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Storia di Santa Marina

Scritta dal Can. Girolamo De Marco

Aprile 1888

 

Un buon uomo e semplice, di condizione popolano, era in sin dalla fanciullezza vissuto nel timore di Dio e nell'amore degli uomini: amore e timore che, giunto all'età matura, aveva cercato d'infondere e coltivare nel cuore della donna sua e di una unica figliuola. Ma Dio lo chiamava, novello Patriarca, a più dure prove di fedeltà e a sacrifizii maggiori. Quel connubio, il quale pareva avesse sortito tutte le benedizioni del Cielo, venne, indi a non molto, visitato dalla sventura. Ad Eugenio (che così chiamavasi il buon uomo), fu da repentino morbo rapita la fida compagna delle domestiche cure, la quale egli aveva tolto in moglie assai maturo di età. Sopraffatto ma non vinto dal dolore, riconobbe in quella visita di Dio una occasione di trarne partito a maggior perfezione. E stante quei tempi calamitosi e il disinganno dei diletti mondani, risolse di affidare ad alcuni parenti la sua Marina, ed egli ridursi a vita solitaria in un monastero.

Quivi passava i giorni più sereni e tranquilli e benediceva ognora a Dio da cui riconosceva ogni sua buona ispirazione. Ma come il cuore impara dall'amore di Dio quello delle creature, in quel sacro ritiro, mentre era tutto inteso alla perfezione, sentiva alcuna volta un vuoto nelle sue effusioni; sentivasi tratto tratto sviare da quelle delizie soavi della preghiera: cangiava viso, i suoi occhi a poco a poco s'umidivano come quelli di chi ricorda un bene posseduto da lungo tempo, e non ha modo di ricuperarlo mai più. Parevagli di rivedere la sua figliuola, di ascoltarne le meste parole, di sentirne la mano, i baci affettuosi. Allora si riscuoteva: e innanzi la fredda realtà del solitario cadeva in un abbattimento, in un'angoscia che stringeva il cuore. Sebbene gli balenasse alla mente che l'amore paterno è pur virtuoso, e coordinato all'amore di Dio; nell'interno di lui, credente e non duro agli stimoli della coscienza, si appiccava una battaglia, che non cessava di renderlo inquieto, melanconico, pensoso. Forte temeva che quell'affetto non raffreddasse il suo fervore verso colui al quale aveva egli rivolto ogni suo pensiero con i voti più solenni e cordiali; e che quelle non fossero insidie del mal nemico. Epperò, rammaricando, era del continuo inteso a rivolgere la mente da ogni immagine che non fosse di cielo.

Ma noi non siamo esseri meramente spirituali, così che basti alienare lo spirito da un obbietto per cancellarlo affatto nel nostro Cuore. Le impressioni che vengono da natura sono assai profonde e tanto vive, da non lasciare in perfetta calma chi le ebbe a sostenere.

Eugenio, sebbene vegliasse ad allontanare da sé ogni profana idea, e non facesse che raccogliersi ognora più nello esatto adempimento dei suoi religiosi doveri, eccolo, senza addarsene, in preda a nuove ed ambasciose dubbiezze: una profonda malinconia sfioravagli abitualmente le gote. E già, la fronte solcata, l'occhio dolcemente inclinato, i lineamenti dello scarno volto, rivelavano in lui un forte pensiero fortemente perseguito. Non era più quello. Non erano tanto gli slanci del nudo amore paterno, quanto mille sospetti e timori, che la figliuola coll'inoltrarsi degli anni non avesse abbastanza buoni esempi e guida; che non avesse a correr pericolo nell'onestà e nell'innocenza. Tanti pensieri e propositi facea in sé, i quali andavan tutti a finire in un raccapriccio, e nel pentimento dell'esser andato troppo oltre in simili fantasie di divagamento e distrazioni mondane. S'ingegnava di parer disinvolto e piacevole: ma ogni tanto la pena traboccava di fuori e gli si vedeva in viso. Il sentimento di tenerezza per la derelitta figliuola lo aveva soggiogato e conquisti.

