccati», ha
offerto per loro anche suffragi. Che gli apostoli e i martiri di Cristo, i quali
con l'effusione del loro sangue diedero la suprema testimonianza della fede e
della carità, siano con noi strettamente uniti in Cristo, la Chiesa lo ha
sempre creduto; li ha venerati con particolare affetto insieme con la beata
vergine Maria e i santi angeli e ha piamente implorato il soccorso della loro
intercessione. A questi in breve se ne aggiunsero anche altri, che avevano più
da vicino imitata la verginità e la povertà di Cristo e infine
altri, il cui singolare esercizio delle virtù cristiane e le grazie
insigni di Dio raccomandavano alla pia devozione e imitazione dei fedeli.
Il contemplare infatti la vita di coloro che hanno seguito fedelmente
Cristo, è un motivo in più per sentirsi spinti a ricercare la città
futura (cfr. Eb 13,14 e 11,10); nello stesso tempo impariamo la via sicurissima
per la quale, tra le mutevoli cose del mondo e secondo lo stato e la condizione
propria di ciascuno, potremo arrivare alla perfetta unione con Cristo, cioè
alla santità. Nella vita di quelli che, sebbene partecipi della nostra
natura umana, sono tuttavia più perfettamente trasformati nell'immagine
di Cristo (cfr. 2 Cor 3,18), Dio manifesta agli uomini in una viva luce la sua
presenza e il suo volto. In loro è egli stesso che ci parla e ci dà
un segno del suo regno verso il quale, avendo intorno a noi un tal nugolo di
testimoni (cfr. Eb 12,1) e una tale affermazione della verità del
Vangelo, siamo potentemente attirati.
Non veneriamo però la memoria degli abitanti del cielo solo per il
loro esempio, ma più ancora perché l'unione della Chiesa nello
Spirito sia consolidata dall'esercizio della fraterna carità (cfr. Ef
4,1-6). Poiché, come la cristiana comunione tra i cristiani della terra
ci porta più vicino a Cristo, così la comunità con i santi
ci congiunge a lui, dal quale, come dalla loro fonte e dal loro capo, promana
ogni grazia e la vita dello stesso popolo di Dio. È quindi sommamente
giusto che amiamo questi amici e coeredi di Gesù Cristo, che sono anche
nostri fratelli e insigni benefattori, e che per essi rendiamo le dovute grazie
a Dio, «rivolgiamo loro supplici invocazioni e ricorriamo alle loro
preghiere e al loro potente aiuto per impetrare grazie da Dio mediante il Figlio
suo Gesù Cristo, Signore nostro, il quale solo è il nostro
Redentore e Salvatore ». Infatti ogni nostra vera attestazione di amore
fatta ai santi, per sua natura tende e termina a Cristo, che è « la
corona di tutti i santi » e per lui a Dio, che è mirabile nei suoi
santi e in essi è glorificato.
La nostra unione poi con la Chiesa celeste si attua in maniera nobilissima,
poiché specialmente nella sacra liturgia, nella quale la virtù
dello Spirito Santo agisce su di noi mediante i segni sacramentali, in fraterna
esultanza cantiamo le lodi della divina Maestà tutti, di ogni tribù
e lingua, di ogni popolo e nazione, riscattati col sangue di Cristo (cfr. Ap
5,9) e radunati in un'unica Chiesa, con un unico canto di lode glorifichiamo Dio
uno in tre Persone Perciò quando celebriamo il sacrificio eucaristico, ci
uniamo in sommo grado al culto della Chiesa celeste, comunicando con essa e
venerando la memoria soprattutto della gloriosa sempre vergine Maria, del beato
Giuseppe, dei beati apostoli e martiri e di tutti i santi.
Disposizioni pastorali del Concilio
51. Questa veneranda fede dei nostri padri nella comunione di vita che
esiste con i fratelli che sono nella gloria celeste o che dopo la morte stanno
ancora purificandosi, questo sacrosanto Concilio la riceve con grande pietà
e nuovamente propone i decreti dei sacri Concili Niceno II Fiorentino e
Tridentino. E allo stesso tempo con pastorale sollecitudine esorta tutti i
responsabili, perché, se si fossero infiltrati qua e là abusi,
eccessi o difetti, si adoperino per toglierli o correggerli e tutto
ristabiliscano per una più piena lode di Cristo e di Dio. Insegnino
dunque ai fedeli che il vero culto dei santi non consiste tanto nel moltiplicare
gli atti esteriori, quanto piuttosto nell'intensità del nostro amore
fattivo, col quale, per il maggiore bene nostro e della Chiesa, cerchiamo «dalla
vita dei santi l'esempio, dalla comunione con loro la partecipazione alla loro
sorte e dalla loro intercessione l'aiuto». E d'altra parte insegnino ai
fedeli che il nostro rapporto con gli abitanti del cielo, purché lo si
concepisca alla piena luce della fede, non diminuisce affatto il culto di
adorazione reso a Dio Padre mediante Cristo nello Spirito, ma anzi lo
arricchisce.
Tutti quanti infatti, noi che siamo figli di Dio e costituiamo in Cristo una
sola famiglia (cfr. Eb 3), mentre comunichiamo tra noi nella mutua carità
e nell'unica lode della Trinità santissima, rispondiamo all'intima
vocazione della Chiesa e pregustando partecipiamo alla liturgia della gloria
perfetta. Poiché quando Cristo apparirà e vi sarà la
gloriosa risurrezione dei morti, lo splendore di Dio illuminerà la città
celeste e la sua lucerna sarà l'Agnello (cfr. Ap 21,24). Allora tutta la
Chiesa dei santi con somma felicità di amore adorerà Dio e «l'Agnello
che è stato ucciso» (Ap 5,12), proclamando a una voce: «A colui
che siede sul trono e all'Agnello, benedizione onore, gloria e dominio per tutti
i secoli dei secoli » (Ap 5,13-14).
CAPITOLO VIII
LA BEATA MARIA VERGINE MADRE DI DIO NEL MISTERO DI CRISTO E DELLA
CHIESA
I. Proemio
52. Volendo Dio misericordiosissimo e sapientissimo compiere la redenzione
del mondo, « quando venne la pienezza dei tempi, mandò il suo
Figlio, nato da una donna... per fare di noi dei figli adottivi» (Gal
4,4-5), « Egli per noi uomini e per la nostra salvezza è disceso dal
cielo e si è incarnato per opera dello Spirito Santo da Maria vergine ».
Questo divino mistero di salvezza ci è rivelato e si continua nella
Chiesa, che il Signore ha costituita quale suo corpo e nella quale i fedeli,
aderendo a Cristo capo e in comunione con tutti i suoi santi, devono pure
venerare la memoria «innanzi tutto della gloriosa sempre vergine Maria,
madre del Dio e Signore nostro Gesù Cristo »
Maria e la Chiesa
53. Infatti Maria vergine, la quale all'annunzio dell'angelo accolse nel
cuore e nel corpo il Verbo di Dio e portò la vita al mondo, è
riconosciuta e onorata come vera madre di Dio e Redentore. Redenta in modo
eminente in vista dei meriti del Figlio suo e a lui unita da uno stretto e
indissolubile vincolo, è insignita del sommo ufficio e dignità di
madre del Figlio di Dio, ed è perciò figlia prediletta del Padre e
tempio dello Spirito Santo; per il quale dono di grazia eccezionale precede di
gran lunga tutte le altre creature, celesti e terrestri. Insieme però,
quale discendente di Adamo, è congiunta con tutti gli uomini bisognosi di
salvezza; anzi, è « veramente madre delle membra (di Cristo)...
perché cooperò con la carità alla nascita dei fedeli della
Chiesa, i quali di quel capo sono le membra ». Per questo è anche
riconosciuta quale sovreminente e del tutto singolare membro della Chiesa,
figura ed eccellentissimo modello per essa nella fede e nella carità; e
la Chiesa cattolica, istruita dallo Spirito Santo, con affetto di pietà
filiale la venera come madre amatissima.
L'intenzione del Concilio
54. Perciò il santo Concilio, mentre espone la dottrina riguardante
la Chiesa, nella quale il divino Redentore opera la salvezza, intende illustrare
attentamente da una parte, la funzione della beata Vergine nel mistero del Verbo
incarnato e del corpo mistico, dall'altra i doveri degli uomini, e i doveri dei
credenti in primo luogo. Il Concilio tuttavia non ha in animo di proporre una
dottrina esauriente su Maria, né di dirimere le questioni che il lavoro
dei teologi non ha ancora condotto a una luce totale. Permangono quindi nel loro
diritto le sentenze, che nelle scuole cattoliche vengono liberamente proposte
circa colei, che nella Chiesa santa occupa, dopo Cristo, il posto più
alto e il più vicino a noi 4.