La cosa andò tant'oltre, che egli non potea più celare la causa del suo scontento. Un di l'Abate ed altri Monaci vollero domandargli il perché di tanta afflizione ed abbandono. Ed egli, tra pensoso e pauroso, tacque le vere ragioni della sua malinconia; e rispondendo, rispondea come suole ognuno che dissimulando i propri dispiaceri, si tiene sui generali, ma poi si pente di non essersi aperto, e questo torna ad aggravare maggiormente il suo dolore. Alfine a nuove e più caritatevoli istanze, dischiuse il suo cuore. Disse, che nel mondo aveva lasciato un figliuolo; ch'egli grandemente temeva della vita di lui e del mal governo che ne avessero fatto i congiunti; che Iddio non senza una particolare sua grazia ridotto glielo aveva nella mente, forse non soddisfatto del nuovo stato da lui assunto a danno dell'innocente creatura; Che

 a lui parea convenirgli lasciare il monastero per tornare alle intermesse cure di padre. L'Abate vedendo lui così lamentare che il dilettissimo figliuolo vivesse lontano dalle paterne sollecitudini, e considerando le virtù del religioso monaco, e i danni a cui sarebbe andato incontro il monastero perdendo l'opera zelante del buon religioso, gli disse: Se tu l'ami, va, conducilo qui, ed io lo riceverò per monaco. Esso andò, e mutò abito a quella sua figliuola, fecela ricevere per maschio e posele nome Fra Marino.

In Marina, fanciulla di tre lustri appena, divampò sì cocente desiderio di perfezione, che nel chiostro essendo ciascuno ignaro di tale segreto, ella menava santamente la vita: e dalle virtù, dalle preghiere continue, massime dalla rassegnazione a quella vita austera, bene traspariva l'animo grande di lei. Mentre così santamente procedeva in un vivere tutto il cielo, il padre le faceva insegnare la vita e la santa legge di Cristo; e massimamente l'ammoniva che si guardasse che persona non la conoscesse per femmina insino alla morte, e stesse in guardia dalle insidie del nemico, scaltro come fecondo consigliero del male. Un due anni di poi suo padre morì, ed essa ne fu estremamente desolata. Ma al contrario di come avviene che nelle supreme angosce e senza riparo le anime deboli s'inducono a rammaricare la divina provvidenza; Marina non faceva che rivolgere la mente a Dio, e ripetere: Sia fatta la volontà tua. Fu allora massimamente che cominciò a parere il modello di tutte le virtù. Tra le altre l'aria di vereconda e mal coperta mestizia provocava la curiosità, e le attirava la benevolenza di tutti. La grazia, la religiosità, l'obbedienza, la soavità del carattere, l'affidabilità delle maniere, l'ingenua nobiltà del portamento attiravale tanto affetto, che non vi era labbro in quel sacro ritiro, che non profferisse il suo nome fra gli encomii più schietti e cordiali.

Ma restava a vedere una delle più stupende meraviglie della vita già tanto mirabile di questa donna.

Aveva quel monastero un paio di buoi col carro, per mezzo del quale l'Abate mandava alcuni de' monaci al mare, che vi era presso a tre miglia; e quivi avevano ricetto da un benigno uomo, di nome Pandazio, presso cui ricevevano tutto che occorresse riportare col carro al Monastero. Un giorno disse l'Abate a Fra Marino: Come non vai tu col carro ad aiutare? Ed esso rispose umilmente, che v'andrebbe volentieri. E cominciò Fra Marino ad andare col carro: e quando talvolta gli parea tardi di tornare al monastero, rimanea in casa di questo Pandazio con i suoi compagni. Avvenne in quel tempo per opera del nemico, che un cavaliero, amando una fanciulla di quell'ospite, peccò in lussuria con lei segretamente, sì che ella incinse. Di che avvedutosi il padre dopo alquanto tempo, ed affligendo la figlia in mille modi, e caricandola di obbrobrii, cercava per chi ella fosse incinta. Costei ordinato con diabolica astuzia la calunnia, finse un bel giorno di dire la verità esclamando: "Quel monaco che ha nome Marino, che albergammo qui in casa più volte, mi forzò, e per lui sono incinta". La qual cosa udendo il padre, corse a lamentarsene presso l'Abate, e nol potendo credere, stante la santità di Fra Marino, rispose che voleva sapere il vero da lui stesso in sua presenza. E facendolo chiamare, e domandandolo se fosse vero ch'egli avesse forzata la figliuola di Pandanzio; all'udir queste cose Fra Marino, vedendosi bruscamente percosso in quello che aveva caro sopra ogni cosa al mondo, la sua pudicizia, si senti gelare il sangue, restò muto e restrinsesi; e anzichè dichiarare la sua innocenza, cominciò subito a piangere, e appena gli rimase tanto di voce da dire: Padre ho peccato, e sono apparecchiato di fare la penitenza. E gettandosi in ginocchio pianse e pregò tanto, che più non si sarebbe potuto.