II. Funzione della beata Vergine nell'economia della salvezza
La madre del Messia nell'Antico Testamento
55. I libri del Vecchio e Nuovo Testamento e la veneranda tradizione
mostrano in modo sempre più chiaro la funzione della madre del Salvatore
nella economia della salvezza e la propongono per così dire alla nostra
contemplazione. I libri del Vecchio Testamento descrivono la storia della
salvezza, nella quale lentamente viene preparandosi la venuta di Cristo nel
mondo. Questi documenti primitivi, come sono letti nella Chiesa e sono capiti
alla luce dell'ulteriore e piena rivelazione, passo passo mettono sempre più
chiaramente in luce la figura di una donna: la madre del Redentore. Sotto questa
luce essa viene già profeticamente adombrata nella promessa, fatta ai
progenitori caduti in peccato, circa la vittoria sul serpente (cfr. Gen 3,15).
Parimenti, è lei, la Vergine, che concepirà e partorirà un
Figlio, il cui nome sarà Emanuele (cfr. Is 7, 14; Mt 1,22-23). Essa
primeggia tra quegli umili e quei poveri del Signore che con fiducia attendono e
ricevono da lui la salvezza. E infine con lei, la figlia di Sion per eccellenza,
dopo la lunga attesa della promessa, si compiono i tempi e si instaura la nuova
« economia », quando il Figlio di Dio assunse da lei la natura umana
per liberare l'uomo dal peccato coi misteri della sua carne.
Maria nell'annunciazione
56. Il Padre delle misericordie ha voluto che l'accettazione da parte della
predestinata madre precedesse l'incarnazione, perché così, come
una donna aveva contribuito a dare la morte, una donna contribuisse a dare la
vita. Ciò vale in modo straordinario della madre di Gesù, la quale
ha dato al mondo la vita stessa che tutto rinnova e da Dio è stata
arricchita di doni consoni a tanto ufficio. Nessuna meraviglia quindi se presso
i santi Padri invalse l'uso di chiamare la madre di Dio la tutta santa e immune
da ogni macchia di peccato, quasi plasmata dallo Spirito Santo e resa nuova
creatura. Adornata fin dal primo istante della sua concezione dagli splendori di
una santità del tutto singolare, la Vergine di Nazaret è salutata
dall'angelo dell'annunciazione, che parla per ordine di Dio, quale « piena
di grazia » (cfr. Lc 1,28) e al celeste messaggero essa risponde «
Ecco l'ancella del Signore: si faccia in me secondo la tua parola » (Lc
1,38). Così Maria, figlia di Adamo, acconsentendo alla parola divina,
diventò madre di Gesù, e abbracciando con tutto l'animo, senza che
alcun peccato la trattenesse, la volontà divina di salvezza, consacrò
totalmente se stessa quale ancella del Signore alla persona e all'opera del
Figlio suo, servendo al mistero della redenzione in dipendenza da lui e con lui,
con la grazia di Dio onnipotente. Giustamente quindi i santi Padri ritengono che
Maria non fu strumento meramente passivo nelle mani di Dio, ma che cooperò
alla salvezza dell'uomo con libera fede e obbedienza. Infatti, come dice
Sant'Ireneo, essa «con la sua obbedienza divenne causa di salvezza per sé
e per tutto il genere umano ». Onde non pochi antichi Padri nella loro
predicazione volentieri affermano con Ireneo che « il nodo della
disobbedienza di Eva ha avuto la sua soluzione coll'obbedienza di Maria; ciò
che la vergine Eva legò con la sua incredulità, la vergine Maria
sciolse con la sua fede» e, fatto il paragone con Eva, chiamano Maria «madre
dei viventi e affermano spesso: « la morte per mezzo di Eva, la vita per
mezzo di Maria ».
Maria e l'infanzia di Gesù
57. Questa unione della madre col figlio nell'opera della redenzione si
manifesta dal momento della concezione verginale di Cristo fino alla morte di
lui; e prima di tutto quando Maria, partendo in fretta per visitare Elisabetta,
è da questa proclamata beata per la sua fede nella salvezza promessa,
mentre il precursore esultava nel seno della madre (cfr. Lc 1,41-45); nella
natività, poi, quando la madre di Dio mostrò lieta ai pastori e ai
magi il Figlio suo primogenito, il quale non diminuì la sua verginale
integrità, ma la consacrò l0 Quando poi lo presentò al
Signore nel tempio con l'offerta del dono proprio dei poveri, udì Simeone
profetizzare che il Figlio sarebbe divenuto segno di contraddizione e che una
spada avrebbe trafitto l'anima della madre, perché fossero svelati i
pensieri di molti cuori (cfr. Lc 2,34-35). Infine, dopo avere perduto il
fanciullo Gesù e averlo cercato con angoscia, i suoi genitori lo
trovarono nel tempio occupato nelle cose del Padre suo, e non compresero le sue
parole. E la madre sua conservava tutte queste cose in cuor suo e le meditava
(cfr. Lc 2,41-51).
Maria e la vita pubblica di Gesù
58. Nella vita pubblica di Gesù la madre sua appare distintamente fin
da principio, quando alle nozze in Cana di Galilea, mossa a compassione, indusse
con la sua intercessione Gesù Messia a dar inizio ai miracoli (cfr. Gv 2
1-11). Durante la predicazione di lui raccolse le parole con le quali egli,
mettendo il Regno al di sopra delle considerazioni e dei vincoli della carne e
del sangue, proclamò beati quelli che ascoltano e custodiscono la parola
di Dio (cfr Mc 3,35; Lc 11,27-28), come ella stessa fedelmente faceva (cfr. Lc
2,19 e 51). Così anche la beata Vergine avanzò nella
peregrinazione della fede e serbò fedelmente la sua unione col Figlio
sino alla croce, dove, non senza un disegno divino, se ne stette (cfr. Gv
19,25), soffrendo profondamente col suo Unigenito e associandosi con animo
materno al suo sacrifico, amorosamente consenziente all'immolazione della
vittima da lei generata; e finalmente dallo stesso Gesù morente in croce
fu data quale madre al discepolo con queste parole: Donna, ecco tuo figlio (cfr.
Gv 19,26-27).
Maria dopo l'ascensione
59. Essendo piaciuto a Dio di non manifestare apertamente il mistero della
salvezza umana prima di effondere lo Spirito promesso da Cristo, vediamo gli
apostoli prima del giorno della Pentecoste « perseveranti d'un sol cuore
nella preghiera con le donne e Maria madre di Gesù e i suoi fratelli»
(At 1,14); e vediamo anche Maria implorare con le sue preghiere il dono dello
Spirito che all'annunciazione, l'aveva presa sotto la sua ombra. Infine la
Vergine immacolata, preservata immune da ogni macchia di colpa originale finito
il corso della sua vita terrena, fu assunta alla celeste gloria in anima e corpo
e dal Signore esaltata quale regina dell'universo per essere così più
pienamente conforme al figlio suo, Signore dei signori (cfr. Ap 19,16) e
vincitore del peccato e della morte.
III. La beata Vergine e la Chiesa
Maria e Cristo unico mediatore
60. Uno solo è il nostro mediatore, secondo le parole dell'Apostolo: «
Poiché non vi è che un solo Dio, uno solo è anche il
mediatore tra Dio e gli uomini, l'uomo Cristo Gesù, che per tutti ha dato
se stesso in riscatto » (1 Tm 2,5-6). La funzione materna di Maria verso
gli uomini in nessun modo oscura o diminuisce questa unica mediazione di Cristo,
ma ne mostra l'efficacia. Ogni salutare influsso della beata Vergine verso gli
uomini non nasce da una necessità oggettiva, ma da una disposizione
puramente gratuita di Dio, e sgorga dalla sovrabbondanza dei meriti di Cristo;
pertanto si fonda sulla mediazione di questi, da essa assolutamente dipende e
attinge tutta la sua efficacia, e non impedisce minimamente l'unione immediata
dei credenti con Cristo, anzi la facilita.
Cooperazione alla redenzione
61. La beata Vergine, predestinata fino dall'eternità, all'interno
del disegno d'incarnazione del Verbo, per essere la madre di Dio, per
disposizione della divina Provvidenza fu su questa terra l'alma madre del divino
Redentore, generosamente associata alla sua opera a un titolo assolutamente
unico, e umile ancella del Signore, concependo Cristo, generandolo, nutrendolo,
presentandolo al Padre nel tempio, soffrendo col Figlio suo morente in croce,
ella cooperò in modo tutto speciale all'opera del Salvatore,
coll'obbedienza, la fede, la speranza e l'ardente carità, per restaurare
la vita soprannaturale delle anime. Per questo ella è diventata per noi
madre nell'ordine della grazia.