L'Abate allora prese a svillaneggiarlo, arse di molto furore, e con irose parole condannollo ad uscire dal monastero. Ma le difficoltà, siccome rompono le anime deboli, ingagliardiscono le forti. La santa fanciulla non si rimoveva dal suo proposito di soffrire tutto per Iddio. E temendo sempre più che la carne, pessima consigliera, non ribellasse allo spirito, non ebbe altro pensiero che di tenerla per ogni maniera soggetta. Umilmente sostenne ogni cosa, e non s'indusse mai a dire la verità; ma stavasi fuori del Monastero alla porta, e giaceva in terra piangendo, e non potea finire di piangere come di forte peccato che ella avesse fatto, e viveva dell'elemosina che aveva alla porta. Spesso con infocati sospiri parea si sfocasse in gemiti, e rompesse in esclamazioni a Dio, dicendo: Deh tu che penetri i cuori e gli affetti, non mi lasciare senza il tuo conforto: tu luce, io tenebre; tu sei, io non sono. Per verità a ritemprare gli animi nella virtù e renderli generosi e costanti, è spesso necessario questo cammino tra i triboli delle calunnie.Le quali mentre piangono l'anima di acerbissimo dolore, giovano ad innalzare viemeglio, conosciute ingratissime le creature, a colui che solo può leggere nell'intimo dell'uomo. La vita di Marina è appena un punto, è vero, nella storia della Chiesa universale: ma è un punto luminosissimo, sul cui raggio puro e benefico se passò per allora una nube oltraggiosa, non fu se non perché tornasse a splendere più bello.

Venuto il tempo del parto della figlia di Pandazio, ella partorì un fanciullo: e poiché fu levato dal latte, la madre di lei lo recò a Fra Marino e dissegli con grande ira: Or ecco Fra Marino, nutrica questo figliuolo, come tu puoi. Esso lo ricevè umilmente, e nutricavalo delle elemosine che aveva. E stette così per cinque interi anni. Un di alcuni monaci a vedere Fra Marino sedente a terra e tutto in lacrime, ne ebbero compassione più che mai altra volta: onde se gli proffersero di interporre, se lo avesse a grado, la loro opera presso l'Abate per indurlo a riceverlo in Monastero. Fra Marino levò soavemente gli occhi al cielo, e poi tornò subito ad abbassarli senza far motto. E quelli andarono all'Abate e dissero: Padre perdona ormai a Fra Marino e ricevilo in Monastero: tu sai che egli è stato cinque anni di fuori, facendo penitenza alla porta, e mai non si è partito: onde ti preghiamo poiché è sì umiliato, e conosce sì bene la sua colpa, che tu gli faccia misericordia secondo che fa Cristo e comanda che si faccia al peccatore che si umilia e conosce. E con molti preghi appena lo poterono indurre a riceverlo.

Alfine, quando si lasciò vincere, fece chiamare Fra Marino e dissegli: La lunga tua penitenza e costanza chiaramente ci ha mostrato codesta non essere opera di puerile volontà, ma tutta cosa dello spirito di Dio; sicché per innanzi facendomi io coscienza di resistere al santo desiderio tuo e ai prieghi dei miei fratelli, sia lecito di tornare tra noi. Virilmente e felicemente seguita però il santo cammino verso la perfezione con la penitenza. Ricordati che tuo padre fu tanto buono, e miseti qui piccolo fanciullo: ricordati dei buoni esempi che egli ti diè. Nè esso nè altro monaco di questo Monastero commise mai colpa come hai fatto tu, che ci hai vituperati. Ecco che ai prieghi di questi monaci ti ricevo in Monastero con codesto fanciullo nato di adulterio: conosci il tuo peccato e pensa che, se ne vuoi misericordia, bisogna che ne faccia gran penitenza; ed io ti ricevo con questo patto.

Così ti comando che tu solo spazzi il Monastero e porti via ogni immondezza, e rechi tutta l'acqua che ci bisogna, e forbisca e ricucia tutti i calzamenti dei monaci quanto occorre, e in questo modo ritorni alla mia grazia.