Funzione salvifíca subordinata
62. E questa maternità di Maria nell'economia della grazia perdura
senza soste dal momento del consenso fedelmente prestato nell'Annunciazione e
mantenuto senza esitazioni sotto la croce, fino al perpetuo coronamento di tutti
gli eletti. Difatti anche dopo la sua assunzione in cielo non ha interrotto
questa funzione salvifica, ma con la sua molteplice intercessione continua a
ottenerci i doni che ci assicurano la nostra salvezza eterna. Con la sua materna
carità si prende cura dei fratelli del Figlio suo ancora peregrinanti e
posti in mezzo a pericoli e affanni, fino a che non siano condotti nella patria
beata. Per questo la beata Vergine è invocata nella Chiesa con i titoli
di avvocata, ausiliatrice, soccorritrice, mediatrice. Ciò però va
inteso in modo che nulla sia detratto o aggiunto alla dignità e alla
efficacia di Cristo, unico mediatore.
Nessuna creatura infatti può mai essere paragonata col Verbo
incarnato e redentore. Ma come il sacerdozio di Cristo è in vari modi
partecipato, tanto dai sacri ministri, quanto dal popolo fedele, e come l'unica
bontà di Dio è realmente diffusa in vari modi nelle creature, così
anche l'unica mediazione del Redentore non esclude, bensì suscita nelle
creature una varia cooperazione partecipata da un'unica fonte.
E questa funzione subordinata di Maria la Chiesa non dubita di riconoscerla
apertamente; essa non cessa di farne l'esperienza e la raccomanda all'amore dei
fedeli, perché, sostenuti da questo materno aiuto, siano più
intimamente congiunti col Mediatore e Salvatore.
Maria vergine e madre, modello della Chiesa
63. La beata Vergine, per il dono e l'ufficio della divina maternità
che la unisce col Figlio redentore e per le sue singolari grazie e funzioni, è
pure intimamente congiunta con la Chiesa: la madre di Dio è figura della
Chiesa, come già insegnava sant'Ambrogio, nell'ordine cioè della
fede, della carità e della perfetta unione con Cristo. Infatti nel
mistero della Chiesa, la quale pure è giustamente chiamata madre e
vergine, la beata vergine Maria occupa il primo posto, presentandosi in modo
eminente e singolare quale vergine e quale madre. Ciò perché per
la sua fede ed obbedienza generò sulla terra lo stesso Figlio di Dio,
senza contatto con uomo, ma adombrata dallo Spirito Santo, come una nuova Eva
credendo non all'antico serpente, ma, senza alcuna esitazione, al messaggero di
Dio. Diede poi alla luce il Figlio, che Dio ha posto quale primogenito tra i
molti fratelli (cfr. Rm 8,29), cioè tra i credenti, alla rigenerazione e
formazione dei quali essa coopera con amore di madre.
La Chiesa vergine e madre
64. Orbene, la Chiesa contemplando la santità misteriosa della
Vergine, imitandone la carità e adempiendo fedelmente la volontà
del Padre, per mezzo della parola di Dio accolta con fedeltà diventa essa
pure madre, poiché con la predicazione e il battesimo genera a una vita
nuova e immortale i figli, concepiti ad opera dello Spirito Santo e nati da Dio.
Essa pure è vergine, che custodisce integra e pura la fede data allo
sposo; imitando la madre del suo Signore, con la virtù dello Spirito
Santo conserva verginalmente integra la fede, salda la speranza, sincera la
carità.
La Chiesa deve imitare la virtù di Maria
65. Mentre la Chiesa ha già raggiunto nella beatissima Vergine quella
perfezione, che la rende senza macchia e senza ruga (cfr. Ef 5,27), i fedeli del
Cristo si sforzano ancora di crescere nella santità per la vittoria sul
peccato; e per questo innalzano gli occhi a Maria, la quale rifulge come modello
di virtù davanti a tutta la comunità degli eletti. La Chiesa,
raccogliendosi con pietà nel pensiero di Maria, che contempla alla luce
del Verbo fatto uomo, con venerazione penetra più profondamente nel
supremo mistero dell'incarnazione e si va ognor più conformando col suo
sposo. Maria infatti, la quale, per la sua intima partecipazione alla storia
della salvezza, riunisce per cosi dire e riverbera le esigenze supreme della
fede, quando è fatta oggetto della predicazione e della venerazione
chiama i credenti al Figlio suo, al suo sacrificio e all'amore del Padre. A sua
volta la Chiesa, mentre ricerca la gloria di Cristo, diventa più simile
al suo grande modello, progredendo continuamente nella fede, speranza e carità
e in ogni cosa cercando e compiendo la divina volontà. Onde anche nella
sua opera apostolica la Chiesa giustamente guarda a colei che generò il
Cristo, concepito appunto dallo Spirito Santo e nato dalla Vergine per nascere e
crescere anche nel cuore dei fedeli per mezzo della Chiesa. La Vergine infatti
nella sua vita fu modello di quell'amore materno da cui devono essere animati
tutti quelli che nella missione apostolica della Chiesa cooperano alla
rigenerazione degli uomini.
IV. Il culto della beata Vergine nella Chiesa
Natura e fondamento del culto
66. Maria, perché madre santissima di Dio presente ai misteri di
Cristo, per grazia di Dio esaltata, al di sotto del Figlio, sopra tutti gli
angeli e gli uomini, viene dalla Chiesa giustamente onorata con culto speciale.
E di fatto, già fino dai tempi più antichi, la beata Vergine è
venerata col titolo di « madre di Dio » e i fedeli si rifugiano sotto
la sua protezione, implorandola in tutti i loro pericoli e le loro necessita.
Soprattutto a partire dal Concilio di Efeso il culto del popolo di Dio verso
Maria crebbe mirabilmente in venerazione e amore, in preghiera e imitazione,
secondo le sue stesse parole profetiche: «Tutte le generazioni mi
chiameranno beata, perché grandi cose mi ha fatto l'Onnipotente» (Lc
1,48). Questo culto, quale sempre è esistito nella Chiesa sebbene del
tutto singolare, differisce essenzialmente dal culto di adorazione reso al Verbo
incarnato cosi come al Padre e allo Spirito Santo, ed è eminentemente
adatto a promuoverlo. Infatti le varie forme di devozione verso la madre di Dio,
che la Chiesa ha approvato, mantenendole entro i limiti di una dottrina sana e
ortodossa e rispettando le circostanze di tempo e di luogo, il temperamento e il
genio proprio dei fedeli, fanno si che, mentre è onorata la madre, il
Figlio, al quale sono volte tutte le cose (cfr Col 1,15-16) e nel quale «piacque
all'eterno Padre di far risiedere tutta la pienezza » (Col 1,19), sia
debitamente conosciuto, amato, glorificato, e siano osservati i suoi
comandamenti.
Norme pastorali
67. Il santo Concilio formalmente insegna questa dottrina cattolica. Allo
stesso tempo esorta tutti i figli della Chiesa a promuovere generosamente il
culto, specialmente liturgico, verso la beata Vergine, ad avere in grande stima
le pratiche e gli esercizi di pietà verso di lei, raccomandati lungo i
secoli dal magistero della Chiesa; raccomanda di osservare religiosamente quanto
in passato è stato sancito circa il culto delle immagini di Cristo, della
beata Vergine e dei santi. Esorta inoltre caldamente i teologi e i predicatori
della parola divina ad astenersi con ogni cura da qualunque falsa esagerazione,
come pure da una eccessiva grettezza di spirito, nel considerare la singolare
dignità della madre di Dio. Con lo studio della sacra Scrittura, dei
santi Padri, dei dottori e delle liturgie della Chiesa, condotto sotto la guida
del magistero, illustrino rettamente gli uffici e i privilegi della beata
Vergine, i quali sempre sono orientati verso il Cristo, origine della verità
totale, della santità e della pietà. Sia nelle parole che nei
fatti evitino diligentemente ogni cosa che possa indurre in errore i fratelli
separati o qualunque altra persona, circa la vera dottrina della Chiesa. I
fedeli a loro volta si ricordino che la vera devozione non consiste né in
uno sterile e passeggero sentimentalismo, né in una certa qual vana
credulità, bensì procede dalla fede vera, dalla quale siamo
portati a riconoscere la preminenza della madre di Dio, e siamo spinti al
filiale amore verso la madre nostra e all'imitazione delle sue virtù.
V. Maria, segno di certa speranza e di consolazione per il peregrinante
popolo di Dio
Maria, segno del popolo di Dio
68. La madre di Gesù, come in cielo, in cui è già
glorificata nel corpo e nell'anima, costituisce l'immagine e l'inizio della
Chiesa che dovrà avere il suo compimento nell'età futura, così
sulla terra brilla ora innanzi al peregrinante popolo di Dio quale segno di
sicura speranza e di consolazione, fino a quando non verrà il giorno del
Signore (cfr. 2 Pt 3,10).