Posta Marina in questa nuova condizione di cose, maravigliosa ed appena credibile fu la ragione di vita che ebbe a vivere. Tenuta come pessimo degli uomini, posta quasi fante di casa ai più vili uffizii, punta con rimproveri continui, acri, spietati; ed ella, senza un conforto, si consumava in se stessa e non godeva più un istante di riposo Pur nondimeno seguita‑va ad indurre pazientissimamente l'animo a quei dolori, che soli ci educano alla virtù e ci rendono capaci del bene.

Come videro, che al crescere della persecuzione, non che venir meno, la fermezza di lei cresceva; non poterono non confessarne apertamente la virtù e la santità; ed ebbero poco di poi a toccarla con mano per via di fatti singolarmente maravigliosi.

I dolori forti dell' animo e le sue durissime fatiche cagionarono infermità al corpo di Marina: onde in poco tempo si morì. Il che essendo annunziato all'Abate, disse: Or vedete che grande peccato si è quello di costui, che Dio non l'ha voluto ricevere a penitenza. Tuttavia andate, e per misericordia seppellitelo, ma lungi dal Monastero. E andando i frati per seppellirlo, e volendolo prima, secondo l'usanza, lavare, trovarono che essa era femmina. Per il che tutti cominciarono a piangere e percuotersi il petto per le afflizioni che le avevano date, dicendo: Cotal virtù e penitenza non fu mai veduta. E tornando alquanti all'Abate quel che era, gli dissero: padre vieni a vedere cosa mirabile. Non sapendo l'Abate quel che era, non vi voleva andare: ma pure, essendogli molto detto, v'andò; e scoprendolo i frati, e mostrarono come era femmina, egli parve imbalordito, impallidi, si atterrì tanto che tremava: indi proruppe in dirottissimo pianto, e cadendo in ginocchio si percuoteva il capo dicendo: 0 santissima anima, ti scongiuro e prego per il nostro Signore Gesù Cristo, che non contenta con me nel di del giudizio al cospetto di Dio, se ingiustamente ti ho afflitta, perché senza colpa l'ho fatto. E comandò che quel corpo fosse lasciato all'oratorio per divozione del popolo.

A quella iniqua giovane che l'aveva infamata, entrò allora il demonio addosso, ed ella sen venne presso il corpo di S. Marina, e gridando diceva la sua colpa, e come l'aveva vituperata a torto. Il settimo giorno dopo la morte della vergine calunniata, dimostrò Dio la santità di lei, operando che la calunniatrice fosse liberata innanzi il corpo venerato della Santa.

Intanto la fama di questa Vergine, per quello che Dio aveva operato in essa, cresceva maravigliosamente presso i cristiani. Essendo rimasto insepolto per otto dì il suo corpo, fu tale accorrere di gente a venerarlo, che la sua morte parve un vero trionfo.

Si favellava ormai per tutte le città e paesi d'intorno de' grandi miracoli avvenuti per intercessione di colei che già chiamavano beata. Il Signore si valeva di essi non solo a peculiare devozione di quelli che erano stati vittima dell'errore, affin di richiamarli in seno alla Chiesa. La sua memoria fu celebrata per più secoli con canzoni. E quando che presso tutta Europa muoveva per l'Oriente all'intento di liberare il S. Sepolcro dalle mani degli infedeli, i Crociati trovarono tuttavia viva la fama delle stupende meraviglie di questa Vergine. E, come avviene in tempi di fede, quei guerrieri, pieno il cuore e la mente della divozione che avevano a quella Santa gli Orientali, tornati ne' loro paesi, non seppero dimenticarla; e fecero ogni opera per diffonderne il culto indicandola protettrice potente di quelli che son fatti segno alle calunnie e alle false accuse. E in Francia, in Ispagna, in Italia, fin d'allora il nome di Marina trovò nei cristiani petti un'eco meravigliosa.

Così, mi penso, dovè intervenire, come dissi di sopra, che col volgere dei tempi, alcuni scrittori di Martirologii e di Leggende, poco studiosi delle tradizioni, credessero avvenirsi in tante sante di tal nome, quante erano le regioni che ne professavano il culto, e attribuissero a ciascuna una patria le mille miglia lontana dalla vera. Era dato agli arditi Veneziani, viaggiatori diligenti ed operosi, di rinvenire e recare alla loro patria il Venerato corpo di S. Marina: quel corpo che venerano tuttavia incorrotto nella Chiesa di S. Maria Formosa.

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