Maria interceda per l'unione dei cristiani
69. Per questo santo Concilio è di grande gioia e consolazione il
fatto che vi siano anche tra i fratelli separati di quelli che tributano il
debito onore alla madre del Signore e Salvatore, specialmente presso gli
Orientali, i quali vanno, con ardente slancio ed anima devota, verso la madre di
Dio sempre vergine per renderle il loro culto. Tutti i fedeli effondano
insistenti preghiere alla madre di Dio e madre degli uomini, perché, dopo
aver assistito con le sue preghiere la Chiesa nascente, anche ora, esaltata in
cielo sopra tutti i beati e gli angeli, nella comunione dei santi interceda
presso il Figlio suo, fin tanto che tutte le famiglie di popoli, sia quelle
insignite del nome cristiano, sia quelle che ancora ignorano il loro Salvatore,
in pace e concordia siano felicemente riunite in un solo popolo di Dio, a gloria
della santissima e indivisibile Trinità.
21 novembre 1964
DAGLI ATTI DEL CONCILIO ECUMENICO VATICANO II
Notificazioni fatte dall'Ecc.mo Segretario generale nella congregazione
generale 123.a
È stato chiesto quale debba essere la qualificazione teologica della
dottrina esposta nello schema sulla Chiesa e sottoposto alla votazione. La
commissione dottrinale ha dato al quesito questa risposta: « Come è
di per sé evidente, il testo del Concilio deve sempre essere interpretato
secondo le regole generali da tutti conosciute ». In pari tempo la
commissione dottrinale rimanda alla sua dichiarazione del 6 marzo 1964, di cui
trascriviamo il testo:
«Tenuto conto dell'uso conciliare e del fine pastorale del presente
Concilio, questo definisce come obbliganti per tutta la Chiesa i soli punti
concernenti la fede o i costumi, che esso stesso abbia apertamente dichiarato
come tali.
«Le altre cose che il Concilio propone, in quanto dottrina del
magistero supremo della Chiesa, tutti e singoli i fedeli devono accettarle e
tenerle secondo lo spirito dello stesso Concilio, il quale risulta sia dalla
materia trattata, sia dalla maniera in cui si esprime, conforme alle norme
d'interpretazione teologica».
Per mandato dell'autorità superiore viene comunicata ai Padri una
nota esplicativa previa circa i « modi » concernenti il capo
terzo dello schema sulla Chiesa. La dottrina esposta nello stesso capo terzo
deve essere spiegata e compresa secondo lo spirito e la sentenza di questa nota.
16 novembre 1964
NOTA ESPLICATIVA PREVIA
La commissione ha stabilito di premettere all'esame dei "modi" le
seguenti osservazioni generali:
1) "Collegio" non si intende in senso « strettamente
giuridico », cioè di un gruppo di eguali, i quali abbiano demandata
la loro potestà al loro presidente, ma di un gruppo stabile, la cui
struttura e autorità deve essere dedotta dalla Rivelazione. Perciò
nella risposta al modus 12 si dice esplicitamente dei Dodici che il Signore li
costituì « a modo di collegio o "gruppo" (coetus) stabile ».
Cfr. anche il modus 53, c. Per la stessa ragione, per il collegio dei vescovi si
usano con frequenza anche le parole "ordine" (ordo) o "corpo"
(corpus). Il parallelismo fra Pietro e gli altri apostoli da una parte, e il
sommo Pontefice e i vescovi dall'altra, non implica la trasmissione della potestà
straordinaria degli apostoli ai loro successori, né, com'è chiaro,
"uguaglianza" (aequalitatem) tra il capo e le membra del collegio, ma
solo "proporzionalità" (proportionalitatem) fra la prima
relazione (Pietro apostoli) e l'altra (papa vescovi). Perciò la
commissione ha stabilito di scrivere nel n. 22 non "medesimo" (eodem)
ma "pari" modo. Cfr. modus 57.
2) Si diventa "membro del collegio" in virtù della
consacrazione episcopale e mediante la comunione gerarchica col capo del
collegio e con le membra. Cfr. n. 22.
Nella consacrazione è data una "ontologica" partecipazione
ai "sacri uffici", come indubbiamente consta dalla tradizione, anche
liturgica. Volutamente è usata la parola "uffici" (munerum), e
non "potestà" (potestatum), perché quest'ultima voce
potrebbe essere intesa di potestà esercitabile di fatto (ad actum
expedita). Ma perché si abbia tale potestà esercitabile di fatto,
deve intervenire la "determinazione" canonica o "giuridica"
(iuridica determinatio) da parte dell'autorità gerarchica. E questa
determinazione della potestà può consistere nella concessione di
un particolare ufficio o nell'assegnazione dei sudditi, ed è concessa
secondo le norme approvate dalla suprema autorità. Una siffatta ulteriore
norma è richiesta "dalla natura delle cose", trattandosi di
uffici, che devono essere esercitati da "più soggetti", che per
volontà di Cristo cooperano in modo gerarchico. È evidente che
questa "comunione" è stata applicata nella vita della Chiesa
secondo le circostanze dei tempi, prima di essere per così dire
codificata "nel diritto". Perciò è detto espressamente
che è richiesta la comunione "gerarchica" col capo della Chiesa
e con le membra. "Comunione" è un concetto tenuto in grande
onore nella Chiesa antica (ed anche oggi, specialmente in Oriente). Per essa non
si intende un certo vago "sentimento", ma una "realtà
organica", che richiede una forma giuridica e che è allo stesso
tempo animata dalla carità. La commissione quindi, quasi d'unanime
consenso, stabilì che si scrivesse: « nella comunione "gerarchica"
». Cfr. Mod. 40 ed anche quanto è detto della "missione
canonica", sotto il n. 24. I documenti dei recenti romani Pontefici circa
la giurisdizione dei vescovi vanno interpretati come attinenti questa necessaria
determinazione delle potestà.
3) Il collegio, che non si dà senza il capo, è detto essere: «anche
esso soggetto di suprema e piena potestà sulla Chiesa universale ».
Ciò va necessariamente ammesso, per non porre in pericolo la pienezza
della potestà del romano Pontefice. Infatti il collegio necessariamente e
sempre si intende con il suo capo, "il quale nel collegio conserva integro
l'ufficio di vicario di Cristo e pastore della Chiesa universale". In altre
parole: la distinzione non è tra il romano Pontefice e i vescovi presi
insieme, ma tra il romano Pontefice separatamente e il romano Pontefice insieme
con i vescovi. E siccome il romano Pontefice e il "capo" del collegio,
può da solo fare alcuni atti che non competono in nessun modo ai vescovi,
come convocare e dirigere il collegio, approvare le norme dell'azione, ecc. Cfr.
Modo 81. Il sommo Pontefice, cui è affidata la cura di tutto il gregge di
Cristo, giudica e determina, secondo le necessità della Chiesa che
variano nel corso dei secoli, il modo col quale questa cura deve essere attuata,
sia in modo personale, sia in modo collegiale. Il romano Pontefice
nell'ordinare, promuovere, approvare l'esercizio collegiale, procede secondo la
propria discrezione, avendo di mira il bene della Chiesa.
4) Il sommo Pontefice, quale pastore supremo della Chiesa, può
esercitare la propria potestà in ogni tempo a sua discrezione, come è
richiesto dallo stesso suo ufficio. Ma il collegio, pur esistendo sempre, non
per questo permanentemente agisce con azione "strettamente"
collegiale, come appare dalla tradizione della Chiesa. In altre parole: Non
sempre è «in pieno esercizio», anzi non agisce con atto
strettamente collegiale se non ad intervalli e "col consenso del capo".
Si dice « col consenso del capo », perché non si pensi a una "dipendenza",
come nei confronti di chi è "estraneo"; il termine "consenso"
richiama, al contrario, la "comunione" tra il capo e le membra e
implica la necessità dell'atto", il quale propriamente compete al
capo. La cosa è esplicitamente affermata nel n. 22 ed è ivi
spiegata. La formula negativa "se non" (nonnisi) comprende tutti i
casi, per cui è evidente che le "norme" approvate dalla suprema
autorità devono sempre essere osservate. Cfr. modus 84.
Dovunque appare che si tratta di "unione" dei vescovi "col
loro capo", e mai di azione dei vescovi "indipendentemente" dal
papa. In tal caso, infatti, venendo a mancare l'azione del capo, i vescovi non
possono agire come collegio, come appare dalla nozione di "collegio".
Questa gerarchica comunione di tutti i vescovi col sommo Pontefice è
certamente abituale nella tradizione.
N. B.- Senza la comunione gerarchica l'ufficio sacramentale ontologico, che
si deve distinguere dall'aspetto canonico giuridico, "non può"
essere esercitato. La commissione ha pensato bene di non dover entrare in
questioni di "liceità" e "validità", le quali
sono lasciate alla discussione dei teologi, specialmente per ciò che
riguarda la potestà che di fatto è esercitata presso gli Orientali
separati e che viene spiegata in modi diversi.
+ PERICLE FELICI Arcivescovo tit. di Samosata Segretario
generale del Concilio
|